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RICHARD WAGNER A BAYREUTH Considerazioni inattuali, IV 1876

Friedrich Nietzsche - Considerazioni Inattuali IV

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RICHARD WAGNER A BAYREUTH

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RICHARD WAGNER A BAYREUTH Considerazioni inattuali, IV

1876

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Traduzione condotta sull'originale tedesco «Richard Wagner in Bayreuth. (Unzeitgemasse Be-trachtungen, iv)», in Nietzsche Werke, Kritische Gesamtausgabe, Herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari. Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1967. Traduzione di Stefania Bonarelli

L'Introduzione «Titani della "décadence"» di Italo Alighiero Chiusano si riferisce anche ai saggi «Il caso Wagner» e «Nietzsche contra Wagner» che, dato l'ordine cronologico di questa edizione, sono contenuti nel secondo volume.

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Titani della «décadence»

Credo che in tutta la storia dell'umanità non si sia mai assistito a un in­contro-scontro culturale come quello tra i due «dinosauri» Friedrich Nietz­sche e Richard Wagner: in un primo tempo fraternamente alleati per rige­nerare le arti e il pensiero del loro tempo; in una seconda fase lanciati a scannarsi a vicenda (per la verità soprattutto Nietzsche contro Wagner), in un urto di «filosofie» antitetiche da far tremare la terra. I due geniì —per­ché, qualunque posizione si occupi guardandoli con neutrale distacco o parteggiando per l'uno o per l'altro, è fuor di dubbio che di genii si tratta — denunciavano, in partenza, affinità vistose.

Erano, entrambi, germanici dell'Est, più precisamente sassoni (Wagner nativo di Lipsia, Nietzsche nativo di Ròcken, non lontano dalla stessa Lip­sia), e di matrice e formazione protestante (Nietzsche era addirittura figlio di un pastore evangelico). Erano, l'uno e l'altro, appassionati degustatori e coltivatori di musica e di letteratura (un musico altamente professionista Wagner, modestamente dilettante Nietzsche; uno scrittore leggibile ma al­quanto goffo Wagner, di estrema originalità e perfezione Nietzsche). Tutti e due erano discendenti diretti e legittimi del Romanticismo, che Wagner poi rielaborò e assimilò genialmente, trasformandolo in un decadente ma fascinosissimo prodotto europeo, mentre Nietzsche, pur conservandone in sé i germi, finì per superarlo con un netto rifiuto critico.

Ambedue, specie nel periodo in cui furono amichevolmente vicini, erano stregati dalla filosofia di Schopenhauer, cui alla fine reagirono entrambi, ma senza mai riuscire a eliminare dal loro pensiero e dalla loro opera le fe­conde tossine lasciate in loro dal filosofo del pessimismo, della volontà e della compassione. Erano, sia l'uno che l'altro, intensamente interessati al­la figura di Gesù e al cristianesimo. Wagner voleva persino scrivere un 'o-pera in musica su Cristo, poi s'inoltrò nei miti celtico-germanici, infine tornò a note innegabilmente cristiane, anche se mescolate a toni buddisti-co-estetizzanti; Nietzsche da ragazzo componeva poesie e brani musicali degni di un mistico, poi si trasformò in «psicologo del cristianesimo» — in senso quanto mai negativo — e chiuse praticamente la sua vita cosciente con L'Anticristo, l'invettiva più demolitoria che mai sia stata lanciata con­tro la religione derivata dail'«uomo di Nazareth».

Ancora: i due furono, nel loro campo, grandi rivoluzionari (lasciando da parte che Wagner, nel 1849, lo fu anche in senso politico). Dopo il loro passaggio, né la musica né la filosofìa né la letteratura furono più quelle di prima, anzi manifestarono — e in parte tuttora manifestano — profondi e duraturi segni di un mutamento. Per dirla con una formuletta di cui esito ad assumermi la responsabilità, direi che essi — pur approdati a esiti assai lontani e in buona parte antitetici — si sono rivelati, e alla grande, prota­gonisti di quella che Nietzsche chiama così volentieri la décadence, anche se tutti e due pensarono di averne fornito l'antidoto.

I due futuri nemici furono entrambi studiosi e appassionati — Nietzsche

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più sul fronte critico-filologico, Wagner più su quello creativo — della «forma tragedia», e in particolare della tragedia quale fu sentita e realizza­ta dai Greci: e i loro spesso macroscopici fraintendimenti in materia (sì, anche da parte dello specialista Nietzsche, e glielo dissero il suo maestro Friedrich Ritschl e il grande filologo Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf) si rivelarono assai più fecondi di qualunque impeccabile analisi accademi­ca.

Scendendo a cose meno «universali» ma che ebbero ugualmente rilevan­za sul loro sentire, pensare e creare, tutti e due furono elettrizzati dalla guerra franco-prussiana del 1870-71: anche se in seguito le loro posizioni sul nuovo Reich guglielmino si sarebbero molto divaricate.

Aggiungiamo che entrambi furono fortemente attratti dall'Italia, cioè dal Sud mediterraneo, con alcune predilezioni in comune (Venezia, la Sici­lia, la costiera campana), anche se nessuno dei due si fece coinvolgere dalla musica e dalla letteratura italiana a loro contemporanea. È anche significa­tivo che Wagner muoia a Venezia, nel 1883, e che Nietzsche, nel 1889, «muoia» a Torino come essere pensante, vegetando poi in Germania, fino al 1900, nelle tenebre della demenza.

Le discordanze dei due sono già affiorate, in parte, nel ricordare le loro affinità iniziali. Sottolineiamo ancora la questione della germanicità. In partenza i due si trovavano «cugini» anche nel sopravvalutare i Tedeschi come un popolo serio, geniale, rigeneratore dell'Europa. Wagner, dopo la fondazione del Reich, proseguì su quella strada fino a punte che si potreb­bero definire razziste. Nietzsche, al contrario, si sbilanciò se mai in senso opposto, lanciando alla fine contro la sua gente accuse di una ferocia rab­biosa, lui che nel 1866 era un filoprussiano e un bismarckiano arrabbiato.

Abbiamo già detto come in ultimo divergessero le loro opinioni sul pro­blema e la valutazione del cristianesimo. Ma di non trascurabile entità è anche il loro punto di vista antitetico circa gli ebrei e il problema ebraico: sempre più antisemita Wagner (che pure, quando ne aveva stima, si avvale­va di collaboratori israeliti), sempre più filosemita Nietzsche (fino a estre­mi sconcertanti, come il volersi servire del capitalismo ebraico per distrug­gere il cristianesimo, ritenendo che il popolo e i banchieri d'Israele fossero naturalmente interessati al raggiungimento di un tale scopo).

Ma c'è una differenza, tra Wagner e Nietzsche, che potrebbe sembrare solo esteriore, anagrafica, e che invece, specie dopo che Freud ci ha fornito lenti nuove per leggere le cose umane, si può considerare molto importante e forse decisiva: la differenza d'età. Wagner aveva trentun anni più di Nietzsche, ed è addirittura emblematico che sia nato nello stesso anno di suo padre: il 1813. Anche a non essere freudiani di stretta osservanza, è plausibile considerare il rapporto tra questi due uomini molto simile nelle zone più profonde dell'Io a un rapporto padre-figlio. Con una conseguen­za che non è di tutti questi rapporti, ma che lo è certo di molti. Cioè che, in un primo stadio, il figlio prova un senso di estatica ammirazione, di caldis­simo affetto per il padre, da cui si sente protetto, amato, esaltato, arricchi­to e in cui ravvisa un modello magari irraggiungibile ma benevolo e amico. In una seconda fase, quasi sempre dopo un lungo periodo di oscillazioni e di incertezze, segue un voltafaccia quasi sempre violento e nascostamente omicida: il rifiuto, l'odio del padre, nel quale ormai si ravvisa un tiranno e un nemico; insomma il parricidio almeno simbolico. La cosa si complica se, accanto al padre, c'è una madre da cui il figlio ribelle è più o meno se­gretamente attratto e di cui è geloso. Nel binomio tra il padre (Wagner) e il figlio (Nietzsche), questa madre era la moglie dello stesso Wagner, la non

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bella ma fascinosa e intelligente Cosima Liszt, che non a caso, precipitato nella follia, Nietzsche chiamerà «mia moglie» e cui darà anche un signifi­cativo nome mitologico, Arianna, sposa di quel Dioniso del quale, in quel­le stesse giornate, Nietzsche aveva assunto l'identità simbolica, firmando spesso «Dioniso» i suoi dissennati messaggi scritti.

Durante gli anni giovanili Nietzsche era tutt 'altro che un estimatore della musica moderna, quella di Wagner compresa. Ma nel 1861, grazie all'ami­co Gustav Krug, ebbe il primo contatto, tramite un adattamento per pia­noforte del Tristano, con la musica del Wagner maturo. Fu l'inizio di un apprezzamento che si trasformò presto in entusiasmo. Nel novembre del 1868, a Lipsia, in casa dell'orientalista Hermann Brockhaus, Nietzsche fa la conoscenza diretta di Wagner: lui ha ventiquattro anni, il musicista cin­quantuno. Coup de foudre di Nietzsche. Non solo Wagner è spiritoso e cordialissimo, ma gli dimostra interesse e simpatia, e poi è anche lui un pa­tito di Schopenhauer.

L'incontro potrebbe finire lì e invece ha un seguito che parrebbe provvi­denziale. Wagner abita nella bella villa di Tribschen, presso Lucerna, e quanto a Nietzsche, dal 13 febbraio 1869 occupa la cattedra di filologia classica nell'università della non lontana Basilea. Così gli incontri tra i due, presente Cosima, si fanno frequenti. Ben presto Nietzsche vede in Wagner poco meno che un dio, e Wagner in Nietzsche un giovane geniale, l'unico che forse capisca in pieno la sua riforma teatrale e musicale, e che oltre tutto gli è molto vicino sul piano umano. Anche in seguito, dopo che la rottura tra lui e Wagner era già avvenuta, il filosofo avrebbe sempre ri­cordato i tempi di Tribschen con una tenerezza che poteva spingerlo alle la­crime. È vero che oggi, dai Frammenti postumi, possiamo scoprire che già intorno al 1874 Nietzsche cominciava a nutrire forti dubbi su Wagner e il suo mondo ideale e artistico, così come Cosima, già in una nota di diario dell'agosto 1871 parla della «riservatezza scostante» di Nietzsche, appena ripartito dopo l'ennesima visita al compositore, e osserva acutamente ch'e­gli par volersi «sottrarre alla schiacciante influenza della personalità di Wagner».

Tuttavia, a livello di piena consapevolezza e nell'esteriorità dei compor­tamenti, Nietzsche resta ancora per alcuni anni un wagneriano, e anche molto acceso (medita persino, a un certo momento, di dedicarsi tutto alla propaganda del wagnerismo). Ma gli anni di Tribschen (1866-72) sono fini­ti. Richard Wagner è alla soglia della realizzazione del suo sogno. Grazie all'aiuto di mecenati entusiastici, in testa ai quali sta il romantico e infelice re Ludwig u di Baviera, vede sorgere un teatro tutto suo a Bayreuth, che diverrà la Mecca dei « wagneriti» di tutto il mondo. Anche Nietzsche ormai è qualcuno: il suo libro La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872), genialissimo e antiaccademico, del quale Wilamowitz-Moellendorf sosteneva che «non vi si trattava affatto della tragedia attica ma del dram­ma in musica di Wagner», e il primo volume delle Considerazioni inattuali (1873), in cui — lasciata doparle la filologia classica ~- si rivela un pensa­tore di tagliente vena polemica, hanno cominciato, in senso favorevole o sfavorevole, ad attirare l'attenzione su di lui.

È perciò un regalo tutt'altro che da poco quando nel 1875, rinunciando a scrivere una quarta «considerazione inattuale» sui filologi e la filologia, Nietzsche inizia invece a comporre Richard Wagner in Bayreuth («Richard Wagner a Bayreuth»), che concluderà a settembre. Non che Nietzsche ne sia del tutto contento («Sono rimasto al di sotto di ciò che pretendo da me stesso», scrive all'amico Erwìn Rohde), ma come negare al grande musici-

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sta, in un momento così decisivo della sua esistenza, il lungo omaggio che gli è uscito dalla penna? Così il saggio esce per le stampe nell'estate del 1876, poco prima che s'inauguri il primo festival bayreuthiano-wagneriano della storia. Quelle pagine sono il più sviscerato omaggio che Nietzsche ab­bia mai reso all'amico di Tribschen. Ma sono anche il drammatico punto finale di un sodalizio e di un'ammirazione che d'ora in poi prenderà tut-t'altra e opposta strada.

Wagner e Cosimo sono entusiasti di Richard Wagner a Bayreuth e lo co­municano all'autore in note calorosissime. Ma Nietzsche è rimasto disgu­stato dall'ambiente bayreuthiano, tanto che è fuggito dalla città bavarese prima che terminasse il festival. Da allora il suo distacco da Wagner e dal wagnerismo è continuo e procede anche rapido, man mano che l'evolversi della sua filosofia (rifiuto della décadence, lotta al cristianesimo, scoperta dei lati per lui artisticamente negativi della proposta wagneriana, diffiden­za crescente della nuova Germania che comincia a delirare per Wagner) lo porta su posizioni dove anche solo una benevola neutralità verso l'ex ami­co è del tutto esclusa, almeno per un carattere radicale come il suo. Nel gi­ro di poco tempo, quel Wagner che nello scritto per Bayreuth era un genio quasi divinizzato diventa un pericolo pubblico, un demone maligno, una malattia da cui è urgente guarire e far guarire gli altri se non si vuole affret­tare la rovina già imminente dell'Europa culturale. Per trovargli un antido­to nel suo stesso campo (il teatro musicale) Nietzsche — pur non preten­dendo di essere preso troppo sul serio, almeno dalle persone accorte — quasi s'inventa, se così posso dire, un entusiasmo per la Carmen di Bizet che ha quasi le caratteristiche della ripicca offensiva.

Ci si mise anche, nel 1882, un'«.offesa mortale» di cui Nietzsche viene tardivamente a conoscenza e che risaliva al 1877, quando Wagner, preoc­cupato della pessima salute del suo ex amico e dei suoi occhi ridotti quasi alla cecità, si era rivolto per notizie riservate al dottor Eiser, medico di Nietzsche, ipotizzando che tali disturbi nascessero da pratiche sessuali soli­tarie (e forse qualcuno, informandone anni dopo lo stesso Nietzsche, anzi­ché di onanismo parlò di pederastia). Certo il filosofo fu gravemente ferito da tale interpretazione, ma pare che la vera «offesa mortale» fosse venuta più tardi, cioè nel 1882, al tempo del Parsifal, quando Wagner, anziché di­ventar pagano, cosa che, secondo Nietzsche, era assolutamente indispensa­bile per un intellettuale di così vasto ascolto, si era reso colpevole di un «ri­torno strisciante al Cristianesimo», cosa che il dittatoriale Nietzsche consi­derava «un insulto personale». Finalmente, quando ormai Nietzsche sta scrivendo o ha già pubblicato opere in cui la sua nuova «filosofia del mar­tello» appare inequivocabile (Umano, troppo umano. Aurora, La gaia scienza, Così parlò Zarathustra), Wagner muore a Venezia il 13 febbraio 1883. Il commento di Nietzsche, che in quei giorni si trovava a Genova, è di un egocentrismo impressionante: «La morte di Wagner», scrive all'ami­co Peter Gast, «credo sia stata il maggior sollievo che potesse toccarmi in questo momento». Però è anche vero che, per lo shock subito, resta per qualche giorno a letto.

Ormai Nietzsche viene maturando e scrivendo quelle «cose obbrobriose» che, anni prima, sentiva nascere dentro di sé, che considerava necessarie e dì cui sapeva che sarebbero state «dinamite» per il mondo, pur chiedendosi se, al mondo stesso, ne sarebbe derivato un guadagno o una catastrofe. Ormai i valori «trasvalutati» della sua filosofia (mai sistematica, ma tutta lampi d'intuizioni, frammenti splendidi di acutezza mentale, fecondissimi paradossi, invettive e offese di lancinante cattiveria mescolate ad attimi di

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struggente tenerezza) sono quasi tutti venuti alla luce o in via di formula­zione. Molti di essi sono diventati slogan e come tali sono stati esaltati o ri­gettati da molti, con massicce incomprensioni, dovute anche alle manipo­lazioni o agli occultaménti dei suoi manoscritti, di cui in gran parte è re­sponsabile la vestale del suo Archivio di Weimar, la sorella Elisabeth For­ster-Nietzsche. Basta citarne alcuni per sentirsi vantare in volto una «filo­sofia» o una temperie intellettuale e sentimentale particolarissima, che eserciterà un'enorme influenza, benefica o maligna, su tutta la cultura mondiale: la morte di Dio, la volontà di potenza, il superuomo (o l'oltre­uomo), l'eterno ritorno dell'identico. (Forse è pericoloso cercar Nietzsche sempre e soltanto sotto queste vistose tettoie, quando il meglio di lui sono le intuizioni abbacinanti o crepuscolari che incontriamo, a migliaia, in ogni piega dei suoi scritti.)

Ormai, avviato su un sentiero di cresta ancora imbattuto e dove neanche gli amici più fedeli riescono a seguirlo (anche gli editori, a questo punto, sono restii a pubblicarlo), Nietzsche opta per la solitudine eroica — ma che pud anche apparire maniacale, egolatrica — e rompe con quasi tutti i suoi compagni di strada o, pur mantenendo ancora rapporti formali, esterna al­le spalle di amici e sodali giudizi corrosivi che sono peggio di una rottura: è il caso di Lou Andreas Salomé, di Rohde, di Rèe, di Lanzky, dello stesso intimissimo Gasi (un musicista che tra poco Nietzsche avrà il fegato di con­trapporre allo stesso Wagner!).

Con quest'ultimo la rottura è già avvenuta, e da tempo. Anzi, molto del suo rifiuto è già emerso pubblicamente in vari scritti di Nietzsche posteriori al 1876. Ma ora l'ex «propagandista wagneriano» sente il dovere morale, per il bene del mondo disorientato e «drogato», di mettere nero su bianco che cosa sia di rovinoso quel musicista e ideologo che alcuni anni prima egli non si stancava di raccomandare come la salvezza universale. E nasce, nei febbrili mesi del 1888, a Torino, una città che Nietzsche ha trovato con­forme ai suoi gusti e ai suoi bisogni, Der Fall Wagner («Il caso Wagner»), che esce per le stampe in quello stesso anno.

Poiché ritengo che questo nostro libro andrà nelle mani soprattutto di lettori con una buona preparazione di base e con specifici interessi filosofi­co-musicali, sarei tentato di lasciare il lettore tutto solo coi tre testi qui contenuti, fiducioso che ne sappia trarre stimoli e lumi almeno per il suo uso personale. (Del resto Nietzsche è un pensatore che non solo non perde ma anzi acquista se lo si legge «per uso personale», cioè con un approccio soggettivo, per attrazioni e idiosincrasie, persino capriccioso e arbitrario. Una lettura altamente sconsigliabile se praticata su Platone, su san Tom­maso d'Aquino o su Kant.)

Tuttavia non sarà inutile qualche minimo cenno su taluni aspetti e conte­nuti dei saggi qui raccolti, uguali per tematica ma così divergenti per tono e idee. Il lettore che sappia già a quali rive approderà la valutazione wagne­riana di Nietzsche quasi fatalmente leggerà Richard Wagner a Bayreuth con occhio maligno, come l'esaltazione entusiastica di un «tifoso» che di lì a pochi anni diverrà un detrattore feroce. Sconsiglierei di mettersi troppo su questa strada, e perché ingenerosa (chi di noi non ha cambiato giudizio, anche radicalmente, su un fenomeno o un personaggio?), e perché può far­ci sfuggire o giudicare in modo errato molte cose anche assai pregevoli che in questo scritto si trovano.

Certo, nessun critico che non sia prevenuto può collocare questo saggio tra le opere maggiori e migliori di Nietzsche. Del resto, come abbiamo già accennato, non ne era molto contento nemmeno l'autore. Ma anche tra

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quelli che ne danno una valutazione tiepida, c'è tuttavia chi lo giudica il miglior saggio su Wagner scritto da un letterato che ne dia un apprezza­mento in massima parte positivo. Un'affermazione che mi lascia perplesso. Credo infatti che certi saggi su Wagner composti da Thomas Mann non siano inferiori, anzi a mio parere superiori a questo.

Un 'altra asserzione molto condivisa è che già in Richard Wagner a Bay-reuth Nietzsche manifesti qua e là, sul personaggio da lui studiato, perples­sità e critiche velate che preannuncerebbero chiaramente la sua futura «apostasia». Mi sembra, innanzi tutto, un 'opinione troppo suggerita dal «senno di poi» e che forse a nessuno verrebbe in mente se Nietzsche, in se­guito, non si fosse convertito in un pretto antiwagneriano. Per di più, non credo che casa Wagner avrebbe giubilato tanto se nel saggio fossero appar­se evidenti tali venature critico-negative. Infine, a ben guardare, Nietzsche, non falsando affatto la realtà, espone a quali tentazioni Wagner fosse sta­to soggetto, che punti bassi abbia attraversato prima di trovare se stesso e la sua arte, quali concessioni — di tipo opportunistico e strategico — abbia dovuto fare per conquistarsi il pubblico e aggirare gli ostacoli frappostigli da un mondo ancora ostile alla sua riforma. Il che, se mai, ridondava a maggior gloria di un genio che alla fine aveva trionfato, imponendosi in condizioni quasi proibitive.

Ora, venendo brevemente al saggio in sé, non disapproverei il lettore che sorridesse con un certo fastidio all'esaltazione nietzscheana non solo di Ri­chard Wagner, ma dello stesso ambiente e pubblico di Bayreuth: tutto ciò, insomma, che qui gli strappa toni di un 'enfasi alquanto impettita e di una retorica a tratti perfino ingenua. Wagner qui appare bravo in tutto, insigne non solo come musicista e uomo di teatro, ma anche come scrittore, ideo­logo, filosofo, profeta, storico, mitologo, esteta. Il che è parecchio azzar­dato, soprattutto agli occhi di noi uomini di fine millennio. O, per dire an­che questo, significa mettersi totalmente dentro Wagner, sposare le sue ambizioni più o meno segrete, fare di Wagner quello che nessun genio al mondo — nemmeno Goethe o Leonardo da Vinci — è mai stato.

Curioso anche il fatto che un filosofo come Nietzsche, che presto vorrà distruggere quasi tutto il passato e scagliare il mondo verso il futuro, qui assuma così spesso posizioni che sfiorano il reazionario, considerando ne­gativa, malata, patologica tutta la modernità. È vero che il mondo moder­no rivelava già allora decadentismo e nevrosi in altissimo grado. Ma prima di tutto c'erano in quel clima germi fecondi di rinnovamento, di una rina­scita sia pur problematica e disperata ma effettiva, e di uno sconvolgente interesse (anche in campo strettamente musicale, che Nietzsche, ora con tutta l'attenzione fissa su Wagner, più tardi tutta assorbita da Bìzet, deplo­revolmente trascura). Per di più, se Wagner è tutto immerso in questa mo­dernità dal quadro clinico preoccupante, non si può certo dire che lo stesso Nietzsche ne sia del tutto fuori e che goda la (pur sempre ipotetica) salute di un barbaro o di un ellenico (peraltro molto idealizzato).

Dove Nietzsche invece spicca per intelligenza e intuizione — ossia là do­ve Nietzsche è già o di nuovo il grande Nietzsche che tutti ammiriamo — è quando sa leggere, in Wagner, taluni aspetti che altri, e soprattutto i fans del Maestro, non avevano individuato.

Ad esempio il rapporto strettissimo e del tutto nuovo che c'è nel dram­ma musicale di Wagner tra mondo uditivo e mondo visivo. Basta infatti una sola occhiata a tutto il melodramma passato o a lui contemporaneo per notare questa lampante novità. Splendida anche l'idea del dramma wagneriano che vuol darsi un corpo, che anzi «tende alla ginnastica» (ma-

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gari, aggiungiamo noi, una ginnastica quasi surreale, «al rallentatore»); e l'altra che, nelle opere del lipsiense, c'è una mescolanza di «violenta gioia e di paura», cosa che è difficile poter affermare con la stessa intensità per al­tri autori dell'opera in musica. Gli è che in Wagner, come Nietzsche vede assai bene, c'è un grande attore, un superattore, un demiurgo autoritario, un profeta geniale. (Più tardi Nietzsche dirà su per giù la stessa cosa, ma distorcendo tutto in chiave negativa.)

Giusta l'osservazione che Wagner, lungi dal costruire un suo mondo di­staccato di bellezza pura, tende avidamente a una sorta di «demoniaca co­municabilità», catturando il pubblico non solo dal suo lato sensibile ma anche da quello «ideologico». In questo senso è vero che Wagner, anche quando scrive note sul pentagramma, fa della filosofia coi suoni, tanto che i suoi Nibelunghi possono essere definiti un «enorme sistema di pensiero senza la forma concettuale del pensiero», e ciò perché Wagner, con magica astuzia, trasmise i suoi «valori», da buon artista e uomo di teatro, attra­verso la suggestione immediata e non confutabile del mito. Infine è vero che Wagner, portando all'estremo una via descrittivo-evocativa già imboc­cata da Berlioz e da Liszt, ha dato un linguaggio a tutto ciò che fino allora non aveva mai parlato in musica: e non solo ai più sfumati o clamorosi sentimenti umani, ma anche e forse soprattutto a ogni aspetto e voce e ar­cana suggestione della natura.

Non proseguo per non venir meno al mio impegno di brevità, ma confi­do che ogni lettore un po' avvertito riuscirà a scoprire, in Richard Wagner a Bayreuth, altri lampi intuitivi, altre formulazioni perfette che apparten­gono — questi e queste sì! — al miglior Nietzsche.

Quanto al Caso Wagner, qui la «musica» cambia del tutto, l'aria afosa della celebrazione spesso compunta dà luogo all'aria pungente, d'alta montagna, d'una stroncatura senza la minima pietà. Se nel saggio del 1876 una certa opaca pesantezza si spiegava anche col fatto che Nietzsche citava larghi squarci esplicativi e autoapologetici tratti dagli scritti dello stesso Wagner (e senza citarli tra virgolette, tanta era l'osmosi, l'identificazione tra lo scrivente e il suo idolo), qui Nietzsche è compiutamente solo con se stesso e si abbandona a quella vena a cui dobbiamo le sue cose più origina­li, e indimenticabili: la vena iconoclasta, sovvertitrice, beffarda e spesso atrocemente — ma quasi mai volgarmente — offensiva. Il sadismo è forte, in quest'uomo dal tratto umano quasi sempre squisitamente cortese, e si sente che è un gran godimento, per lui, sferzare a sangue persone e cose che per molti sono oggetto di culto o, se non altro, di rispetto. In questo senso, e anche per la sua impeccabilità stilistica, per il vivacissimo dinami­smo della sua catena argomentativa, il Caso Wagner può essere incluso tra i suoi capolavori. Oltre tutto — come quasi tutti gli scritti polemici e ag­gressivi — è una lettura che stuzzica la nostra più pettegola malizia.

Il Wagner che vien fuori da queste pagine scintillanti e brucianti è un mostro di patologia estrema e, pertanto, in un 'età malata e pervertita come quella in cui Nietzsche si sente condannato a vivere, di somma pericolosità. Decadente marcio, passatista con velleità di rivoluzionario, commediante istrione teatrante al massimo grado, cristiano falso ma comunque tendente al rilancio del cristianesimo quando per Nietzsche urge affermare la «mo­rale dei signori», distruttore in musica tanto del ritmo quanto della melo­dia, anzi musicista non per istinto quanto per volontà autoritaria di sog­giogare le masse (e qui salta fuori, dal torinese temporaneo Nietzsche, un raffronto con Vittorio Alfieri), umido nordico quando occorrerebbe essere mediterranei e «africani» (e qui leggiamo il dispettoso anche se splendido

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panegirico di Bizet), utopista idealista pessimista in tempi che reclamano un realismo magari biologico ma senza illusioni né vane paure, femminista sentimentale che svirilizza il mondo, del peggior germanesimo hegeliano ma, al tempo stesso, forse nemmeno un vero tedesco (Nietzsche, quando è in vena, salta le contraddizioni come un buon cavallo gli ostacoli), Mino­tauro che rapisce i giovani e le donne per portarli nella sua caverna, baroc­co e perciò distruttore della musica come il Bernini fu, per Nietzsche, la «rovina della scultura», totalmente privo della sana vitalità magari anima­le di un Hàndel o di un Rossini, droga e alcool e seduzione strisciante in forma di musicista, fanatico del solo teatro che, per Nietzsche (tesi scon­certante per un tale ammiratore del dramma greco e di Shakespeare!), è sempre un «di sotto dell'arte», buono solo per le masse...

Chi legga questi nostri poveri appunti e conosca Wagner può anche pen­sare che, a parte qualche lampo di verità luccicante come una pepita in un monte di sabbia, il libello di Nietzsche sia poco più che un'accozzaglia di insulti gratuiti lanciati alla cieca. Invece — dunque, occorre leggerlo tutto e con attenzione — questo saggio, anche dove sostiene cose che oggi nessu­na persona dotata di gusto e di mente sana potrebbe più condividere, alme­no in questa forma estrema, è un, come dire?, un vibromassaggiatore che ci scuote e ci squassa con molta durezza, ma che ci mette in buona forma e ci schiarisce la mente: magari per effettuare una controstroncatura alla stroncatura dello stesso Nietzsche (e non è ciò che, infondo, quest'uomo radicale ha sempre desiderato dai suoi lettori, magari risentendosi quando qualche suo discepolo dimostrava di diventare troppo indipendente?). È un po' il caso dell 'Anticristo. Davvero sprovveduto il cristiano che, dopo averlo letto, perde la fede in Gesù. Conosco invece diversi cristiani che, passati attraverso quel terribile filtro, hanno acquistato una fede più pura, robusta, adulta, finendo per dovere più a Nietzsche che a tanti teologi e apologeti soporiferi.

Dunque, data la gelida passione da cui questo saggio è pervaso e l'acutis­sima intelligenza che lo anima, anche le «martellate» omicide da noi par­zialmente elencate si risolvono in un corso di «acuizione» mentale e nervo­sa che può persino giovare ad apprezzare meglio lo stesso Wagner. Ci sono però anche giudizi e segnalazioni dove è quasi impossibile non dar ragione a Nietzsche, sia che tali appunti denuncino una vera pecca di Wagner, sia che lo caratterizzino solo in maniera utile ma neutra (ad esempio, che Wa­gner sia «umido Nord») o che tenda a quella che Nietzsche chiama con or­rore décadence è vero: ma dove sta scritto che si debba assolutamente «me-diterranizzare la musica» o che non si possa fare arte grandissima (si pensi a Baudelaire, a Strindberg, a Rimbaud, allo stesso Dostoevskij, tanto caro a Nietzsche) interpretando e vivendo a fondo le nevrosi e le malattie del proprio tempo anziché ostentare, con sterile operazione volontaristica, una salute e integrità ormai retaggio irrecuperabile del passato?

Tra le gemme che la quasi magica perspicacia di Nietzsche offre al letto­re, segnalerei quella di vedere in Wagner, qualunque giudizio poi se ne dia, un riassunto vìvente, un «caso istruttivo» che aiuta come nessun altro a ca­pire che cosa sia — di geniale o di pericoloso o di entrambe le cose — quel­la modernità dalla quale qui Nietzsche prende così irosamente le distanze. Oppure quella definizione dell'orchestra wagneriana («brutale, artificiosa, e "incolpevole" a un tempo») che, per quanto parziale e perciò anche in­giusta, è tuttavia smagliante. Addirittura famosa la scoperta di un Wagner che sarebbe ammirabile solo (ed è questa la parola da scartare) nell'inven­zione del minimo, del particolare, tanto da apparirci come il massimo tra i

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miniaturisti musicali, oltre che un grande melanconico e un uomo inclinato alla compassione. Benissimo, tutto vero, non si potrebbe dire meglio. Tranne che bisogna doverosamente aggiungere che Wagner è anche un ar­chitetto alla grande, un affrescatore mirabile di immense pareti, un titano insidioso e discutibile ma un titano.

Non meno vero è che Wagner mira sempre a ipnotizzare con la sua musi­ca, a schiavizzare e drogare chi lo ascolta: ma è da tutti, questo? o forse è il caso di cedere al moralismo, al «questo non sta bene» quando ci si trova di fronte alla grande arte? Anche la «lunghezza terrificante» delle situazioni è un'innegabile caratteristica wagneriana. A volte è una vera e propria men­da (si ricordi solo l'interminabile querimonia del povero Marke nel secon­do atto del Tristano) ma non è anche una stigmata che fa di questo musi­cista un unicum e che, se appena resistiamo alle nostre pigrizie, esercita un fascino assolutamente senza confronti? Tuttavia, in sé, l'osservazione è az­zeccata, e in bocca a Nietzsche sembra quasi vincente. Del resto lo stesso Nietzsche, poco dopo, riconosce che Wagner ha dilatato smisuratamente le possibilità del linguaggio musicale.

Un 'osservazione illuminante è che i problemi di Wagner e dei suoi perso­naggi sono «quelli che interessano oggi i pìccoli décadents parigini... Pro­blemi assolutamente da grande città». Massimo Mila applaude, ma con una conclusione che a Nietzsche avrebbe fatto rabbia: «Santo cielo! pro­prio questo è per noi la ragione della grandezza di Wagner e ci rende indi­spensabile la sua musica», divertendosi poi a ripresentare sotto forma mo­derna, modernissima (Brunilde sessantottina, ecc.) quei colossi canori che, a un primo convenzionale esame, parevano solo figure mitiche emerse dal­le nebbie di un Nord ancora popolato di draghi.

Ancora innegabile è che a Wagner difetta la «gaia scienza», mancano i «piedi leggeri» che Nietzsche in quegli anni amava tanto. Teniamone con­to, non facciamoci ingannare da eventuali schiarite facete e saltellanti dello stesso Wagner (ad esempio nei Maestri cantori), dove la pesantezza teuto­nica continua a dominare, e neanche tanto nascosta. Ma, rese le debite gra­zie a Nietzsche, non è forse vero che Mozart, dal canto suo, non ha le lun­gaggini e i mitizzati filosofemi di Wagner? Ma chi si sognerebbe di farne una colpa al divino salisburghese? E mi fermo qui, perché il lettore ha di­ritto a non farsi orientare troppo.

Quanto al terzo scritto, Nietzsche contra Wagner (composto anch 'esso a Torino nel 1888, poi ritirato, infine pubblicato nel 1889 quando l'autore era già sprofondato nella follia), è come uno scoppiettante fuoco d'artifi­cio dopo una parata gloriosa ma un tantino enfatica Richard Wagner a Bayreuth) e un duello senza esclusione di colpi, ma con uno schermidore che si batte solo contro un 'ombra pur dando l'idea di surclassare l'avversa­rio (lì caso Wagner/ Per sfatare la leggenda secondo la quale egli sarebbe diventato antiwagneriano solo negli ultimi anni, Nietzsche antologizza di­verse dichiarazioni e osservazioni da lui scritte e pubblicate in anni molto precedenti, partendo dal 1876. In esse i suoi dubbi su Wagner, poi divenuti un netto rifiuto, affioravano abbastanza chiari o erano espressi con esplici-tezza inequivocabile. Anche questo libretto è vivace, acutissimo, perfido, sadicamente divertito e divertente. Se non esistesse II caso Wagner potrem­mo gustarlo molto di più. Ma, venendo dopo quel capolavoro di demoli­zione sistematica ed estrosa insieme, Nietzsche contra Wagner mi par solo una lettura interessante, perché in sostanza non porta «incriminazioni» nuove a quelle già formulate in Der Fall Wagner. Tuttavia, alcune novità ci sono. Poniamo: Wagner ci dà una musica senza avvenire; Wagner è im-

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poverimento vitale, come Schopenhauer e il cristianesimo; Wagner è più autore per i sofisticatissimi Francesi che per i rozzi Tedeschi; Parsifal è un attentato all'eticità; la confessione di Nietzsche che, pur godendo di essersi liberato da Wagner, ora egli si sente tremendamente solo. E poi, anche cer­te cose già dette, qui vengono riproposte in altre forme e con altre sfuma­ture.

Insomma, questa raccolta è tutta da leggere: da litigarci senza timidezze o da approvare con vera festa. In nessun caso da prendere come un penso accademico, come un saggio erudito. Ma non dimenticando nemmeno — perché dà un brivido che aiuta a capir meglio — che queste pagine comun­que geniali (la pertinenza dei giudizi può davvero essere un altro discorso) nascono da un uomo che dopo poche settimane sarebbe impazzito, per poi vegetare in una tragica demenza per altri undici anni. E che bersagliavano un ex amico che già da cinque anni giaceva nella tomba.

Oggi, sia gli scritti di Nietzsche sia la musica di Wagner sono più vivi che mai. Un fatto che aggiunge, a queste distruttive scorrerie critiche, un pizzi­co di malizioso umorismo.

ITALO ALIGHIERO CHIUSANO

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1.

Perché un avvenimento abbia grandezza, debbono concorrervi due cose: il grande animo di coloro che lo producono, e il grande animo di coloro che lo vivono. Di per sé nessun avvenimento ha grandezza, neanche quan­do scompaiono intere costellazioni, popoli periscono, vengono fondati grandi Stati, e condotte guerre con forze e perdite enormi: il soffio della storia spazza via molti fatti del genere come fiocchi di neve. Accade anche, però, che un grande uomo sferri un colpo che si smorzi senza effetto con­tro una dura roccia: una breve, acuta risonanza, e tutto finisce. La storia non ha da riferire quasi nulla neanche di questi avvenimenti per così dire soffocati. Così, chiunque veda approssimarsi un avvenimento, è colto dal dubbio segreto se coloro che lo vivranno ne saranno degni. Su questa corri­spondenza di azione e ricettività si conta e ad essa si mira sempre, quando si agisce, nelle più piccole come nelle più grandi cose; e colui che vuole da­re deve veder di trovare destinatari che rendano giustizia al senso del suo dono. Appunto per questo anche la singola azione persino di un uomo grande non ha grandezza, se essa è breve, monca e sterile, giacché nell'i­stante in cui egli la compiva, doveva comunque mancargli la convinzione profonda che essa fosse necessaria proprio in quel momento: non aveva preso la mira con sufficiente perspicacia, non aveva individuato e scelto il momento con la dovuta precisione: si era fatto dominare dal caso, mentre l'esser grandi e l'avere il senso della necessità sono cose strettamente colle­gate.

Pertanto, la preoccupazione e il dubbio se ciò che avviene ora a Bay-reuth avvenga al momento giusto e sia necessario, li lasciamo volentieri a coloro i quali dubitano che Wagner abbia il senso di quel che è necessario. Noi, più fiduciosi, a questo dobbiamo guardare, che egli crede tanto alla grandezza della sua azione quanto al grande animo di coloro che dovranno conoscerla. Di questo debbono andare orgogliosi tutti coloro nei quali è ri­posta questa fiducia, pochi o molti che siano — infatti, che non siano tutti, che questa fiducia non sia riposta nell'intera epoca, e nemmeno in tutto il popolo tedesco così come esso oggi si manifesta, ce l'ha detto lui stesso, in quel discorso inaugurale del 22 maggio 1872, e tra noi non c'è alcuno che a questo proposito possa obiettargli qualcosa di confortante. «Solo voi ave­vo — disse egli allora, — gli amici della mia arte singolare, della mia più peculiare attività e creatività, ai quali rivolgermi coi miei progetti come a persone partecipi: solo a voi potevo chiedere aiuto per la mia opera, per poter presentare quest'opera, pura e non snaturata, a coloro che mostrava­no seria propensione per la mia arte, anche se finora essa potè venir loro presentata solo impura e deformata.»

A Bayreuth vai la pena di guardare anche lo spettatore, non c'è dubbio. Uno spirito saggio e contemplativo, che trascorresse da un secolo all'altro

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per confrontare i movimenti culturali più rimarchevoli, avrebbe là molto da vedere; dovrebbe sentire di trovarsi improvvisamente in acque calde, come uno che nuotasse in un lago e giungesse vicino a dove sgorga una sor­gente calda: questa deve provenire da fondali diversi, più profondi, egli si dice, l'acqua qui attorno non la spiega, e in ogni caso ha origine essa stessa in un livello più vicino alla superficie. Così tutti coloro che celebrano la fe­sta di Bayreuth verranno considerati uomini inattuali: hanno la loro patria altrove che in quest'epoca, e altrove trovano tanto la loro spiegazione quanto la loro giustificazione. Mi è divenuto sempre più chiaro che l'«uo-mo colto», nella misura in cui sia totalmente e compiutamente il frutto di questo presente, può accostarsi a tutto ciò che Wagner fa e pensa soltanto attraverso la parodia — così come tutto è stato oggetto di parodia — e che vuol farsi illuminare anche l'avvenimento bayreuthiano dall'assai poco magica lanterna dei nostri faceti giornalisti. Ed è già una fortuna se ci si li­mita alla parodia! In essa si scarica uno spirito di estraniamento e di ostili­tà che potrebbe cercare ben altri mezzi e vie, e talvolta anche li ha cercati. Quell'osservatore della cultura coglierebbe anche questa insolita acutezza e tensione dei contrasti. Che un individuo, nel corso di una normale vita umana, possa presentare qualcosa di insolitamente nuovo, può ben fare in­dignare tutti coloro che giurano sulla gradualità di ogni sviluppo come su una specie di legge morale: sono essi stessi lenti, ed esigono lentezza — ed ecco che vedono uno molto veloce, non sanno come faccia, e si adirano con lui. Per un'impresa come quella bayreuthiana non vi furono segni pre­monitori, transizioni, mediazioni; nessuno all'infuori di Wagner conosce­va la lunga strada che portava alla meta e la meta stessa. È la prima cir­cumnavigazione del mondo nel campo dell'arte: nella quale, a quanto sem­bra, fu scoperta non soltanto un'arte nuova, ma l'arte stessa. Per questo tutte le arti moderne sinora esistite sono per metà svalorizzate, come arti intristite nella solitudine o come arti di lusso; anche le incerte e frammenta­rie reminiscenze di un'arte vera, che noi moderni avevamo ereditata dai Greci, possono ora riposare in pace, nella misura in cui oggi non riescano a splendere in una nuova sensibilità. Per molte cose oggi è tempo di morire; la nuova arte è una veggente che vede avvicinarsi il tramonto non soltanto per le arti. La sua mano ammonitrice dovrà apparire molto inquietante a tutta la nostra cultura attuale dal momento in cui si spegneranno le risate sulle sue parodie: rida pure, comunque, e si diverta ancora per un po'!

Noi invece, discepoli dell'arte risorta, avremo tempo e voglia per la se­rietà, per la sacra, profonda serietà! Il parlare e il vociare che sino ad ora la cultura ha fatto sull'arte — dobbiamo oggi considerarlo come un'impu­dente indiscrezione; tutto ci obbliga al silenzio, al quinquennale silenzio pi­tagorico. Chi di noi non si è insozzato animo e mani nella ripugnante ido­latria della cultura moderna? Chi non ha bisogno dell'acqua lustrale, chi non ode la voce che lo ammonisce: «Silenzio e purezza! Silenzio e purez­za!»? A noi soltanto, come a coloro che ascoltano questa voce, viene data anche quella lunga vista con la quale dobbiamo guardare all'avvenimento di Bayreuth: e solo in questa vista è riposto il grande futuro di questo av­venimento.

Quando, quel giorno di maggio dell'anno 1872, fu posta la prima pietra sulla collina di Bayreuth, sotto una pioggia torrenziale e un cielo rabbuia­to, Wagner tornò in città con alcuni di noi: se ne stava in silenzio, scrutan­do a lungo dentro di sé con uno sguardo impossibile a descriversi. Quel giorno egli entrava nel sessantesimo anno di vita: tutto il suo passato era stato soltanto la preparazione di quel momento. Si sa che, in un momento

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di pericolo eccezionale, oppure in genere di fronte a una decisione impor­tante per la loro vita, gli uomini condensano in una visione interiore infini­tamente accelerata tutto quel che hanno vissuto sino allora, e riconoscono con rarissima acutezza le cose più vicine come quelle più lontane. Che cosa può aver visto Alessandro Magno nell'istante in cui fece bere dalla stessa coppa Asia ed Europa? Ma ciò che Wagner vide nel proprio intimo quel giorno — come era divenuto, quel che era, quel che sarebbe stato — noi, i più vicini a lui, possiamo vederlo solo fino a un certo punto: e solo parten­do da questa visione wagneriana potremo comprendere la sua stessa gran­de impresa — per garantire con questa comprensione la fecondità di essa.

2.

Sarebbe strano se ciò che qualcuno sa far meglio e fa più volentieri non si rendesse percepibile anche in tutta l'impostazione della sua vita; anzi, in uomini di capacità straordinarie la vita diventa necessariamente non sol­tanto l'immagine del carattere, come accade per tutti, ma anche e soprat­tutto lo specchio dell'intelletto e delle sue più peculiari facoltà. La vita del poeta epico porterà in sé qualcosa dell'epos — come, per inciso, è il caso di Goethe, nel quale i Tedeschi molto a torto vedono abitualmente soprattut­to il lirico —, la vita del drammaturgo si svolgerà drammaticamente.

Nella formazione di Wagner l'elemento drammatico non va affatto mi­sconosciuto, a partire da quando la passione in lui dominante prende co­scienza di sé e coinvolge e unifica tutta la sua natura: a questo punto cessa­no i tentativi, gli andirivieni, il proliferare di germogli secondari, e nei per­corsi e nei mutamenti più intricati, nelle arcate spesso avventurose dei suoi progetti regna un'unica legge interiore, una volontà che li rende spiegabili, per quanto sorprendenti possano spesso suonare queste spiegazioni. Ci fu però nella vita di Wagner una parte pre-drammatica, la sua infanzia e gio­vinezza, e non si può trascurare questa parte senza trovarsi di fronte a degli enigmi. Egli stesso non sembra ancora affatto annunciato; e quel che ades­so, con sguardo retrospettivo, potrebbe interpretarsi come un annuncio, appare invece a prima vista come un confuso insieme di qualità che sem­brerebbero dover suscitare più dubbi che speranze: uno spirito di irrequie­tezza, di eccitabilità, una fretta nervosa di afferrare cento cose, un gusto appassionato per stati d'animo quasi morbosi e di grande tensione, un tra­passare improvviso da momenti di spiritualissima quiete interiore alla vio­lenza e allo schiamazzo. Non conobbe la costrizione di un severo esercizio artistico per tradizione o volontà familiare: la pittura, la poesia, l'arte drammatica, la musica gli si avvicinarono quanto l'educazione e il futuro dello studioso; chi guardava superficialmente, poteva pensare che egli fos­se nato per essere un dilettante. Il piccolo mondo in balia del quale crebbe, non era tale che ci si potesse felicitare con un artista di avere una simile pa­tria. Conobbe il pericoloso piacere dei rapidi assaggi intellettuali, come pu­re la presunzione, legata al sapere un po' di tutto, che è di casa nelle città dei dotti; il sentimento veniva facilmente eccitato e superficialmente soddi­sfatto; ovunque guardasse, il ragazzo si vedeva circondato da strane crea­ture saccenti ma attive, con le quali il variopinto teatro stava in contrasto ridicolo, e il suono della musica, che soggioga l'anima, in contrasto incom­prensibile. Ora, chi suole conoscere per raffronti, in genere si accorge di quanto raramente proprio l'uomo moderno, che abbia ricevuto in dote un alto ingegno, possieda nella sua infanzia e nella sua giovinezza l'attributo dell'ingenuità, della schietta peculiarità e personalità, sia pure in piccola

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misura; invece quei rari che, come Goethe e Wagner, giungono all'ingenui­tà, la possiedono comunque più nell'età adulta che da bambini e da giova­ni. Soprattutto l'artista, nel quale è innata in particolare misura la forza imitativa, sarà inevitabilmente assalito, come da una violenta malattia in­fantile, dalla svigorita poliedricità della vita moderna; da fanciullo e da giovane egli somiglierà più a un vecchio che al suo vero se stesso. L'arche­tipo mirabilmente calzante del giovane, il Sigfrido dell'Anello del Nibelun­go, poteva crearlo solo un uomo, e un uomo che avesse trovato solo tardi la sua giovinezza. Tardi come la sua giovinezza giunse per Wagner l'età adulta, sicché almeno in questo egli è l'opposto di una natura precoce.

Al sopraggiungere della sua virilità spirituale e morale, comincia anche il dramma della sua vita. E adesso il quadro com'è mutato! La sua natura appare terribilmente semplificata, lacerata in due impulsi o sfere. Ribollo­no nel profondo le rapide di una volontà irruente, che vuol per così dire giungere in superficie per ogni via, per ogni cavità e gola, e aspira alla po­tenza. Solo una forza totalmente libera e pura poteva additare a questa vo­lontà una via verso la bontà e la carità; alleata a uno spirito angusto, una volontà siffatta, con la sua illimitata e tirannica brama, sarebbe potuta di­ventare una sciagura; e comunque bisognava trovar presto un passaggio verso l'aperto, e che finalmente giungessero anche aria limpida e sole. Uno sforzo possente, al quale sia dato di guardare continuamente al suo insuc­cesso, rende cattivi; l'insufficienza può a volte risiedere nelle circostanze, nell'irrevocabilità del destino, e non nella mancanza di forza; ma colui che non può rinunciare allo sforzo nonostante questa insufficienza, si sente per così dire non all'altezza del suo giuramento, e quindi irritabile e ingiusto. Forse cercherà negli altri le cause del suo fallimento, e potrà addirittura con odio appassionato trattare tutti da colpevoli; forse anche procederà ca­parbiamente per vie secondarie e nascoste, oppure ricorrerà alla violenza; così accade che, sulla via del meglio, anche nature buone si imbarbarisca­no. Persino tra coloro che perseguivano soltanto la propria edificazione morale, gli eremiti e i monaci, si trovano uomini imbarbariti e completa­mente malati, svuotati e divorati dall'insuccesso. Ci fu uno spirito amore­vole, che persuadeva in modo indicibilmente soave con la bontà e la dol­cezza, che odiava la violenza e l'autodistruzione e non voleva vedere nessu­no in catene: costui parlò a Wagner. Si posò accanto a lui e lo avvolse con­solatore nelle sue ali, mostrandogli la via. Noi gettiamo uno sguardo nel­l'altra sfera wagneriana: ma come descriverla?

Le figure che un artista crea non sono lui stesso; ma la serie di figure a cui egli è evidentemente legato con intimo amore, dice tuttavia qualcosa dell'artista stesso. Ora si ponga mente a Rienzi, all'Olandese volante e a Senta, a Tannhauser ed Elisabetta, a Lohengrin ed Elsa, a Tristano e Mar-ke, ad Hans Sachs, Wothan e Brunilde: scorre in tutti e li collega un fiume sotterraneo di nobilitazione ed elevazione morale, che fluisce sempre più chiaro e puro — e qui ci troviamo, anche se con pudico ritegno, davanti a un intimo divenire dell'anima di Wagner. In quale artista è dato scorgere qualcosa di simile in simile grandezza? I personaggi di Schiller, dai Masna­dieri sino a Wallenstein e a Teli, percorrono un'analoga via di nobilitazio­ne e anch'essi rivelano qualcosa del divenire del loro autore, ma in Wagner la scala è ancora più grande, la via è più lunga. Tutto partecipa a questa catarsi e la esprime, non soltanto il mito ma anche la musica; nell'Anello del Nibelungo trovo la musica più morale che io conosca, per esempio quando Brunilde viene svegliata da Sigfrido; qui egli s'innalza a una tale altezza e a una tale sacralità di sentimento, che vien fatto di pensare all'ar-

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dorè glaciale delle cime innevate delle Alpi; tanto pura, solitaria, ardua, lontana dalle basse passioni, avvolta dalla luce dell'amore si erge qui la na­tura; nubi e tempeste, anzi persino il sublime, sono sotto di essa. Volgendo lo sguardo di lassù a Tannhauser e all'Olandese, sentiamo come l'uomo Wagner sia divenuto: come iniziò oscuro e inquieto, come cercò tempesto­samente soddisfazione, come aspirò alla potenza, all'inebriante godimen­to, spesso fuggendo via nauseato, come volle gettar via da sé il fardello e desiderò dimenticare, negare, rinunciare — l'intero fiume precipitava ora in questa, ora in quella valle e penetrava nelle gole più oscure: — nella not­te di questo fermento semisotterraneo apparve, alta sopra di lui, una stella dal triste splendore, ed egli la chiamò, come la riconobbe: fedeltà, disinte­ressata fedeltà! Perché essa risplendette per lui più limpida e pura di tutto? quale segreto racchiude la parola «fedeltà» per l'intero suo essere? Giacché in tutto quel che ha pensato e poetato egli ha impresso l'immagine e il pro­blema della fedeltà, nelle sue opere c'è una serie quasi completa di tutte le possibili specie di fedeltà, tra cui le più meravigliose e raramente immagi­nate: la fedeltà di fratello a sorella, di amico a amico, di servitore a padro­ne, di Elisabetta a Tannhauser, di Senta all'Olandese, di Elsa a Lohengrin, di Isotta, Kurwenal e Marke a Tristano, di Brunilde all'intimo desiderio di Wothan — solo per iniziare la serie. È l'esperienza originaria più sua, che Wagner vive dentro di sé e venera come un mistero religioso: questa egli esprime con la parola «fedeltà», questa egli non si stanca mai di far risalta­re in cento forme, donandole nella piena della sua gratitudine ciò che di più magnifico egli possiede e sa — quella meravigliosa esperienza e cono­scenza secondo cui l'una sfera del suo essere rimase fedele all'altra, serban­do fede per libero, disinteressatissimo amore: la sfera creativa, innocente, più luminosa, a quella oscura, indomabile e tirannica.

3.

Nel reciproco comportamento delle due forze profondissime, nella dedi­zione dell'una all'altra stava la grande necessità, per la quale soltanto egli poteva rimanere intero e se stesso: e nel contempo l'unica cosa che egli non avesse in suo potere, che dovesse constatare e accettare, mentre vedeva av-vicinarglisi sempre di nuovo la tentazione dell'infedeltà e i suoi tremendi pericoli. Qui scorre un'abbondante fonte di dolori per colui che diviene, l'incertezza. Ciascuno dei suoi impulsi tendeva alla dismisura, tutte le qua­lità che allietano l'esistenza volevano separarsi e soddisfarsi ciascuna per sé; quanto maggiore era la loro esuberanza, tanto maggiore era il tumulto, e più ostile il loro incrociarsi. Inoltre il caso e la vita incitavano a conqui­stare potenza, splendore, ardentissimo piacere, ancor più spesso lo tor­mentava la spietata necessità di dover vivere; dappertutto c'erano catene e trappole. Com'è possibile in queste circostanze serbare fedeltà, restare in­tegri? — Questo dubbio lo sopraffaceva spesso, e si esprimeva al modo in cui appunto dubita un artista, in forme artistiche: Elisabetta per Tannhau­ser può soltanto soffrire, pregare e morire, con la sua fedeltà salva quel­l'incostante ed eccessivo, ma non per questa vita. È pericoloso e disperato il percorso di vita di ogni vero artista che sia stato destinato a nascere nei tempi moderni. Egli può giungere in molti modi alla gloria e al potere, tranquillità e soddisfazione gli si offrono in molti modi, però sempre nella forma in cui le conosce l'uomo moderno, e nella quale esse inevitabilmente diventeranno esalazioni soffocanti per l'artista onesto. Nella tentazione a ciò, e così pure nel rifiuto di questa tentazione stanno i suoi pericoli, nella

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ripugnanza per i mezzi moderni di ottenere piacere e considerazione, nella rabbia per ogni egoistico benessere così come lo intende l'uomo moderno. Si provi a immaginarlo in un impiego — come Wagner, che dovette rico­prire la carica di direttore d'orchestra nei teatri di città e di corte; si com­prenda come l'artista più serio voglia ottenere con la forza la serietà là do­ve le istituzioni moderne sono sistematicamente costruite con leggerezza ed esigono leggerezza; come questo gli riesca in parte e sempre fallisca nell'in­sieme; come la nausea gli si avvicini ed egli voglia fuggire, e non trovi nes­sun luogo dove fuggire, e ogni volta egli debba tornare tra gli zingari e i proscritti della nostra cultura, come uno dei loro. Strappandosi da una si­tuazione, raramente riesce a raggiungerne una migliore, e talvolta cade nel­la più profonda indigenza. Così Wagner cambiò città, compagni, paesi, e quasi non si riesce a comprendere tra quali esigenze e ambienti egli abbia potuto comunque resistere per qualche tempo. Su gran parte della sua vita trascorsa grava un'aria pesante; era quasi come se non sperasse più in cose generali, ma soltanto dall'oggi al domani, e così invero non disperava, ma nemmeno credeva. Come un viandante cammina nella notte oppresso da un pesante fardello e profondamente stanco, eppure eccitato dalla veglia, così egli dev'essersi spesso sentito; ai suoi occhi una morte improvvisa non appariva allora come un orrore, ma come un fantasma seducente e leggia­dro. Fardello, strada e notte, tutto sparito in un attimo! — ciò suonava al­lettante. Cento volte ancora egli tornò a gettarsi nella vita, con quella sua speranza dal breve respiro, lasciandosi tutti i fantasmi alle spalle. Ma nella maniera in cui lo faceva, c'era quasi sempre una mancanza di misura, se­gno che egli non credeva profondamente e saldamente a quella speranza, ma soltanto se ne inebriava. Il contrasto fra il suo desiderio e la sua semi­capacità o incapacità di soddisfarlo, lo tormentava come una spina; eccita­ta dalla continua privazione, la sua immaginazione si perdeva nell'eccesso, se per una volta quell'angustia si faceva improvvisamente meno opprimen­te. La vita diventava sempre più intricata; ma anche sempre più arditi, più ricchi d'inventiva erano i mezzi e le scappatoie che egli, drammaturgo, sco­priva, benché altro non fossero che ripieghi, motivi pretestuosi che illude­vano per un momento e che solo per un momento venivano inventati. Li appresta con la rapidità del lampo, e altrettanto rapidamente li consuma. Vista molto da vicino e senza amore, la vita di Wagner ha in sé, per ricor­dare un pensiero di Schopenhauer, moltissimo della commedia, e di una commedia stranamente grottesca. Quanto il sentimento di ciò, l'ammissio­ne di una grottesca mancanza di dignità lungo interi tratti della sua vita do­vettero agire sull'artista, che più di chiunque altro può respirar liberamente soltanto nel sublime e nel più che sublime — questo, a chi pensa, dà da pensare.

In mezzo a un siffatto travaglio, che solo con la più esatta descrizione può ispirare il grado di compassione, di spavento e di stupore che merita, si sviluppa un'attitudine per l'imparare del tutto insolita anche per i Tede­schi, che sono il popolo che impara per eccellenza; e da questa attitudine nacque un nuovo pericolo, addirittura più grande di quello di una vita sra­dicata e volubile, trascinata in tutte le direzioni da un delirio senza pace. Da novizio che si cimenta e cerca, Wagner diventò un maestro poliedrico della musica e della scena, e un inventore e promotore di tutti i necessari presupposti tecnici di queste. Nessuno più gli contesterà la gloria di aver fornito il modello supremo di tutta l'arte della grande esecuzione. Ma di­venne anche molto di più, e per diventare l'una e l'altra cosa non gli venne risparmiato, come a chiunque, l'apprendistato attraverso cui si perviene al-

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la suprema cultura. E il modo in cui lo fece! È un godimento assistervi: da ogni parte la cosa cresce addosso a lui, dentro di lui, e più grande e ardua è la costruzione, più teso diventa l'arco del pensiero ordinatore e dominato­re. Eppure raramente fu reso difficile come a lui trovar le vie d'accesso alle scienze e alle conoscenze, e varie volte egli dovette improvvisare tali vie d'accesso. L'innovatore del semplice dramma, lo scopritore del ruolo delle arti nella vera società umana, l'interprete poetico di lontane concezioni di vita, il filosofo, lo storico, l'estetico e il critico Wagner, il maestro della lingua, il mitologo e poeta del mito, il quale tracciò per la prima volta un cerchio attorno alla enorme, magnifica forma primigenia e vi incise le rune del suo spirito — quale pienezza di sapere dovette riunire e abbracciare, per poter diventare tutto questo! Eppure né questa somma soffocò la sua volontà d'azione, né le cose singole e più attraenti lo sviarono. Per valutare la straordinarietà di questo comportamento, si prenda come esempio la grande immagine speculare di Goethe che, come discente e sapiente, appa­re come una rete fluviale dalle amplissime diramazioni, che però non river­sa l'intera sua forza in mare, ma nei suoi percorsi e nelle sue anse ne perde e ne riversa almeno tanta, quanta ne porta con sé alla foce. È vero, una na­tura come quella di Goethe ha e dà più diletto, è circonfusa da un'aura mi­te e nobilmente prodiga, mentre il corso e la violenta corrente di Wagner possono forse spaventare e sgomentare. Ma tema chi vuole: noi altri vo­gliamo diventare tanto più coraggiosi, per il fatto che ci è dato di vedere con i nostri occhi un eroe che, anche riguardo alla cultura moderna, «non ha imparato la paura».

Altrettanto poco egli ha imparato a trovar quiete nella storia e nella filo­sofia e a estrarre per sé, dai loro effetti, proprio quelli che magicamente placano e dissuadono dall'azione. Né l'artista creativo né l'artista combat­tivo lasciò che lo studio e la cultura lo distogliessero dal suo percorso. Non appena la sua forza plasmatrice lo assale, nelle sue mani la storia diventa una duttile argilla; allora d'improvviso egli le si pone dinnanzi in modo di­verso da quello di qualunque altro dotto, simile piuttosto al modo in cui il Greco si poneva dinnanzi al suo mito, come davanti a qualcosa su cui si forma e si poeta, con amore e con una certa timorosa devozione, ma anche col diritto di sovranità del creatore. E proprio in quanto essa è per lui an­cor più pieghevole e mutevole dei sogni, egli può poeticamente introdurre nel singolo evento ciò che è tipico di intere epoche, e giungere così a una verità di rappresentazione a cui lo storico non giunge mai. Dove altro il Medioevo cavalleresco è entrato carne e spirito in una forma, come è avve­nuto nel Lohengrin! E i Maestri cantori non narreranno, anche nei tempi più lontani, della natura tedesca, anzi, più che narrarne, non saranno piut­tosto uno dei frutti più maturi di questa natura, che vuol sempre riformare e non rivoluzionare, e che sull'ampia base del suo benessere non ha tutta­via disimparato il più nobile malessere, quello dell'azione innovatrice?

E proprio a questa specie di malessere Wagner fu spinto sempre di nuo­vo dal suo occuparsi di storia e filosofia: in queste non trovò solamente ar­mi ed equipaggiamento, ma soprattutto sentì il soffio entusiasmante che spira dalle tombe di tutti i grandi combattenti, di tutti i grandi sofferenti e pensatori. Nulla può meglio staccarci da tutta l'epoca presente dell'uso che facciamo della storia e della filosofia. Alla prima, così come di solito la si intende, sembra sia oggi toccato il compito di lasciar prender fiato all'uo­mo moderno, che ansante e affaticato rincorre te sue mete, cosicché per un momento egli possa per così dire sentirsi libero dai finimenti. Quello che, nell'agitazione dello spirito della Riforma, solo Montaigne sottolinea, un

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trovar pace in se stessi, un quieto esser per sé e un prender fiato — e in questo modo lo sentì certamente il suo miglior lettore, Shakespeare —, questo è oggi la storia per lo spirito moderno. Se da un secolo i Tedeschi si sono specialmente dedicati agli studi storici, ciò mostra che essi, nel movi­mento del mondo moderno, sono la forza che trattiene, che rallenta, che acquieta: cosa che forse alcuni potrebbero volgere a loro elogio. In com­plesso però è un sintomo pericoloso il fatto che le battaglie spirituali di un popolo si rivolgano principalmente al passato, un segno di rilassamento, di regressione e di debolezza: sicché essi ora sono esposti in modo assai peri­coloso a ogni febbre che dilaghi, per esempio a quella politica. Nella storia dello spirito moderno i nostri dotti rappresentano, in contrapposizione a tutti i movimenti di riforma e di rivoluzione, un simile stato di debolezza, non si sono posti il compito più fiero, ma soltanto assicurati una loro per­sonale forma di tranquilla felicità. Ogni passo più libero e virile porta ben­sì oltre di loro — anche se per nulla affatto oltre la storia stessa! Questa al­berga ancora in sé ben altre forze, come appunto intuiscono le nature come Wagner: solo che essa dev'esser finalmente scritta in un senso molto più se­rio e severo, da un animo possente, e soprattutto non più ottimisticamente, com'è sempre stato sino ad ora, quindi diversamente da come i dotti tede­schi hanno fatto sino ad oggi. In tutti i loro lavori c'è un che di attenuante, di servile e soddisfatto, e il modo in cui vanno le cose a loro sta bene così. È già molto se qualcuno dichiara di esser contento soltanto perché le cose sarebbero potute andare ancor peggio: la maggior parte di loro crede istin­tivamente che vadano benissimo così come sono andate. Se la storia non fosse tuttora una teodicea cristiana camuffata, se fosse scritta con maggio­re giustizia e fervore di partecipazione, allora realmente essa potrebbe me­no di qualsiasi altra cosa essere usata per lo scopo al quale oggi è asservita: come oppio contro ogni sovvertimento e ogni innovazione. Lo stesso acca­de con la filosofia: dalla quale i più non vogliono imparare altro che a ca­pire approssimativamente — molto approssimativamente! — le cose, per potervisi adattare. E persino ì suoi più nobili esponenti sottolineano così marcatamente il suo potere placante e consolatorio, che i pacifici e i pigri son portati a credere di cercare le stesse cose che cerca la filosofia. A me sembra invece che la questione più importante di tutta la filosofia sia fino a che punto le cose abbiano una natura e una forma invariabile: per procede­re poi, una volta risposto a questa domanda, col coraggio più spietato, al miglioramento della parte del mondo riconosciuta come mutabile. Questo insegnano i veri filosofi anche con l'azione, lavorando al miglioramento dell'assai mutabile giudizio degli uomini e non tenendo per sé la loro sag­gezza; questo insegnano anche i veri discepoli delle vere filosofie i quali, come Wagner, sanno suggere da esse una maggiore risolutezza e inflessibi­lità del volere, ma nessuna pozione soporifera. Wagner è maggiormente fi­losofo là dove è più energico ed eroico. E proprio come filosofo traversò senza timore non soltanto il fuoco di diversi sistemi filosofici, ma anche i vapori del sapere e dell'erudizione, e restò fedele al suo più alto se stesso, che voleva da lui azioni totali della sua natura polifona e gli imponeva di soffrire e di imparare, per poter compiere quelle azioni.

4.

La storia dello sviluppo della civiltà dopo i Greci è abbastanza breve, se si considera il cammino effettivamente percorso e non si tien conto delle pause, dei passi indietro, delle esitazioni e delle tortuosità. L'ellenizzazione

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del mondo e, a renderla possibile, l'orientalizzazione dell'ellenico — il du­plice compito del grande Alessandro — resta pur sempre l'ultimo grande avvenimento; la vecchia questione se una civiltà straniera possa in genere essere trasmessa, resta piir sempre il problema attorno al quale si affatica­no i moderni. Il ritmico gioco reciproco di questi due fattori è ciò che ha soprattutto determinato il corso della storia sino ad oggi. In esso per esem­pio il cristianesimo appare come un frammento di antichità orientale, pen­sato e agito sino in fondo con smodata radicalità. Scomparso il suo influs­so, è nuovamente aumentata la potenza della civiltà ellenica; ci troviamo di fronte a fenomeni così sorprendenti, che resterebbero sospesi per l'aria senza una spiegazione se non li si potesse collegare, superando un immenso arco di tempo, con le analogie greche. Così tra Kant e gli Eleati, tra Scho­penhauer ed Empedocle, tra Eschilo e Richard Wagner esistono vicinanze e affinità tali, che veniamo quasi tangibilmente richiamati alla natura assai relativa di ogni concetto di tempo: sembra quasi che molte cose si appar­tengano a vicenda, e che il tempo sia soltanto una nube che rende difficile ai nostri occhi vedere questa reciproca appartenenza. In particolare, anche la storia delle scienze esatte desta l'impressione come se proprio ora ci tro­vassimo assai vicini al mondo greco-alessandrino, e che il pendolo della storia torni ad oscillare all'indietro, verso il punto in cui cominciò la sua oscillazione, verso una lontananza sperduta ed enigmatica. L'immagine del nostro mondo attuale non è affatto nuova: sempre più, in chi conosce la storia, deve affacciarsi la sensazione come di riconoscere tratti antichi e familiari di un volto. Lo spirito della cultura ellenica è impresso, in disper­sione infinita, sul nostro presente: mentre fanno ressa forze di ogni sorta e ci si offrono, come mezzi di scambio, i frutti delle scienze e delle capacità pratiche moderne, tornano ad affiorare i pallidi contorni dell'immagine dell'ellenicità, ancora però molto lontana e spettrale. La terra, che è stata sinora orientalizzata a sufficienza, torna ad aver nostalgia dell'ellenizza-zione; chi vuole aiutarla in questo, ha davvero bisogno di prestezza e di un piede alato, per mettere assieme i punti del sapere più molteplici e lontani, i più remoti continenti dell'ingegno, per percorrere e dominare tutto quel campo di enorme estensione. Così oggi è divenuta necessaria una serie di Contro-Alessandri, che abbiano la forza potentissima di riunire e legare, di arrivare ai fili più lontani e di proteggere il tessuto dal dissolversi al primo soffio. Non sciogliere il nodo gordiano della cultura greca, come fece Ales­sandro, sì che le sue estremità volarono in tutte le direzioni del mondo, bensì annodarlo dopo che fu sciolto — questo è oggi il compito. In Wagner riconosco un simile Contro*Alessandro: egli lega e chiude insieme ciò che era isolato, debole e inerte, se ci è consentito un termine medico egli possie­de una forza astringente: in questo appartiene alle più grandi forze della ci­viltà. Domina le arti, le religioni, la storia dei vari popoli, pur essendo l'opposto di un poligrafo, di uno spirito che raccoglie e classifica soltanto: egli infatti plasma in un tutto e rende vivo il materiale raccolto, è un sem­plificatore del mondo. Non ci si lascerà sviare da una tale idea se si parago­nerà questo compito universalissimo, assegnatogli dal suo genio, con quel­lo molto più ristretto e vicino, al quale oggi si suole innanzitutto pensare al nome di Wagner. Si aspetta da lui una riforma del teatro: posto che essa gli riesca, che cosa risolverebbe per quel compito più alto e lontano?

Ebbene, con essa sarebbe cambiato e riformato l'uomo moderno: le co­se, nel nostro mondo moderno, sono così necessariamente collegate l'una all'altra, che chi sfila anche un solo chiodo fa tremare e crollare l'edificio. Anche da qualsiasi altra vera riforma sarebbe da aspettarsi la stessa cosa

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che con apparente esagerazione noi qui diciamo della riforma wagneriana. È assolutamente impossibile produrre l'effetto più alto e puro dell'arte tea­trale, senza innovare dappertutto, nel costume e nello Stato, nell'educazio­ne e nei rapporti umani. Amore e giustizia divenuti potenti in un unico punto, cioè qui nella sfera dell'arte, debbono secondo la legge della loro intima necessità continuare a propagarsi, né possono tornare alla loro pre­cedente immobilità di crisalidi. Già per comprendere quanto la posizione delle nostre arti rispetto alla vita sia un simbolo della degenerazione di que­sta vita, quanto i nostri teatri siano un'ignominia per chi li costruisce e per chi li frequenta, bisogna disimparare tutto e riuscire finalmente a vedere il solito e il banale come qualcosa di assai insolito e complesso. Strano offu­scamento del giudizio, mal dissimulata smania di diletto, di divertimento ad ogni costo, saccenti considerazioni, boria e istrionismo con la seriosità dell'arte da parte degli esecutori, brutale avidità di guadagno da parte degli impresari, vacuità e leggerezza di una società che pensa al popolo solo in quanto esso possa tornarle utile o pericoloso, e frequenta teatri e concerti senza che al riguardo le vengano mai ricordati dei doveri — l'insieme di tutto questo forma l'atmosfera torpida e rovinosa della nostra odierna si­tuazione artistica: ma se ci si è avvezzi, come lo sono le nostre persone di cultura, ci si illude di aver bisogno di quest'atmosfera per la propria salute, e ci si sente male se, per una qualche costrizione, è necessario farne tempo­raneamente a meno. In realtà si ha un solo mezzo per convincersi rapida­mente di quanto siano volgari, o meglio di quanto stranamente e ridicol­mente volgari siano le nostre istituzioni teatrali: basta metterle a raffronto con la realtà del teatro greco antico! Posto che non sapessimo nulla dei Greci, forse non si potrebbe venire a capo della nostra situazione, e le obie­zioni che Wagner mosse per primo in grande stile, verrebbero considerate fantasie di gente che vive nel paese di Utopia. Per come sono gli uomini, forse si direbbe, un'arte come questa basta e conviene loro — ed essi non sono mai stati diversi! — Certo che sono stati diversi, e persino oggi esisto­no uomini ai quali le istituzioni che ci sono state sinora non bastano — il fatto di Bayreuth dimostra proprio questo. Qui trovate spettatori preparati e devoti, la commozione di uomini che sono al culmine della felicità e pro­prio in essa sentono raccolto tutto il loro essere, per ricever forza per un più ampio e alto volere; qui trovate la più fervida abnegazione degli artisti e lo spettacolo degli spettacoli, il vittorioso creatore di un'opera che è essa stessa la quintessenza di una quantità di imprese artistiche vittoriose. Non sembra quasi opera di magia poter incontrare nel nostro tempo un tale fe­nomeno? Coloro ai quali qui è concesso di collaborare e di assistere, non debbono essere già trasformati e rinnovati, per trasformare e rinnovare an­che per il futuro, in altri campi della vita? Non si è trovato un porto dopo la deserta vastità del mare, su queste acque non regna una calma diffusa? •<— Chi, dall'atmosfera profonda e solitaria che qui regna, torna alle ben diverse piattezze e bassezze della vita, non deve continuamente chiedersi, come Isotta: «Come ho potuto sopportarlo? Come potrò sopportarlo an­cora?». E se non riesce a tenere egoisticamente per sé la propria felicità e la propria infelicità, d'ora innanzi coglierà ogni occasione per renderne testi­monianza con l'azione. Dove sono coloro che soffrono per le attuali istitu­zioni? egli chiederà. Dove sono i nostri naturali alleati, con i quali possia­mo combattere il lussureggiante e oppressivo dilagare della cultura odier­na? Giacché per il momento abbiamo un solo nemico — per il momento! —, appunto quelle «persone colte» per le quali la parola «Bayreuth» signi­fica una delle loro più profonde sconfitte — esse non hanno collaborato,

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erano furiosamente contrarie, oppure mostravano quell'ancor più efficace durezza d'orecchio che oggi è divenuta l'arma abituale della più meditata opposizione. Ma proprio grazie al fatto che con la loro ostilità e la loro perfidia non sono riuscite a distruggere la natura di Wagner né a impedire la sua opera, noi sappiamo ancora una cosa: hanno mostrato di essere de­boli, e che la resistenza dei tradizionali detentori del potere non reggerà più a molti attacchi. È il momento di coloro che vogliono conquistare e vincere grandiosamente, i più grandi imperì sono aperti, accanto ai nomi dei pro­prietari, ovunque ci sia proprietà, sta un punto interrogativo. Così, per esempio, l'edificio dell'istruzione è riconosciuto come fatiscente, e dapper­tutto si trovano individui che hanno già abbandonato in silenzio quell'edi­ficio. Se si potesse indurre coloro che già ora ne sono profondamente scon­tenti a dichiararlo e a indignarsi apertamente! Se li si potesse spogliare del loro scoraggiante abbattimento! Io lo so: se si defalcasse dai proventi di tutto il nostro sistema educativo proprio l'apporto silenzioso di queste na­ture, ciò costituirebbe il più acerbo salasso con cui poterlo indebolire. Dei dotti, per esempio, resterebbero indietro sotto il vecchio regime solo quelli contagiati dalla follia politica e il lctteratume d'ogni genere. Il ripugnante organismo che oggi riceve la sua forza dall'appoggiarsi alle sfere della vio­lenza e dell'ingiustizia, allo Stato e alla società, e trova il suo tornaconto nel renderle sempre più malvagie e spietate, senza questo appoggio è qual­cosa di gracile e di stanco: basta soltanto disprezzarlo sinceramente, e crol­lerà da sé. Chi lotta per la giustizia e per l'amore tra gli uomini, non deve minimamente temerlo: infatti i suoi veri nemici gli staranno di fronte solo quando avrà portato a termine la battaglia che egli frattanto conduce con­tro la loro avanguardia, la cultura odierna.

Per noi Bayreuth significa la consacrazione mattutina nel giorno della battaglia. Non ci si potrebbe far torto maggiore di quello di supporre che a noi interessi l'arte soltanto: quasi essa dovesse agire come un farmaco o un narcotico con cui liberarsi di tutte le altre miserie. Nell'immagine di quel­l'opera d'arte tragica di Bayreuth noi vediamo appunto la lotta degli indi­vidui contro tutto quel che si oppone loro come necessità apparentemente invincibile, contro il potere, la legge, la tradizione, la convenzione e gli in­teri ordinamenti delle cose. Non può esservi per gli individui modo di vive­re più bello che maturare per la morte e immolarsi nella battaglia per la giustizia e per l'amore. Lo sguardo che l'occhio misterioso della tragedia ci rivolge, non è un incantesimo che snervi e intorpidisca le membra. Benché essa esiga riposo, sintanto che posa su di noi il suo sguardo; — giacché l'arte non esiste per la battaglia stessa, ma per le pause di riposo prima e durante la battaglia, per quei minuti in cui, guardando il passato e presa­gendo il futuro, si comprende il simbolico e, assieme a un senso di lieve stanchezza, si avvicina a noi un sogno ristoratore. Ma subito irrompono il giorno e la lotta, le sacre ombre svaniscono e di nuovo l'arte si allontana da noi; ma il suo conforto si è posato sull'uomo sin dall'ora mattutina. Giacché per il resto l'individuo ritrova dappertutto la sua personale insuf­ficienza, la sua semiimpotenza e impotenza: con quale coraggio dovrebbe combattere, se non fosse stato prima consacrato a qualcosa di sovraperso-nale? I suoi più grandi dolori, la mancanza di un sapere comune a tutti gli uomini, l'incertezza delle conoscenze ultime e la disuguaglianza delle capa­cità, tutto ciò lo rende bisognoso d'arte. Non si può essere felici, sinché tutti attorno a noi soffrono e si procurano sofferenza; non si può essere morali, sinché a regolare il corso delle cose umane stanno la violenza, l'in­ganno e l'ingiustizia; non si può neanche essere saggi, finché tutta l'umani-

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tà non si sia cimentata in una gara per la saggezza e non introduca nel mo­do più saggio l'individuo nella vita e nel sapere. Come potremmo reggere a questo triplice senso di insufficienza, se già nella nostra lotta, nelle nostre aspirazioni e nel nostro soccombere non fossimo in grado di riconoscere qualcosa di sublime e di importante, e non imparassimo dalla tragedia a trovar piacere nel ritmo della grande passione e nel sacrificio per essa? L'arte non è certo maestra ed educatrice per l'agire immediato; l'artista non è mai un educatore e un consigliere in tal senso; gli oggetti ai quali aspirano gli eroi tragici, non sono mai cose senz'altro desiderabili di per sé. Sinché ci sentiamo presi dall'incantesimo dell'arte, la valutazione delle co­se è diversa, come nel sogno: ciò che allora consideriamo tanto desiderabi­le, da consentire con l'eroe tragico quando preferisce morire piuttosto che rinunciarvi — raramente ha uguale valore per la vita reale e merita pari energia: appunto per questo l'arte è l'attività di colui che si prende un ripo­so. Le lotte che essa presenta sono semplificazioni delle reali lotte della vi­ta; i suoi problemi sono abbreviazioni del conto infinitamente complicato dell'agire e del volere umano. Ma proprio in questo sta la grandezza e l'in­dispensabilità dell'arte, nel suscitare l'apparenza di un mondo più sempli­ce, di una più rapida soluzione dell'enigma della vita. Nessuno che soffra della vita può fare a meno di questa apparenza, come nessuno può fare a meno del sonno. Quanto più ardua diventa la conoscenza delle leggi della vita, tanto più ardentemente desideriamo l'apparenza di quella semplifica­zione, fosse solo per pochi istanti, e tanto più grande diventa la tensione tra la conoscenza generale delle cose e la facoltà spirituale-morale dell'indi­viduo. Perché l'arco non si spezzi: per questo esiste l'arte.

L'individuo dev'esser consacrato a qualcosa di sovrapersonale — questo vuole la tragedia; egli deve disimparare la terribile angoscia che la morte e il tempo suscitano nell'individuo: perché già nell'attimo più breve, nel più minuscolo atomo della sua vita può farglisi incontro qualcosa di santo che ripaghi a usura ogni lotta e ogni sofferenza — questo significa avere senti­mento tragico. E se l'intera umanità dovrà un giorno morire — chi potreb­be dubitarne? — ad essa è assegnato, come compito supremo per tutti i tempi avvenire, il fine di concrescere ad unità e comunanza, in modo da andare incontro come un tutto, con sentimento tragico, alla rovina che l'attende; in questo compito supremo è racchiusa ogni possibilità di nobili­tazione degli umani; se venisse definitivamente rifiutato, ne risulterebbe il quadro più fosco che un amico degli uomini potrebbe concepire. Così io sento! Esiste una sola speranza e una sola garanzia per il futuro delle cose umane: essa è che il sentimento tragico non muoia. Dovrebbe risuonare sulla terra un grido di dolore senza pari, se un giorno gli uomini perdessero completamente questo sentimento; e d'altro canto non esiste piacere più inebriante di quello di sapere quel che noi sappiamo — che nel mondo è ri­nato il pensiero tragico. Perché questo piacere è un piacere assolutamente sovrapersonale e universale, un tripudio dell'umanità per la raggiunta ga­ranzia della coesione e del progresso delle cose umane. —

5.

Wagner pose la vita presente e il passato sotto il raggio luminoso di una conoscenza, forte abbastanza da consentir di vedere a straordinaria distan­za: perciò egli è un semplificatore del mondo; infatti la semplificazione del mondo consiste sempre in questo, che lo sguardo di colui che conosce è ri­diventato signore dell'immane pienezza e disordine di un caos apparente, e

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conduce ad unità ciò che prima giaceva disperso come incompatibile. Wa­gner fece questo trovando un rapporto fra due cose che sembravano vive­re, fredde ed estranee, come in sfere separate: tra musica e vita e così pure tra musica e dramma. Non che abbia inventato o creato per primo questi rapporti: essi esistono, e stanno davanti a tutti: così come sempre il grande problema somiglia alla pietra preziosa sulla quale passano migliaia di per­sone, sinché alla fine uno la raccoglie. Che cosa significa, si chiede Wa­gner, che nella vita degli uomini moderni proprio un'arte come la musica sia emersa con forza così incomparabile? Non necessariamente occorre avere una cattiva opinione di questa vita, per vedere in ciò un problema; no, se si considerano tutte le grandi forze proprie di questa vita, e si pensa l'immagine di un'esistenza che aspira possentemente ad elevarsi e lotta per una consapevole libertà e per l'indipendenza del pensiero — allora davvero la musica appare come enigma in questo mondo. Non ci sarebbe forse da dire: la musica non poteva sorgere da un'epoca come questa? Ma allora cos'è la sua esistenza? Un caso? Certo, anche solo un grande artista po­trebbe essere un caso, ma la presenza di una serie così imponente di grandi artisti, come quella che la storia moderna della musica ci mostra, e che ha avuto sinora l'uguale solo una volta, al tempo dei Greci, fa pensare che qui domini non il caso, ma la necessità. Appunto questa necessità è il proble­ma al quale Wagner dà una risposta.

In lui è innanzitutto germogliata la conoscenza di uno stato di necessità che si estende sin dove la civiltà oggi congiunge i popoli: dappertutto il lin­guaggio è malato, e l'oppressione di questa immensa malattia grava su tut­to lo sviluppo umano. Mentre il linguaggio doveva continuamente elevarsi ai più alti livelli delle sue possibilità, per cogliere il regno del pensiero, os­sia l'opposto del sentimento, allontanandosi il più possibile dai forti moti dell'animo, ai quali in origine esso sapeva conformarsi con immediatezza — questa smisurata tensione ne ha esaurito le forze nel breve spazio di tempo della civiltà moderna: sicché non può più assolvere al compito per cui unicamente esso esiste — creare tra coloro che soffrono un comune ter­reno d'intesa sulle più comuni miserie della vita. L'uomo non può più farsi conoscere nella sua miseria mediante il linguaggio, quindi non può più co­municare veramente se stesso: in questa condizione oscuramente percepita, il linguaggio è diventato dappertutto una forza a sé, che con braccia spet­trali afferra gli uomini e li sospinge dove essi in realtà non vogliono anda­re; non appena cercano di comunicare reciprocamente e di unirsi per un'o­pera, li afferra la follia dei concetti universali, anzi dei puri suoni verbali, e in seguito a questa incapacità di comunicare, i risultati creativi della loro unità d'intenti portano a loro volta il segno dell'incomprensione, in quanto non corrispondono ai bisogni reali, ma appunto soltanto al vuoto di quelle parole e di quei concetti dispotici: così a tutte le sue sofferenze l'umanità aggiunge anche la sofferenza della convenzione, ossia di un'intesa nelle pa­role e nelle azioni senza un'intesa nel sentimento. Come, nel processo di decadenza di ogni arte, si raggiunge un punto in cui la morbosa prolifera­zione di mezzi e di forme si impone tirannicamente alle anime giovani degli artisti e le rende sue schiave, così oggi, nella decadenza dei linguaggi, si è schiavi delle parole; sotto questa costrizione nessuno è più in grado di mo­strare se stesso, di parlare ingenuamente, e pochi in genere riescono a pre­servare la propria individualità, nella lotta con una cultura che crede di di­mostrare il suo successo non andando incontro in modo formativo a senti­menti ed esigenze chiari, ma impastoiando l'individuo nella rete dei «con-

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cetti chiari» e insegnandogli a pensare correttamente: come se avesse qual­che valore far di qualcuno un essere che pensa e argomenta correttamente, se prima non si è riusciti a far di lui un essere che sente correttamente. Ora, se in mezzo alla nostra umanità così offesa risuona la musica dei nostri maestri tedeschi, che cosa propriamente si esprime in essa? Appunto sol­tanto il giusto sentimento, il nemico di ogni convenzione, di ogni artificiale estraniamento e incomprensibilità tra uomo e uomo: questa musica è ritor­no alla natura, e insieme purificazione e trasformazione della natura; poi­ché nell'anima degli uomini più ricchi d'amore è sorta la necessità di quel ritorno, e nella loro arte risuona la natura trasformata in amore.

Prendiamo questa come la prima risposta di Wagner alla domanda che cosa significhi la musica nel nostro tempo: egli ne ha anche una seconda. Il rapporto tra musica e vita non è soltanto quello tra un tipo di linguaggio e un altro tipo di linguaggio; è anche il rapporto fra l'intero mondo uditivo e tutto il mondo visivo. Ma, intesa come fenomeno visivo e paragonata con le precedenti manifestazioni della vita, l'esistenza dell'uomo moderno mo­stra una povertà e un'estenuazione indicibili, nonostante l'indicibile ric­chezza di colori, di cui può sentirsi allietato solo il più superficiale degli sguardi. Si guardi più acutamente e si analizzi l'impressione di questo gio­co di colori così violentemente mosso: non sembra nel suo insieme il brillio e lo sfolgorio di innumerevoli pietruzze e di minuscoli frammenti presi a prestito da culture precedenti? Non è tutto sfoggio inadeguato, movimento scimmiottato, esteriorità usurpata? Un abito di cenci colorati per chi è nu­do e ha freddo? Un'apparente danza di gioia che si pretende da un soffe­rente? Espressioni di orgoglio insolente esibite da chi è profondamente fe­rito? E nel mezzo, dissimulate e nascoste solo dalla rapidità del movimento e del turbine — grigia impotenza, cocente disarmonia, laboriosissima noia, infamante miseria! La figura dell'uomo moderno è diventata mera appa­renza; in quel che egli oggi rappresenta non si rende visibile lui stesso, anzi resta nascosto; e tutto quel che di attività artistica inventiva si è conservato presso un popolo, per esempio presso i Francesi e gli Italiani, viene speso nell'arte di questo giocare a nascondersi. Dovunque oggi si richieda «for­ma», nella società e nella conversazione, nell'espressione letteraria, nel rapporto fra gli Stati, involontariamente con essa si intende una piacevole apparenza, l'opposto del vero concetto di forma come struttura necessaria, che nulla ha a che fare con «piacevole» e «spiacevole», in quanto appunto è necessaria e non arbitraria. Ma anche là dove oggi, tra popoli civili, non si esige espressamente la forma, si possiede altrettanto poco quella struttu­ra necessaria, solo non si è ugualmente felici nella ricerca dell'apparenza piacevole, pur essendo quanto meno altrettanto zelanti. Quanto piacevole sia nell'un caso e nell'altro l'apparenza, e perché debba piacere a tutti che l'uomo moderno cerchi almeno di apparire, questo lo avverte chiunque, nella misura in cui sia egli stesso uomo moderno. «Solo gli schiavi delle ga­lere si conoscono, — dice Tasso — però noi cortesemente misconosciamo gli altri, solo perché essi possano misconoscere noi.»

In questo mondo delle forme e del voluto misconoscimento appaiono ora le anime colmate dalla musica, — a quale scopo? Si muovono secondo l'andamento del grande, libero ritmo, con nobile decoro, con una passione che è sovrapersonale, ardendo del fuoco della musica, pacato nella sua possanza, che in loro sgorga alla luce da inesauribili profondità, — tutto questo a quale scopo?

Attraverso queste anime la musica aspira alla sua simmetrica sorella, la

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ginnastica, come alla sua necessaria configurazione nel regno del visibile: nel cercarla e nel desiderarla essa diventa giudice di tutto il fallace mon­do odierno dell'esibizione e dell'apparenza. È questa la seconda risposta di Wagner alla domanda, che cosa debba significare la musica in quest'epo­ca. Aiutatemi, egli grida a tutti coloro che sanno ascoltare, aiutatemi a sco­prire quella cultura che la mia musica, in quanto ritrovato linguaggio del vero sentimento predice, considerate che ora l'anima della musica vuole plasmarsi un corpo, e che attraverso tutti voi cerca la sua strada per ren­dersi visibile in movimento, azione, istituzione e costume! Ci sono uomini che comprendono questo grido, e saranno sempre più numerosi; costoro comprendono anche per la prima volta che cosa voglia dire fondare lo Sta­to sulla musica, — cosa che gli antichi Elleni non soltanto avevano capito, ma si ponevano anche come esigenza: mentre quegli stessi spiriti sagaci condanneranno lo Stato odierno così incondizionatamente come già ora la maggior parte degli uomini condanna la Chiesa. La strada per una meta così nuova eppure non sempre inaudita, ci porta a riconoscere in che cosa consista la più vergognosa manchevolezza della nostra educazione, e il ve­ro motivo per cui essa è incapace di farci uscire dalla barbarie: a essa man­ca lo spirito animatore e plasmatore della musica, mentre le sue esigenze e le sue istituzioni sono il prodotto di un'epoca in cui non era ancor nata quella musica, nella quale noi qui riponiamo una così significativa fiducia. La nostra educazione è la struttura più arretrata del presente, e arretrata proprio in rapporto all'unica forza educativa nuova che gli uomini possie­dano in più rispetto a quelli dei secoli scorsi — o potrebbero possedere, se al presente non volessero più continuare a vivere così sconsideratamente sotto la sferza dell'attimo! Poiché sinora non hanno lasciato che albergasse in loro lo spirito della musica, non hanno neppure ancora presagito la gin­nastica nel senso greco e wagneriano; e questo è a sua volta il motivo per cui i toro artisti figurativi sono condannati a non aver speranza sinché, co­me tuttora accade, vorranno fare a meno della musica come guida verso un nuovo mondo visivo; cresca pure tutto il talento che si vuole, esso giungerà troppo tardi o troppo presto, e comunque nel momento sbagliato, in quan­to è superfluo e inefficace, dato che persino la perfezione e la sublimità delle epoche precedenti, che sono il modello degli artisti odierni, sono su­perflue e quasi inefficaci, e riescono appena a mettere una pietra sull'altra. Se essi, con la vista interiore, non scorgono nuove figure davanti a sé, ma sempre soltanto le antiche dietro di sé, servono la storia ma non la vita, e sono morti prima di aver esalato l'ultimo respiro: ma chi oggi sente dentro di sé vita vera, feconda, ossia presentemente soltanto: musica, potrebbe la­sciarsi sedurre anche un solo istante a più vaste speranze da un'estenuante ricerca di figure, forme, stili? Egli è ormai al di là di ogni vanità del genere; e pensa tanto poco a trovare miracoli figurativi al di fuori del suo ideale mondo uditivo, quanto poco si aspetta grandi scrittori dalle nostre lingue logorate e smorte. Piuttosto che prestare orecchio a vane consolazioni qualsiasi, sopporta di volgere lo sguardo profondamente insoddisfatto sul­la nostra condizione di moderni: diventi pure pieno di bile e d'odio, se il suo cuore non è caldo abbastanza per la compassione! Meglio la cattiveria e lo scherno, che lasciarsi andare, al modo dei nostri «amici dell'arte», a un ingannevole benessere e a un segreto alcolismo! Ma quand'anche egli possa far più che negare e schernire, quando possa amare, compatire e aiu­tare a costruire, egli dovrà innanzitutto negare, per aprire in tal modo la strada alla sua anima soccorrevole. Perché un giorno la musica predispon-

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ga molti uomini al raccoglimento e confidi loro i suoi più alti intendimen­ti, occorre innanzitutto por fine a un rapporto con un'arte così sacra im­prontato esclusivamente sull'avida ricerca del piacere; la base su cui pog­giano i nostri trattenimenti artistici, il teatro, i musei, le società di concer­ti, la quale non è altro se non quell'«amico dell'arte», va messa al bando; il favore statale che viene accordato ai suoi desideri, va tramutato in sfa­vore; la pubblica opinione, che ripone un particolare valore proprio nel-Tammaestrare a quell'amore per l'arte, dev'essere spazzata via da un'opi­nione migliore. Nel frattempo persino il nemico dichiarato dell'arte va da noi considerato come vero e utile alleato, giacché quello a cui si dichiara ostile è appunto soltanto l'arte quale la intende l'«amico dell'arte»: non ne conosce infatti altra! Addebiti pure a questo amico dell'arte il folle sciupio di denaro per la costruzione dei suoi teatri e monumenti pubblici, per l'impiego dei suoi «celebri» cantanti e attori, per il mantenimento del­le sue scuole d'arte e delle sue collezioni di quadri totalmente infruttuose: per non parlare dell'energia, del tempo e del denaro gettati via in ogni fa­miglia per l'educazione a presunti «interessi artistici». Questo non è né fa­me né sazietà, ma sempre e soltanto uno stracco giocare con la parvenza di entrambe, escogitati per la più vanitosa esibizione, per trarre in ingan­no il giudizio altrui su di sé; oppure anche peggio: quando si prende l'arte in modo relativamente serio, da essa si esige addirittura che ingeneri una specie di fame e di desiderio, e si considera suo compito appunto questa eccitazione artificiosamente prodotta. Come se si temesse di morire di nausea per se stessi e di ottusità, si evocano tutti i cattivi dèmoni, per farsi incalzare come animali selvatici da questi cacciatori: si ha sete di dolore, di ira, di odio, di infervoramento, di improvviso terrore, di una tensione mozzafiato, e si ricorre all'artista perché evochi questa caccia spettrale. L'arte, nell'economia spirituale delle nostre persone colte, è oggi un biso­gno del tutto fittizio oppure vergognoso e avvilente, un niente oppure un cattivo qualcosa. L'artista, quello migliore e più raro, è come prigionie­ro di un sogno narcotizzante, di non vedere tutto ciò, e ripete esitante e con voce incerta parole di spettrale bellezza, che crede di udire da luoghi lontanissimi, senza però afferrarle chiaramente; invece l'artista di taglio tutto moderno, affronta con totale disprezzo il trasognato brancolare e parlare del suo più nobile compagno, e si porta al guinzaglio la muta la­trante di passioni accoppiate a mostruosità, per lanciarla a suo piacimento sugli uomini moderni: questi infatti preferiscono esser cacciati, uccisi e sbranati, anziché dover convivere quietamente con se stessi! — questo pensiero agita le anime moderne, è la loro angoscia e la loro paura degli spettri.

Quando, in città popolose, guardo passarmi accanto migliaia di persone con l'espressione dell'indifferenza o della fretta, mi dico sempre: debbono star male dentro. Ma per tutti costoro l'arte esiste soltanto perché si senta­no ancora peggio, più tetri e insensibili, oppure più frettolosi e bramosi. Giacché li cavalca e li vessa senza posa il falso sentimento, e non permette loro assolutamente di ammettere con se stessi la propria miseria; se voglio­no parlare, la convenzione mormora loro all'orecchio qualcosa, e allora di­menticano quel che volevano dire; se vogliono intendersi fra loro, il loro spirito è come paralizzato da un incantesimo, e cosi chiamano felicità quel che è la loro infelicità, e per loro sventura si alleano anche volontariamente tra loro. Cosi sono in tutto e per tutto trasformati e degradati a schiavi abulici del falso sentimento.

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6.

Con due soli esempi voglio mostrare quanto si sia invertito il sentimento nel nostro tempo, e come il tempo non abbia coscienza alcuna di questa in­versione. Una volta si guardavano dall'alto in basso, con sincero senso di superiorità, coloro che trafficavano col denaro, anche se si aveva bisogno di loro; si ammetteva che ogni società doveva avere i suoi intestini. Oggi costoro sono la potenza dominante nell'anima dell'umanità moderna, co­me la parte più vorace di essa. Una volta da nulla si metteva più in guardia che dal prender troppo sul serio il giorno, l'istante, e si consigliava il nil admirari e la cura delle cose eterne: oggi nell'anima moderna è rimasta una sola specie di serietà, quella per le notizie recate dai giornali o dal telegra­fo. Sfruttare l'attimo e, per ricavarne un vantaggio, giudicarlo quanto più in fretta si può! — Quasi si crederebbe che agli uomini attuali sia anche ri­masta una sola virtù, quella della presenza di spirito. In verità è piuttosto l'onnipresenza in ciascuno di una sudicia insaziabile avidità e di una curio­sità che spia dappertutto. Se oggi in genere sia presente Io spìrito — rinvia­mo l'indagine su questo ai giudici futuri, che un giorno passeranno al va­glio gli uomini moderni. Ma volgare quest'epoca lo è: lo si può vedere già adesso, perché onora quel che nobili epoche precedenti disprezzavano; ma se si è appropriata anche di tutto il tesoro della saggezza e dell'arte passate e incede avvolta in questo ricchissimo fra tutti i mantelli, essa mostra un inquietante orgoglio per la propria volgarità perché non usa quel mantello per riscaldarsi, ma soltanto per creare illusioni su se stessa. La necessità di simulare e di nascondersi le appare più urgente di quella di non morire assi­derata. Così, i dotti e i filosofi d'oggi non utilizzano la saggezza degli In­diani e dei Greci per la propria saggezza e calma interiore: il loro lavoro deve unicamente servire a procurare al presente un'ingannevole nomea di saggezza. Gli studiosi della storia degli animali si sforzano di far passare l'insorgere animalesco di violenza e astuzia e vendetta negli odierni rappor­ti degli Stati e degli uomini tra loro per un'ineluttabile legge naturale. Gli storici si industriano con scrupolosa diligenza a dimostrare il principio che ogni tempo ha un diritto suo, delle condizioni sue, — per preparare subito la linea di difesa per il futuro processo al quale verrà sottoposto il nostro tempo. La dottrina dello Stato, del popolo, dell'economia, del commercio, del diritto — tutto ha oggi questo carattere apologetico preparatorio; sem­bra anzi che quel tanto di spirito che oggi è ancora attivo, senz'esser consu­mato nel movimento del grande meccanismo del guadagno e del potere, abbia come unico compito quello di difendere e scusare il presente.

Di fronte a quale accusatore? ci si chiede stupiti. Di fronte alla propria cattiva coscienza.

E qui improvvisamente diventa chiaro anche il compito dell'arte moder­na: ottusità o ebbrezza! Addormentare o stordire! Portare la coscienza al­l'ignoranza, nell'un modo o nell'altro! Aiutare l'anima moderna a supera­re il senso di colpa, non aiutarla a ritrovare l'innocenza! E questo almeno per qualche attimo! Difendere l'uomo da se stesso, portandolo entro se stesso al dover tacere, al non poter udire! — Ai pochi che hanno davvero percepito, anche una sola volta, questo vergognosissimo compito, questa terribile umiliazione dell'arte, l'anima sarà diventata e resterà piena sino all'orlo di dolore e di pietà: ma anche di una nuova, potentissima nostal­gia. Chi volesse liberare l'arte, ripristinare la sua non profanata sacralità, dovrebbe innanzitutto aver liberato se stesso dall'anima moderna; solo co-

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me innocente potrebbe trovare l'innocenza dell'arte; deve quindi compiere due immense purificazioni e consacrazioni. Se riuscisse vincitore, se con animo liberato parlasse agli uomini con la sua arte liberata, solo allora in­correrebbe nel maggiore pericolo, nella lotta più immane; gli uomini sbra­nerebbero lui e la sua arte, piuttosto che ammettere di dover morire di ver­gogna davanti a loro. Sarebbe possibile che la redenzione dell'arte, l'unica consolazione sperabile nell'epoca moderna, rimanesse un avvenimento per poche anime solitarie, mentre i molti sopporterebbero ancora e ancora di guardare nel fuoco guizzante e fumigante della loro arte: infatti non vo­gliono luce, ma abbagliamento, anzi odiano la luce — su se stessi.

Così essi evitano il nuovo portatore di luce; ma egli li segue, costretto dall'amore da cui è nato, e vuole costringerli. «Voi dovete attraversare i miei misteri», grida loro, «voi avete bisogno delle loro purificazioni e dei loro sconvolgimenti. Osatelo per la vostra salvezza, e lasciate una buona volta quel frammento di natura e di vita torbidamente illuminato che sem­brate conoscere voi soli; vi condurrò in un regno che è altrettanto reale, voi stessi dovrete dire, quando tornerete dalla mia caverna alla vostra luce, quale vita è più reale, e dove sta veramente la luce, e dove la caverna. La natura è all'interno troppo più ricca, più potente, più beata, più fertile, voi non la conoscete, vivendo come vivete: imparate a ridiventare voi stessi na­tura, e poi lasciatevi trasformare con essa e in essa dal mio incantesimo d'amore e di fuoco.»

È la voce dell'arte di Wagner che così parla agli uomini. Che noi, figli di un'epoca miserevole, abbiamo potuto udirne il suono per primi, mostra quanto degna di commiserazione debba essere appunto quest'epoca, e mo­stra soprattutto che la vera musica è un frammento di fato e di legge pri­mordiale; poiché non è assolutamente possibile derivare il fatto che risuoni proprio ora da un caso vuoto e privo di senso; un Wagner casuale sarebbe stato schiacciato dallo strapotere dell'altro elemento in cui fu gettato. Ma sul divenire del vero Wagner si stende una necessità trasfiguratrice e giusti­ficatrice. La sua arte, osservata nel suo nascere, è Io spettacolo più splendi­do, per quanto doloroso possa essere stato quel divenire, perché dappertut­to sono evidenti ragione, legge, scopo. L'osservatore, nella felicità di que­sto spettacolo, apprezzerà persino quel doloroso divenire e rifletterà con gioia come, per una natura e una disposizione predestinata, tutto debba mutarsi in salvezza e guadagno, per quanto difficili siano le scuole attra­verso cui è passata, come ogni pericolo la renda più coraggiosa, ogni vitto­ria più pensosa, come si nutra di veleno e di infelicità ricavandone salute e forza. Lo scherno e l'opposizione del mondo circostante sono il suo stimo­lo e il suo pungolo; se si smarrisce, torna dall'errore e dallo smarrimento con il più meraviglioso bottino; se dorme, «attinge dal sonno nuove for­ze». Tempra persino il suo corpo e lo rende più robusto; non consuma la vita, quanto più vive; domina sull'uomo come un'alata passione, e lo fa volare proprio quando il suo piede si è stancato nella sabbia ed è ferito dal­le pietre. Non può far altro che comunicare, chiunque deve collaborare al­la sua opera: essa non è avara dei suoi doni. Respinta, dona più riccamen­te, sollecitata dal beneficato essa aggiunge ai suoi doni anche il gioiello più prezioso che ha — e mai ancora i beneficati furono in tutto degni del dono, come insegna la più antica e la più recente esperienza. In questo modo la natura pre-destinata, attraverso la quale la musica parla al mondo dell'ap­parenza, è la cosa più enigmatica sotto il sole, un abisso in cui riposano ac­coppiate forza e bontà, un ponte fra sé e non-sé. Chi saprebbe dar nome allo scopo per il quale essa in genere esiste, anche se, nel modo in cui è di-

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venuta, si lasciasse decifrare una conformità a uno scopo? Ma, dal più feli­ce dei presentimenti, è lecito chiedersi: dovrebbe davvero ciò che è più grande esistere per ciò che è più umile, il massimo talento esistere a favore del minimo, la più alta virtù e santità esistere per amore dei fragili? Doveva la vera musica risuonare perché gli uomini non la meritavano minimamen­te, ma ne avevano bisogno massimamentel Ci si sprofondi solo una volta nello sconfinato miracolo di questa possibilità: guardando indietro alla vi­ta di lì, essa risplende, per quanto cupa e nebbiosa potesse prima apparire. —

7.

Altro non può succedere: di fronte a una natura come quella di Wagner l'osservatore non può che pensare a se stesso, alla propria pochezza e fra­gilità, e si chiederà: e tu? A quale scopo esisti tu? — Probabilmente poi non trova la risposta, e davanti alla propria natura resta in silenzio per­plesso e sconcertato. Allora gli può bastare aver vissuto questa esperienza; può dargli la risposta a questa domanda il fatto che si sente estraneo alla propria natura.

Perché proprio questo sentimento partecipa della più possente estrinse­cazione esistenziale di Wagner, del punto centrale della sua forza, di quel­la sua demoniaca capacità di trasferirsi e di autoalienarsi, di trasmettersi agli altri nella stessa misura in cui fa conoscere a se stesso altre nature, e che ha la sua grandezza nel dare e ricevere. Assoggettandosi apparente­mente alla prorompente natura di Wagner l'osservatore ha partecipato della sua forza e quindi tramite lui è diventato in qualche modo potente contro di lui; e chi esamina se stesso scrupolosamente sa che anche la con­templazione possiede un misterioso antagonismo, quello della contro-os­servazione.

Se la sua arte ci fa provare tutto ciò che prova un'anima errabonda che partecipa di altre anime e della loro sorte e impara a vedere con molti oc­chi, noi da siffatta estraniazione e lontananza, dopo averlo sperimentato siamo anche capaci di vedere proprio lui. Allora avvertiamo con assoluta certezza: in Wagner tutto ciò che per il mondo è visibile vuole approfon­dirsi e interiorizzarsi diventando udibile e cerca la sua anima perduta; in Wagner tutto ciò che è udibile vuole uscire e salire alla luce anche come fenomeno visivo, vuole, per così dire, acquistare corporeità.

La sua arte gli fa compiere sempre un doppio percorso, da un mondo quale rappresentazione uditiva lo trasferisce in un mondo quale spettaco­lo, al primo misteriosamente affine, e viceversa: egli è continuamente co­stretto — e il contemplante con lui — a ritradurre in anima e vita primor­diale questa commozione e a vedere come rappresentazione la trama più nascosta del mondo interiore e a vestirla di un corpo apparente. Tutto ciò costituisce la natura del drammaturgo ditirambico, intendendo questo concetto in tutta la sua portata, per cui Wagner è insieme attore, poeta e musicista: così come questo concetto dev'essere necessariamente desunto dall'unica apparizione perfetta prima di Wagner del drammaturgo diti­rambico, da Eschilo e dai Greci suoi compagni d'arte.

Se si è tentato di derivare i più grandiosi sviluppi da inibizioni o lacune interiori, se per Goethe, ad esempio, poetare è stato un modo per manife­stare una mancata professione di pittore, se per i drammi di Schiller si può parlare di trasposizione del modo in cui parla il popolo, se Wagner stesso cerca di interpretare la promozione della musica da parte dei Tede­schi immaginando, fra l'altro, che li abbia indotti a intendere la musica

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con la stessa profonda serietà con la quale i loro riformatori hanno inteso il cristianesimo il fatto che sono privi di doti vocali naturali per la melo­dia: — se volessimo collegare lo sviluppo di Wagner con una inibizione interiore di questo genere potremmo supporre per lui un originario talento per lo spettacolo, che ha dovuto negarsi e appagarsi nel modo più ovvio e che ha trovato il suo sfogo e la sua salvezza avvicinando tutte le arti a una grande manifestazione drammatica.

Ma con altrettanta legittimità dovremmo poter dire allora che Wagner si è aperto violentemente l'accesso alle altre arti per infine manifestarsi con una chiarezza centuplicata e guadagnarsi la comprensione, la com­prensione popolare, per la disperazione di dover parlare a musicisti me­diocri o a non-musicisti. Ora, comunque si voglia immaginare lo sviluppo di questo originario drammaturgo, Wagner nella sua maturità e perfezio­ne è un prodotto esente da qualsiasi inibizione e lacuna: è l'artista vera­mente libero che non può che pensare contemporaneamente in tutte le ar­ti, è il mediatore e conciliatore tra sfere apparentemente separate, il re­stauratore di una unità e totalità del patrimonio dell'arte, che non può es­sere indovinato e scoperto ma unicamente mostrato attraverso l'azione.

Ma colui davanti al quale si compie all'improvviso questa azione viene travolto da essa come dal più sinistro e affascinante dei prodigi: si trova ad un tratto di fronte a una forza che abbatte le resistenze della ragione, anzi che gli fa apparire irrazionale e incomprensibile tutto ciò in cui fino a quel momento è vissuto: estranei a noi stessi noi galleggiamo in un miste­rioso elemento di fuoco, non ci capiamo più, non riconosciamo più le co­se a noi più note; non possediamo più la misura delle cose, tutto ciò che è legittimo e immobile comincia a muoversi, ogni cosa risplende di colori nuovi, ci parla con segni nuovi: — bisogna essere Platone per riuscire a orientarsi, come fa lui, in questo miscuglio di poderosa voluttà e timore, e per dire al drammaturgo: «noi vogliamo venerare, come qualcosa di sacro e prodigioso, un uomo che quando viene nella nostra comunità sia capa­ce, in virtù, della sua sapienza, di diventare tutto ciò che è possibile diven­tare e di imitare tutte le cose, vogliamo versare unguenti sul suo capo, cin­gergli in capo di lana, ma cercare di indurlo ad entrare in un'altra comu­nità.»

Può darsi che Uno che viva nella comunità platonica sappia e debba raggiungere qualche cosa che trascende la sua stessa natura: noi altri, tutti noi che non viviamo in essa ma in comunità completamente diverse, desi­deriamo che il mago venga a noi, anche se lo temiamo, — proprio perché la nostra comunità, e la malvagia ragione e potenza che essa incarna, ap­paia un giorno negata.

Uno stato dell'umanità, della sua collettività, dei suoi costumi, del suo ordine esistenziale, della sua strutturazione, che possa fare a meno del­l'artista imitatore forse non è del tutto impossibile, ma proprio questo forse è una delle cose che comportano più rischi; parlarne dovrebbe essere consentito solo a chi è capace prima di generare e sentire il momento più alto di tutto ciò che si verifica e subito dopo, come Faust, di diventare cie­co: — noi stessi infatti non abbiamo diritto a questa cecità, mentre Plato­ne, per esempio, dopo quell'unico sguardo che il suo occhio aveva rivolto all'ellenico ideale, aveva il diritto di essere cieco verso tutto l'ellenico rea­le.

Noi siamo Diversi, abbiamo bisogno dell'arte perché abbiamo acquista­to la vista proprio al cospetto del reale: e abbiamo bisogno proprio del

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drammaturgo totale, che ci liberi, almeno per qualche ora, dalla terribile tensione che l'uomo che vede avverte oggi fra sé e i compiti impostigli.

Con lui noi raggiungiamo i gradi più alti del sentire e abbiamo l'illusio­ne di vivere di nuovo nella libera natura e nel regno della libertà; di là — come riflessi in una gigantesca fata morgana — vediamo, come qualcosa di sublime e di importante, noi stessi e i nostri simili intenti a lottare, vin­cere e perdere, godiamo del ritmo della passione e della rinuncia alla stes­sa, ad ogni potente passo dell'eroe udiamo la sorda eco della morte e in prossimità della stessa comprendiamo il sommo fascino della vita: — così, tramutati in personaggi tragici, ritorniamo a vivere in un'atmosfera stra­namente confortante, con una nuova sensazione di sicurezza, come se, avendo sfuggito enormi pericoli, deviazioni ed estasi, avessimo ritrovato la via del limitato e familiare, dove è possibile agire con maggiore riflessi­vità e convenienza; infatti tutto ciò che qui appare serietà e impegno in di­rezione di una meta, in confronto con la via che, anche se in sogno, ab­biamo percorso assomiglia a parti bizzarramente smembrate di quelle esperienze totali delle quali abbiamo timorosa coscienza; anzi correremo pericoli e saremo tentati di prendere la vita con eccessiva leggerezza pro­prio perché nell'arte l'abbiamo intesa con così grande serietà, per ricorda­re quanto Wagner ha detto delle vicende della sua vita.

Infatti se già a noi che ci limitiamo a sperimentare quest'arte della drammaturgia ditirambica ma non la creiamo, il sogno appare quasi vero, è facile immaginare quanto debba apprezzare questo contrasto chi opera! Sta in mezzo a tutti i frastuoni e fastidi della realtà quotidiana, ai guai della vita, della società e dello Stato — come che cosa?

Forse come se fosse l'unico desto, l'unico che non dorme, che è ancora­to alla verità e alla realtà, fra tanti dormienti confusi e tormentati, vaneg­gianti e sofferenti; ogni tanto si sente come afflitto da un'insonnia invin­cibile, come se dovesse trascorrere la sua vita, tanto chiara e consapevole, insieme a sonnambuli e ad esseri che agiscono come fantasmi: per cui a lui appare sinistro proprio quel tutto che agli altri appare familiare e si sente tentato di superare questa impressione con spavalda ironia. Ma come vie­ne stranamente interrotta, disturbata, questa sensazione quando alla chia­rezza della sua spavalderia si accompagna un'altra pulsione, lo struggente desiderio di chi sta in alto per ciò che sta in basso, l'amore per la Terra, il sogno della felicità dello stare insieme — quando ricorda tutte le cose cui rinuncia come creatore solitario, quasi che, come un dio sceso in Terra, dovesse seduta stante «sollevare fino al cielo con braccia di fuoco» tutto ciò che è debole, umano, perduto, per finalmente trovare non più adora­zione ma l'amore, e nell'amore esprimere se stesso totalmente!

Ma proprio questa interferenza è il vero prodigio nell'anima del dram­maturgo ditirambico: e se esiste un momento in cui la sua natura potrebbe accogliere anche il concetto, quel momento dovrebbe essere questo. Per­ché sono i momenti creativi della sua arte quelli nei quali lo straniamento e lo stupore nei confronti del mondo si accompagnano allo struggente de­siderio di avvicinarsi al mondo stesso come amante. E tutti gli sguardi che rivolge alla Terra e alla vita sono raggi di sole che «fanno scaturire l'ac­qua», condensano la nebbia, diffondono foschie temporalesche. Il suo sguardo è chiaroveggente e insieme amorosamente altruista: e tutto ciò che con questa duplice forza del suo sguardo egli chiarisce a se stesso in­duce rapidamente la natura a sprigionare tutte le sue forze, a rivelare i suoi segreti più reconditi: con pudore.

Non è solo un'immagine dire che con quello sguardo egli ha sorpreso la

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natura, dire che l'ha vista nella sua nudità, per cui essa vuole pudicamente rifugiarsi nei propri contrasti. Ciò che prima era invisibile, interiore, tro­va ricetto nella sfera del visibile e diventa manifestazione, apparizione; ciò che prima era visibile trova rifugio nel cupo mare della musica: così la na­tura, desiderosa di nascondersi, rivela l'essenza dei propri contrasti.

L'originario drammaturgo parla di ciò che adesso avviene in lui, di ciò che avviene nella natura, in una irruenta danza ritmica, impetuosa ma fluttuante, con gesti estatici: il ditirambo dei suoi movimenti è sia rabbri­vidente comprensione sia amorosa vicinanza, voluttuosa autoalienazione.

La parola segue inebriata il linguaggio di questo ritmo; accoppiata alla parola risuona la melodia; e la melodia a sua volta sprigiona scintille nel regno delle immagini e dei concetti. Un fenomeno onirico, simile-dissimile all'immagine della natura e del suo innamorato, si avvicina, si condensa in figura umana, si espande nel susseguirsi di un'eroico-spavalda volontà totale, di un voluttuoso declino di una non-volontà: — così nasce la trage­dia, così diventa alla vita la sua splendida sapienza, la sapienza del pensie­ro tragico, così infine si risveglia il mago più benefico che esista, il dram­maturgo ditirambico. —

8.

La vera vita di Wagner, cioè il graduale manifestarsi del drammaturgo ditirambico; finché egli non è stato solo questo, è stata una continua lotta con se stesso: per lui la lotta col mondo contrastante divenne così aspra e sinistra solo perché egli udiva la voce di questo «mondo», di questo allet­tante nemico, uscire da se stesso e perché albergava dentro di sé il possen­te demone del contrasto.

Quando emerse in lui il pensiero dominante della sua vita, il pensiero che il teatro avrebbe potuto esercitare un effetto senza pari, il massimo ef­fetto che l'arte possa esercitare, la sua natura fermento e si lacerò violen­temente. La decisione sul proprio agire e anelare non fu subito chiara e precisa; all'inizio questo pensiero si presentò in forma seduttiva, come espressione della sua insaziabile oscura volontà di potenza e brillantezza.

Un effetto senza pari — tramite cosa? su chi? — questo si chiedevano il suo cervello e il suo cuore. Voleva vincere e conquistare come nessun arti­sta aveva ancora vinto, e raggiungere, possibilmente d'un sol colpo, quel­la tirannica onnipotenza verso la quale si sentiva oscuramente spinto. Mi­surava con occhio geloso, spiante in profondità, tutto ciò che aveva suc­cesso, e soprattutto osservava il soggetto sul quale dover agire. Grazie al magico occhio del drammaturgo, che legge nelle anime come nello scritto a lui più familiare, studiava lo spettatore, e anche se spesso constatare ciò che constatava lo rendeva irrequieto, ricorreva subito ai mezzi per conqui­starlo.

Questi mezzi li aveva sulla punta delle dita, voleva, ma anche poteva, realizzare ciò che agiva potentemente su di lui; sapeva esattamente ad ogni livello quanto dei suoi modelli era in grado di realizzare, non ha mai dubitato di essere capace anche di realizzare ciò che gli piaceva. Qui forse ci troviamo di fronte a una natura ancora «più presuntuosa» di quella di Goethe, che di se stesso diceva: «ho sempre pensato di essere capace; se mi avessero posto in capo una corona avrei pensato: è giusto».

La capacità di Wagner, il suo «gusto» e il suo intento sono stati in ogni momento intimamente collegati, come una chiave nella sua serratura: so­no diventati grandi e liberi insieme, all'inizio non lo erano. Dalla sensa-

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zione, debole ma nobile eppure solitaria che aveva questo o quell'amatore d'arte letterariamente e artisticamente preparato non sapeva che farsene! Le tumultuose tempeste delle anime prodotte dalla grande folla nelle fasi ascendenti del canto drammatico, l'ebbrezza degli animi che all'improv­viso lo avvolgeva, onesta e disinteressata, erano l'eco del suo sperimentare e sentire, lo facevano sperare nella massima potenza ed efficacia!

Sicché vedeva il mezzo col quale poter esprimere il suo pensiero domi­nante nella grande opera lirica; ad essa mirava il suo desiderio, alla sua patria erano rivolti i suoi occhi. Un lungo periodo della sua vita, compresi i più arditi mutamenti dei suoi piani, dei suoi studi e soggiorni e delle sue conoscenze, si spiega unicamente con questa sua aspirazione e con le resi­stenze esterne che questo povero, irrequieto, appassionatamente genuino artista tedesco ha dovuto affrontare.

Un altro artista sapeva meglio di lui come si faccia a diventare sovrani in questo campo; e oggi che poco a poco è diventato noto, che si sa me­diante quale trama artificiosamente intessuta di influenze Meyerbeer ha saputo preparare e celebrare ognuna delle sue grandi vittorie e con quanta angoscia abbia ponderato il susseguirsi degli «effetti» nell'opera, si capirà anche il grado di confusa irritazione da cui Wagner fu colto quando gli furono aperti gli occhi su questi «espedienti» quasi necessari per strappare al pubblico il successo.

Dubito che nella storia sia esistito un altro artista che abbia esordito con un errore altrettanto madornale e abbia imposto un'arte ribelle come la sua con altrettanto candore e ingenuità. Però lo fece in modo grandioso e quindi sorprendentemente proficuo. Superata la disperazione per l'erro­re commesso, che riconobbe, si rese conto infatti di cosa fosse il successo moderno, il pubblico moderno e tutta la natura menzognera dell'arte mo­derna.

Mentre diventava il critico dell'«effetto» presentiva il fremito della pro­pria purificazione. Quasi che da quel momento lo spirito della musica gli parlasse con una magia del tutto nuova. Come se ritornasse alla luce dopo una lunga malattia, non fidandosi più di mano e occhio, cambiò strada; e così con grande meraviglia scoprì di essere ancora un musicista, di essere ancora un artista, anzi di esserlo diventato solo in quel momento. Ogni al­tra fase nel divenire di Wagner è contraddistinta dal fatto che le due forze fondamentali della sua natura si collegano sempre più strettamente: la re­ciproca timidezza scema e da quel momento il Sé superiore non è più al servizio del potente fratello terreno, ma lo serve perché lo ama. Alla fine dello sviluppo i tratti più teneri e più puri sono contenuti in quelli più po­tenti, ne fanno parte integrante, la pulsione impetuosa segue ancora il suo corso ma su strade diverse, là dove è di casa il Sé superiore: e questo scen­de di nuovo in Terra e riconosce la propria immagine in tutto ciò che è terreno.

Se in questa sorta di ultima meta e punto di partenza di quello sviluppo fosse possibile discorrere rimanendo comprensibili, si potrebbe anche ca­pire quale sia stato il metaforico mutamento che ha caratterizzato proba­bilmente una lunga fase intermedia di quello sviluppo; ma io dubito di quello e perciò non tento neppure questo. Delimitano storicamente questa fase intermedia da quella precedente e da quella successiva due definizio­ni: Wagner diventa il rivoluzionario della società, Wagner alla fine rico­nosce l'unico artista fino allora prodottosi nel popolo poetante. Lo guidò in entrambe le direzioni il pensiero dominante, che dopo quella grande di­sperazione e contrizione gli si presentò sotto una forma nuova e ultrapo-

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tente. Effetto, impareggiabile effetto del teatro! — ma su chi? Il ricordo del pubblico sul quale aveva voluto agire lo faceva rabbrividire.

Affrancatosi dall'esperienza precedente comprese in tutta la sua portata l'obbrobrioso stato in cui versavano l'arte e l'artista: erano come una so­cietà priva d'anima e dal cuore duro che si autodefinisce buona — e inve­ce è proprio quella cattiva che asserve arte e artisti per soddisfare bisogni falsi, inesistenti.

L'arte moderna è lusso: Wagner comprese sia questo che il resto, che essa spadroneggia col diritto di una società del lusso. Come tale, serven­dosi del suo potere con grande abilità, è riuscita a rendere sempre più ser­vili gli impotenti, sempre più abietto e sempre meno genuino il popolo fa­cendo di esso il moderno «lavoratore»; inoltre lo ha privato di ciò che di più grande e di più puro esso, quale vero e unico artista, creava per pro­fonda necessità e nel quale con tenero cuore trasfondeva la sua anima, del suo mito, del suo modo di cantare, della sua danza, del suo linguaggio, per distillarne un mezzo di lusso, le arti moderne, onde ovviare all'esauri­mento e ammazzare la noia della propria esistenza.

Attraverso i tempi Wagner si è sforzato di capire come sia nata questa società, come sia riuscita a succhiare forze nuove dalle sfere di potere ap­parentemente in contrasto, ha cercato di capire come e perché il cristiane­simo, decaduto nell'ipocrisia e nella mediocrità, si sia lasciato usare con­tro il popolo rafforzando quella società e i suoi possedimenti, e come mai la scienza e gli studiosi abbiano aderito a questo fronte con tanta duttilità, per poi sussultare, alla fine delle sue considerazioni, pieno di rabbia e di disgusto: è diventato rivoluzionario per la pietà che gli faceva il popolo.

Da quel momento lo ha amato e ha guardato ad esso con lo stesso fer­vido amore con cui amava la sua arte, perché solo in esso, ahimé, solo nel popolo scomparso, non più rintracciabile, frodato, vedeva adesso l'unico spettatore e ascoltatore degno di apprezzarlo e all'altezza della potenza di quell'opera d'arte che egli sognava di realizzare. Per cui la sua riflessione si concentrò sul quesito: Come nasce il popolo? E come rinasce?

Trovava sempre una solo risposta: — se esiste una moltitudine che pro­va la stessa sofferenza che provo io, Questa è il popolo — si disse. E se la stessa sofferenza comporta lo stesso desiderio occorre trovare lo stesso modo per esaudirlo e per godere, in questo appagamento, della medesima felicità. E quando cercò di capire cosa avrebbe lenito la sua sofferenza, cosa avrebbe soddisfatto nel modo più profondo il bisogno che avvertiva, si rese conto con confortante certezza che solo il mito e la musica poteva­no soddisfarlo, il mito che egli sapeva essere il prodotto e la lingua del bi­sogno del popolo, la musica, dall'origine analoga ma ancora più misterio­sa.

In questi due elementi egli immerge e guarisce la sua anima, di essi av­verte estrema necessità: — capisce infine quanto il suo bisogno sia simile a quello del popolo qual esso era quando è nato, e sa che se ci saranno mol­ti Wagner il popolo non potrà non rinascere.

Ora, come hanno vissuto nella nostra società moderna mito e musica, che sono stati vittime della stessa? Hanno avuto una sorte analoga, a te­stimonianza della loro misteriosa reciproca appartenenza: il mito è stato profondamente degradato e sfigurato, snaturato a «fiaba», a elemento lu­dico per bambini e donne del popolo angustiato, è stato avvilito, è stato totalmente spogliato della sua splendida serio-sacra natura virile; la musi­ca aveva trovato rifugio tra i poveri e i semplici, tra i solitari, il musicista tedesco non era riuscito a trovare un posto decente nell'azienda di lusso

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delle arti, era diventato egli stesso la mostruosa fiaba occultata piena dei suoni e segnali più toccanti, uno sprovveduto interrogante vittima di un incantesimo e necessitante di qualcosa che lo liberasse da esso.

Qui l'artista avvertì con tutta chiarezza l'ordine, a lui solo impartito, di introdurlo nuovamente il mito nel mondo dell'uomo, e di liberare la musi­ca dall'incantesimo che la rendeva muta, di farla parlare: d'un tratto sentì la sua forza di drammaturgo liberata dalle catene, il suo dominio pog­giante su un regno intermedio fra mito e musica ancora da scoprire. Pre­sentò agli uomini la sua nuova opera d'arte nella quale mise tutto ciò che di più poderoso, efficace, beatificante era capace, e insieme formulò un grosso interrogativo dolorosamente incisivo: «Dove siete voi che soffrite e patite come? Dov'è la moltitudine, il popolo di cui sento il bisogno? Vi voglio rivelare che avrete, in comune con me, la mia stessa felicità, la mia stessa consolazione: la vostra gioia mi rivelerà la vostra sofferenza!» Col Tannhàuser e col Lohengrin si guardò intorno così alla ricerca dei suoi si­mili; il solitario aveva sete della moltitudine.

Ma cosa accadde? Nessuno gli rispose, Nessuno aveva capito la doman­da. Non che avessero taciuto, al contrario gli fu risposto a mille domande che non aveva posto, si levò tutto un cinguettare di chiacchiere sulle nuo­ve opere d'arte, quasi fossero state create apposta per essere massacrate a parole. Scoppiò fra i Tedeschi, come una febbre, tutta la compiaciuta vel­leità dei cialtroni che scrivono e parlano di estetica, le opere d'arte e la persona dell'artista vennero misurate e manipolate con quella mancanza di pudore che è propria dei doti tedeschi non meno che di quelli che scri­vono sui giornali.

Wagner cercò di chiarire il significato del quesito da lui posto per mez­zo di scritti: nuova confusione, nuove chiacchiere — un musicista che scrive e pensa era per quei tempi inimmaginabile; perciò si gridò: è un teo­rico che vuol trasformare l'arte secondo concetti astrusi, lapidatelo! — Wagner rimase frastornato; la sua domanda non era stata capita, il suo bisogno e la sua sofferenza non erano sentiti, la sua opera d'arte era una sorta di discorso rivolto a sordi e ciechi, il suo popolo era l'invenzione di una mente vaneggiante. Wagner vacillò, ebbe un tentennamento. Davanti ai suoi occhi emerge la possibilità di un totale rovesciamento di tutte le cose, questa possibilità non gli fa più paura: forse al di là del sovverti­mento e della devastazione può nascere una nuova speranza, o forse no — e comunque il nulla è preferibile a una cosa rivoltante. In breve, era un esule in patria e soffriva.

Ed ecco che proprio con questa tremenda svolta nel suo destino, ester­no ed interno, ha inizio nella vita del Nostro il capitolo che la luce della più alta maestria illumina con lo splendore dell'oro liquido! Solo adesso il genio del drammaturgo ditirambico si spoglia dell'ultimo involucro! È isolato, solitario; il tempo per lui non conta più, non spera più: il suo oc­chio si dirige ancora una volta all'interno e raggiunge il fondo: qui vede il dolore nella natura delle cose e da questo momento, diventato come im­personale, si accolla in silenzio la sua parte di dolore. Il desiderio della massima potenza, il patrimonio ereditato da stati precedenti si trasfondo­no totalmente nella creazione artistica; attraverso la sua arte egli parla an­cora solo a se stesso, non più a un pubblico o popolo, e lotta per renderla più chiara possibile e in grado di sostenere un dialogo così poderoso.

Nell'opera d'arte del periodo precedente le cose stavano in un altro mo­do ancora: anche in essa aveva mirato, benché con tocco più leggero, al­l'effetto immediato: quell'opera d'arte era una richiesta, voleva provocare

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una risposta; quante volte non si era sforzato di farsi capire da quelli cui rivolgeva le sue domande — per cui li aveva aiutati a superare l'imbarazzo dovuto al fatto che non erano abituati ad essere interrogati usando forze e mezzi di espressione di un'arte precedente; quando temeva di non riuscire a convincere e a farsi capire col suo linguaggio estremamente personale aveva cercato di chiarire la sua domanda usando un linguaggio a lui se­miestraneo, ma più noto ai suoi ascoltatori.

Adesso più nulla avrebbe potuto indurlo a comportarsi allo stesso mo­do, adesso voleva una cosa sola: capire se stesso, riflettere sulla natura del mondo, filosofare facendo musica; quanto resta in lui delle sue intenzioni è frutto delle ultime constatazioni. Chi è degno di sapere cosa avvenne in lui allora, su che cosa soleva dialogare con se stesso nella più sacra oscuri­tà della sua anima — non sono molti — : oda, guardi e viva il Tristano e Isotta, il vero opus metaphysicum di tutta l'arte, un'opera sulla quale è posato il debole sguardo di un morente col suo dolcissimo insaziabile struggente desiderio dei segreti della notte e della morte, lontano dalla vi­ta, che nella cruda spettrale luce del mattino appare come il nulla, l'ingan­nevole, il separante: un dramma dalla forma aspramente severa, che tra­volge nella sua nuda semplice grandezza e proprio per questo tanto conge­niale al segreto del quale parla, il segreto della morte nel corpo vivente, della solitudine nella dualità.

Tuttavia esiste qualcosa di ancora più grande di quest'opera: l'artista stesso, che dopo di essa in un breve lasso di tempo ha saputo creare una immagine universale ricca dei colori più disparati, i Maestri Cantori di Norimberga, anzi che in queste due opere si è soltanto in qualche modo riposato e rigenerato per portare a compimento con misurata sollecitudine la sua tetralogia, la gigantesca costruzione progettata e iniziata prima di esse, il suo sentire e poetare attraverso 20 anni, la sua opera d'arte bay-reuthiana, l'Anello del Nibelungo!

Chi si sorprende per la vicinanza del Tristano e dei Maestri Cantori non ha capito la vita e la natura dei Tedeschi veramente grandi su un punto importante: non sa che solo su questo terreno può crescere quella serenità tipicamente e unicamente tedesca — di Lutero, Beethoven e Wagner — che gli altri popoli non capiscono affatto e che oggi sembra divenuta estranea agli stessi Tedeschi — quell'aurea ben riuscita mescolanza di semplicità» profondità d'amore, contemplazione e furbizia che Wagner mesce come bibita preziosissima a tutti coloro che hanno molto sofferto e che si rivolgono a lui col sorriso dei risanati. E mentre egli guardava al mondo così riconciliato e veniva colto più di rado dalla rabbia e dal disgu­sto, rinunciando al potere con tristezza e amore più che non arretrando da esso inorridito, mentre portava avanti in silenzio, partitura dopo partitu­ra, la sua grande opera, avvenne una cosa che gli fece tendere l'orecchio: vennero gli amici ad annunciargli un movimento sotterraneo di molti ani­mi — non era ancora il «popolo» quello che si muoveva e si annunciava, ma forse il germe e la prima sorgente di vita di una società che in un lon­tano futuro sarebbe stata più perfetta, veramente umana; all'inizio solo la garanzia che la sua grande opera sarebbe finita nelle mani di persone fida­te, capaci di vegliare per i posteri su quella stupenda eredità e degni di cu­stodirla; nell'amore degli amici i colori del giorno della sua vita diventaro­no più luminosi e più caldi, la sua quanto mai nobile preoccupazione di riuscire a portare a compimento la sua opera per così dire prima di sera e di trovarle una collocazione adeguata fu condivisa dagli amici. E avvenne

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qualcosa che Wagner non potè interpretare che simbolicamente, che come un segnale positivo.

Gli fece alzare lo sguardo una grande guerra dei Tedeschi, di quegli stessi Tedeschi che egli sapeva così profondamente snaturati, così privi di quell'alto senso della germanità che egli con profonda consapevolezza aveva cercato e riconosciuto in Sé stesso e in altri grandi Tedeschi della storia — constatò che questi Tedeschi in una situazione mostruosa rivela­vano virtù autentiche: prodezza e capacità di discernere, e con intima feli­cità incominciò a pensare che egli forse non era l'ultimo Tedesco e che fi­nalmente la forza, piena di abnegazione ma modesta, dei pochi amici sa­rebbe stata affiancata per tutto il tempo in cui un'opera deve sopravvivere per diventare opera d'arte del futuro da una forza più potente.

Forse pensò che nel tempo, via via che egli cercava di raggiungere spe­ranze immediate, questa fede non sarebbe riuscita a difendersi dal dub­bio: basta, avvertì una poderosa spinta che gli ricordò un alto dovere an­cora incompiuto.

Non avrebbe portato a compimento la sua opera se l'avesse affidata ai posteri solo sotto forma di partitura senza parole, doveva mostrare al pubblico la cosa più inimmaginabile, più riservata a lui stesso, il nuovo stile del suo discorso per la sua rappresentazione, doveva insegnargli me­diante l'esempio che nessun altro era in grado di dare e quindi fondare una tradizione stilistica rappresentata non da segni scritti sulla carta ma da effetti sulle anime umane. Questo diventò per lui l'impegno più serio, al punto che nel frattempo le altre sue opere, proprio in rapporto allo stile del discorso, ebbero il destino più assurdo e più insopportabile: erano fa­mose, ammirate e venivano maltrattate, e Nessuno sembrava ribellarsi.

Infatti, per strano che possa sembrare: il «successo» e il «potere» arri­varono proprio mentre egli rinunciava ogni giorno di più al successo pres­so i suoi contemporanei e al pensiero della potenza. Per lo meno tutti gli parlavano del suo trionfo. Benché continuasse a definire con estrema de­cisione quei «successi» frutto di un malinteso e anzi vergognosi, si era così poco abituati a vedere un artista fare una netta distinzione fra i vari tipi di effetto che non prestarono orecchio nemmeno alle sue più solenni prote­ste. Da quando si era reso conto del rapporto fra la natura e il successo del teatro moderno e il carattere dell'uomo moderno, la sua anima aveva rotto definitivamente i ponti con quel teatro; il fanatismo estetico e l'esal­tazione della folla eccitata non gli interessavano più; anzi vedere la sua ar­te cadere così indiscriminatamente nelle fauci spalancate di una noia insa­ziabile e dell'avidità di distruzione lo irritava. Comprese quanto piatto e vuoto fosse in quel teatro ogni effetto, come in quel teatro si trattava in realtà più di saziare un insaziabile che di nutrire un affamato, da un fatto: da tutti, anche dagli stessi esecutori la sua arte veniva concepita come qualsiasi altra musica di scena, conformemente all'obbriorioso manuale dello stile operistico, anzi, grazie ai preparati e validi direttori d'orche­stra, sia le sue opere venivano sezionate e spaccate secondo i dettami della lirica, sia il cantante credeva di ottemperare ad essi solo dopo un'accurata despiritualizzazione; e quando si voleva fare proprio bene si interpretava­no le indicazioni di Wagner in modo goffo e impacciato, come volendo rappresentare l'assembramento notturno per le strade di Norimberga del secondo atto dei Maestri Cantori facendo compiere ai ballerini figure arti­ficiose; tuttavia sembrava che agissero in buona fede, senza cattive inten­zioni.

I disperati tentativi di Wagner di rimandare, mediante l'azione e l'esem-

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pio, alla semplice correttezza e completezza della rappresentazione e di far capire ai cantanti il nuovo modo di porgere, il nuovo stile, venivano co­stantemente frustrati dall'assenza di idee e dall'abitudine; per giunta l'a­vevano sempre costretto ad occuparsi proprio di quel teatro la cui natura l'aveva disgustato. Del resto anche Goethe aveva perso la voglia di assiste­re alle rappresentazioni della sua Ifigenia, «soffro terribilmente, aveva spiegato, quando sono costretto ad aver a che fare con questi fantasmi che non appaiono come dovrebbero.» Ma il «successo» di questo teatro che gli era diventato odioso aumentava di giorno in giorno, al punto che proprio i grandi teatri finirono per vivere quasi esclusivamente degli in­troiti assicurati dall'arte di Wagner come arte operistica. La confusione circa questa crescente passione del pubblico che affollava i teatri colpì an­che alcuni amici di Wagner, che dovette soffrirne aspramente — che do­vette esercitare molta pazienza! — nel vedere i propri amici inebriati da «successi» e «vittorie», là dove veniva totalmente massacrato e tradito il suo pensiero unico e grande. Sembrava che un popolo per molti versi se­rio e grave proprio nel rapporto col suo artista più serio non volesse ab­bandonare una frivolezza di fondo e così palesare tutto ciò che di goffo, volgare, sciocco e malvagio esiste nella natura tedesca. Poi, quando du­rante la guerra sembrò pervadere gli animi un sentimento più nobile, più libero, Wagner, onde salvare almeno la sua opera più grande da quei ma­lintesi successi e imprimerle il suo ritmo personale, quale esempio per tutti i tempi, si ricordò del suo dovere di fedeltà: ed ebbe il pensiero di Bay-reuth.

Al seguito di quella corrente credette veder risvegliarsi un maggior sen­so del dovere anche in coloro ai quali voleva affidare il suo tesoro più pre­zioso: — da questa duplicità di doveri è nato l'evento che illumina l'ulti­ma e più prossima serie d'anni come un raggio di sole di specie diversa: pensato per il bene di un futuro lontano, possibile ma non dimostrabile, per il presente e gli uomini del presente una sorta di enigma e di orrore, per i pochi che hanno avuto modo di promuoverlo una pregustazione, un'anticipazione che li ha resi felici e fecondi, per Wagner stesso un oscu­ramento, di tribolazioni, preoccupazioni, riflessioni, afflizioni, un nuovo imperversare di ostilità, il Tutto però illuminato dalla stella della fedeltà disinteressata e trasformato, in questa luce, in una felicità ineffabile!

Non occorre dirlo: su questa vita spira l'alito della tragicità. E chi lo presente, qualunque persona per la quale la costrizione di un tragico in­ganno sulle mete della vita, il mutare e l'infrangersi dei progetti, la rinun­cia e la purificazione attraverso l'amore non sono cose affatto estranee, non può non vedere nell'opera d'arte che ora Wagner ci mostra il ricordo della eroica esistenza di questo Grande. Avremo l'impressione, da molto lontano, che Sigfrido racconti le sue gesta: nella struggente felicità del ri­cordo è intessuta la profonda tristezza della tarda estate, e l'intera natura riposa quieta nella gialla luce della sera.

9.

Riflettere su Ciò che è Wagner, l'artista, e passare poi alla contempla­zione dello spettacolo di un'arte veramente libera: questo dovrà fare, per ricrearsi, chi ha pensato, e ne ha sofferto, al modo in cui Wagner, l'uo­mo, si è formato. Se l'arte non è che la capacità di comunicare ad altri ciò che si è sperimentato, ogni opera d'arte che non riesce a farsi capire con­traddice se stessa: la grandezza di Wagner come artista consiste proprio

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nella demoniaca capacità di comunicare della sua natura, che parla di sé in tutte le lingue e che palesa con somma chiarezza l'intima esperienza personale; la sua comparsa nella storia delle arti dopo che l'umanità si era abituata ad accettare come una regola la parcellizzazione delle arti equiva­le a una vulcanica eruzione della capacità artistica nella sua totalità, della natura stessa. Questo è il motivo per il quale si è discusso a lungo sul no­me da dargli, non si sapeva se bisognasse definirlo poeta, plastico o musi­cista, intendendo ogni termine nella sua più ampia accezione, o se per lui occorresse forgiare una parola nuova. Il poetico si rivela nel fatto che egli non pensa per concetti, ma pensa per eventi visibili e avvertibili, cioè miti­camente, come ha sempre pensato il popolo. Alla base del mito non c'è un pensiero, come presumono i figli di una cultura artificiale. Wagner co­munica un'idea del mondo, ma come il succedersi o avvicendarsi di azio­ni, eventi e sofferenze. L'Anello del Nibelungo è una immensa costruzio­ne ideativa priva della forma concettuale del pensiero. Forse un filosofo saprebbe accostarle un qualcosa di corrispondente, privo di immagine e di azione e che parla solo per concetti: avremmo allora lo stesso prodotto in due sfere diverse: una per il popolo e una per l'opposto del popolo, per l'uomo teorico. Wagner dunque non si rivolge a questo ultimo perché l'uomo teorico si intende di ciò che è prettamente poetico esattamente quanto un sordo si intende di musica: vedono entrambi un movimento che per loro è privo di senso. Da ognuna di queste due sfere, così diverse, è impossibile capire l'altra: finché si è nel territorio del poeta si pensa co­me lui, come se si fosse esseri capaci unicamente di sentire, vedere e udire; perciò le conclusioni che se ne traggono sono le implicazioni degli eventi che si vedono, cioè sono causalità effettive, non logiche.

Ora, quando gli eroi e gli dèi di tali drammi mitici che Wagner crea debbono farsi capire anche pronunciando parole, c'è il rischio che il loro linguaggio risvegli in noi l'uomo teorico e ci trasferisca in un'altra sfera, nella sfera non-mitica: di conseguenza le parole non solo non ci farebbero capire meglio ciò che avviene, ma non ci farebbero capire niente. Ecco perché Wagner ha riportato la lingua al suo stato primordiale, nel quale essa non pensa ancora per concetti, nel quale essa è ancora solo poesia, immagine e sentimento; l'arditezza con la quale Wagner ha compiuto que­sta operazione evidenzia l'intensità della forza che ha guidato il suo spiri­to poetico, l'intensità con la quale essa lo ha portato dove voleva. In que­sti drammi doveva essere possibile cantare ogni parola, e dèi ed eroi dove­vano cantare ogni parola: questa è stata la straordinaria sfida che Wagner ha posto alla propria fantasia. Qualunque altro artista si sarebbe perso di coraggio; la nostra lingua è troppo antica e troppo devastata perché le si potesse chiedere ciò che Wagner ha preteso da essa: eppure il suo tocco ha fatto scaturire dalla roccia una sorgente ricca e generosa. Wagner, che amava questa lingua più di ogni altro Tedesco, ha anche sofferto più di ogni altro per la sua denaturazione e indebolimento, cioè per le molteplici perdite e mutilazioni inferte alle forme, per la pesantezza della nostra co­struzione, per i verbi ausiliari che non sono cantabili: — tutte cose entrate nella lingua proditoriamente. Però avvertiva con profondo orgoglio la an­cora esistente originarietà e inesauribilità di questa lingua, la forza musi­cale delle sue radici nelle quali, al contrario di quanto avviene per le lin­gue fortemente derivate, artificiosamente retoriche dei ceppi romanici, presentiva la meravigliosa propensione per la musica, quella vera. La poe­sia di Wagner è pervasa da un amore per il tedesco, da un piacere di usar­lo, da una libertà nel trattarlo che, oltre che in lui, troviamo solo in Goe­the. Corporeità dell'espressione, ardita concisione, forza e varietà ritmi-

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che, una grande ricchezza di parole forti e significative, semplice articola­zione della frase, un'inventiva quasi unica nel linguaggio del fluttuante sentire e presentire, una originalità qua e là autentica e pura — ma a que­ste qualità se ne potrebbero aggiungere altre ancora più mirabili e prodi­giose. Chi legge una dopo l'altra due opere poetiche come il Tristano e i Maestri Cantori proverà per la lingua uno stupore e un dubbio pari a quelli che proverà per la musica: si chiederà come sia stato possibile domi­nare due mondi così diversi sia per la forma, il colore e la struttura sia per l'anima. Questo è l'aspetto più formidabile del talento di Wagner che nel­la sua grandezza ha saputo coniare per ogni opera un nuovo linguaggio e dare un nuovo corpo e un nuovo suono al nuovo mondo interiore. Dove si palesa una capacità rara siffatta il biasimo per qualche arditezza e stra­nezza o per la poca chiarezza di qualche espressione e pensiero rimarrà sempre sterile e meschino. Ma a coloro che finora l'hanno maggiormente biasimato più che il suo linguaggio non piaceva la sua anima, non piaceva tutto il suo modo di soffrire e sentire, che hanno definito scandaloso e inaudito. Quando avranno finalmente un'anima diversa parleranno an­ch'essi una lingua diversa, e quel giorno, penso, sarà migliore di com'è oggi anche la lingua tedesca.

Ma chi riflette su Wagner come poeta e linguista non dovrebbe soprat­tutto dimenticare che nessuno dei drammi wagneriani è destinato alla let­tura, per cui hanno esigenze diverse da quelle del dramma scritto. Questo vuol agire sul sentimento unicamente mediante concetti e parole e quindi appartiene alla sfera della retorica. Mentre nella vita la passione raramen­te parla, nel dramma scritto per manifestarsi in qualche modo essa deve parlare. Ma quando la lingua di un popolo è già decadente e logorata il drammaturgo è tentato di trasformare e colorare in modo insolito lingua e pensiero; vuol elevare il linguaggio perché esso esprima nuovamente senti­menti elevati e così corre il rischio di non essere capito. Allo stesso modo mediante espressioni e idee elevate cerca di trasmettere alla passione qual­cosa di elevato e così corre un altro pericolo: quello di apparire falso e ar­tificioso. Infatti la passione reale della vita non parla per sentenze, e quel­la poetica, se è troppo diversa da quella reale, fa diffidare della sua auten­ticità. Invece Wagner, il primo che abbia individuato le pecche del dram­ma scritto, rende ogni evento drammatico contemporaneamente mediante parola, gesto e musica: la musica trasmette i moti interiori fondamentali dei personaggi del dramma direttamente all'anima dello spettatore, che adesso ti vede rappresentati nei gesti degli stessi e che trova nelle parole un'estrinsecazione, più pallida, divenuta volontà più cosciente, di quei moti. Tutti questi effetti agiscono contemporaneamente e senza disturbar­si reciprocamente portando lo spettatore a una comprensione e a un coin­volgimento del tutto nuovi, come se d'un tratto i suoi sensi venissero spi­ritualizzati e il suo spirito fisicizzato, e come se tutto ciò che vuol uscire dall'uomo e ha sete di conoscenza provi adesso, libero e felice, la gioia della conoscenza. Poiché ogni evento di un dramma wagneriano risulta comprensibile allo spettatore in quanto attraverso la musica risplende e arde partendo dall'interno, il suo autore può fare a meno di tutti quei mezzi di cui il poeta della parola scritta ha bisogno per dar colore e luce agli eventi che narra. L'intera economia del dramma può essere più sem­plice. Nella grande linea d'insieme della costruzione può palesarsi ancora una volta il senso ritmico dell'architetto; non è più necessaria quella fra­stornante complessità e multiformità dello stile architettonico mediante la quale il poeta della parola scritta si sforza di suscitare stupore e interesse

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per la propria opera. L'impressione della idealizzante altezza e lontananza può essere evocata anche senza il ricorso ad artifici. Nella compattezza e forza di un discorso dei sentimenti il linguaggio ha rinunciato all'ampiez­za retorica; e benché l'attore parli molto meno che in passato di ciò che fa e sente, adesso i moti interiori che il drammaturgo della parola scritta evi­ta di rappresentare temendone a torto la non drammaticità, inducono lo spettatore a una partecipazione appassionata, mentre al concomitante lin­guaggio dei gesti basta esprimersi con modulazioni delicatissime. La pas­sione cantata dura più a lungo di quella recitata; la musica, per così dire, espande, dilata le sensazioni: ne consegue che l'attore che è al contempo cantante deve superare la eccessiva eccitazione, non-plastica, del movi­mento, di cui soffre il dramma recitato. Si sente indotto a nobilitare i ge­sti, tanto più che la musica ha immerso il suo sentimento nel bagno di un etere puro avvicinandolo maggiormente alla bellezza.

Gli straordinari compiti che Wagner ha affidato a spettatori e cantanti accenderanno una gara fra gli stessi che durerà per intere generazioni, per portare alla fine a una rappresentazione fisicamente più visibile dell'im­magine di ogni eroe wagneriano: a quella perfetta fisicità che nella musica del dramma è già preformata. Seguendo questa guida l'occhio dell'artista plastico vedrà infine i prodigi di un nuovo mondo dell'immagine che pri­ma di lui ha visto per la prima volta solo il creatore di opere quali l'Anel­lo del Nibelungo: un plastico di altissimo livello che, come Eschilo, indica la via a un'arte futura. Tuttavia non è necessario destare grossi talenti ri­correndo alla rivalità se l'arte del plastico confronta il loro effetto con quello di una musica qual è quella wagneriana: nella quale alberga la più pura e più solare felicità; sicché chi la ode ha l'impressione che tutta la musica precedente parlasse una lingua superficiale, impacciata, non libe­ra, rivolta come per gioco a spettatori non degni di cose serie e che a quel­li non degni nemmeno del gioco volesse insegnare e dimostrare qualcosa. Attraverso quella musica entra in noi solo per brevi ore quella felicità che nella musica wagneriana avvertiamo in continuazione: sembrano rari mo­menti di oblio che la sopraffanno, nei quali essa parla solo con se stessa e dirige lo sguardo in alto, come la Santa Cecilia di Raffaello, lontano dagli ascoltatori che le chiedono distrazione, divertimento o erudizione.

Del Wagner musicista bisogna dire che ha dato la parola a tutto ciò che esiste in natura e che prima di lui non aveva voluto parlare: egli non crede che esista qualcosa che non parla. Anche nell'aurora, nel bosco, nella nebbia, negli abissi e fra le cime dei monti, nel brivido della notte, nella luce della luna legge una segreta aspirazione: anch'essi vogliono diventare musica. Se il filosofo dice, è Una Volontà che ha sete di esistenza, che vuol esistere nella natura, viva e non viva, il musicista aggiunge: e questa volontà vuole, a tutti i costi, una esistenza musicale.

Prima di Wagner la musica aveva confini molto stretti; descriveva stati fissi, quelli che i Greci chiamano ethos, e solo con Beethoven ha incomin­ciato a parlare la lingua del pathos, della volontà appassionata, degli eventi drammatici nel cuore dell'uomo. Precedentemente la musica dove­va esprimere un'atmosfera, uno stato, di calma, o di serenità o di devo­zione o di disposizione al pentimento, si voleva che l'ascoltatore fosse in­dotto a interpretare questa musica e, attraverso una strana omogeneità della forma e il prolungarsi di questa omogeneità, infine si immergesse nella stessa atmosfera. Tutte queste immagini di atmosfere e stati necessi­tavano di determinate forme, altre entrarono nell'uso per convenzione.

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Ne stabiliva la durata il musicista che voleva trasferire l'ascoltatore in una data atmosfera ma senza annoiarlo. Fu fatto un passo avanti quando si progettarono immagini di atmosfere contrastanti susseguentisi e si scoprì il fascino della contrapposizione; e un altro passo fu fatto quando nello stesso brano musicale fu introdotto un elemento contrastante dell'ethos, per esempio un tema maschile contrapposto a uno femminile. Tutte que­ste sono fasi ancora iniziali e primitive della musica. Il timore di risveglia­re passioni induce a stabilire leggi, quello di annoiare leggi diverse dalle prime; gli approfondimenti e gli eccessi del sentimento erano tutti ritenuti «non etici». Ma dopo aver rappresentato centinaia di volte i medesimi sta­ti e atmosfere, l'arte dell'ethos, nonostante la meravigliosa inventiva dei suoi maestri, alla fine si esaurì. È Beethoven l'artista che ha fatto parlare per primo alla musica una nuova lingua, quella della passione, fino allora interdetta: ma poiché la sua arte doveva violare le leggi e le convenzioni dell'arte dell'ethos e giustificarsi con essa, il suo divenire artistico è stato difficile e risulta poco chiaro. Un evento interiore drammatico — ogni passione ha un decorso drammatico — voleva arrivare a una forma nuo­va, ma lo schema tradizionale della musica di atmosfera faceva resistenza opponendosi all'avvento dell'immoralità quasi col linguaggio della mora­lità. Si ha l'impressione qua e là che Beethoven si sia imposto il difficilis­simo compito di far parlare il pathos coi mezzi dell'ethos. Però per le ope­re più grandi, nate più tardi, questa idea non è più sufficiente. Per l'arco teso di una passione vibrante trovò un nuovo mezzo: estrapolò dalla sua traiettoria determinati momenti e li sottolineò con grande decisione, affin­ché l'ascoltatore potesse indovinare quel che c'era fra le righe. Dall'ester­no la nuova forma poteva sembrare l'insieme di più brani riflettenti cia­scuno uno stato fisso, mentre essa in realtà rappresentava un momento del corso drammatico della passione. L'ascoltatore poteva avere l'impres­sione di udire la vecchia musica di atmosfera, però il rapporto intercor­rente fra le singole parti non gli era più chiaro e non era più interpretabile secondo il canone del contrasto. Anche presso i musicisti si instaurò una scarsa valutazione dell'esigenza di dar vita a una costruzione artistica glo­bale; nelle loro opere il susseguirsi delle parti divenne arbitrario. L'inven­zione della grande forma della passione portò per un malinteso alla frase isolata a contenuto arbitrario, e la tensione fra le parti venne a cessare del tutto. Per questo dopo Beethoven la sinfonia è un prodotto così strana­mente oscuro, in particolare nei punti in cui balbetta ancora il linguaggio del pathos beethoveniano. I mezzi non sono adeguati all'intenzione e l'in­tenzione nel suo insieme non risulta chiara all'ascoltatore perché non era chiara nemmeno nella testa dell'autore. Ma più un genere è elevato, diffi­cile ed esigente più il bisogno di dover dire qualcosa di molto preciso, e di dirlo nel modo più chiaro possibile, diventa ineludibile.

Per questo tutta la lotta combattuta da Wagner è consistita nello sforzo di trovare i mezzi necessari per raggiungere la chiarezza; aveva bisogno soprattutto di liberarsi da tutte le pastoie e imposizioni della vecchia musi­ca, di far parlare la sua musica, il processo musicale del sentimento e della passione, senza ambiguità. Se consideriamo ciò che ha raggiunto ci sem­bra di poter dire che nel campo della musica egli ha fatto esattamente ciò che l'inventore del gruppo libero ha fatto nel campo della plastica. In con­fronto alla musica di Wagner tutta la musica precedente appare rìgida o ti­morosa, come se non fosse lecito guardarla da tutti i lati e si vergognasse di se stessa. Wagner coglie ogni grado e colore del sentimento con la massima determinatezza; si appropria di ogni più delicato, recondito e selvaggio mo-

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to interiore senza temere di perderlo, e non lo abbandona più, come se fosse una cosa solida e ferma, benché ognuno veda in esso una farfalla inafferrabile. La sua musica non è mai vaga, indeterminata; tutto ciò che parla attraverso essa, essere umano o natura, ha una passione ben indivi­dualizzata; tempesta e fuoco assumono in lui la forza coartante di una vo­lontà personale. Sopra tutti gli individui musicali e la lotta delle loro pas­sioni, sopra tutto il vorticare di contrasti aleggia, con sommo discerni­mento, una intelligenza sinfonica molto forte che con i mezzi della guerra produce incessantemente concordia: nel suo insieme la musica di Wagner è un ritratto del mondo come lo intendeva il grande filosofo efesino, co­me armonia, un'armonia che la lotta sprigiona dal suo seno, come l'unità di giustizia e inimicizia. Provo una grande ammirazione per la capacità di calcolare la grande linea d'insieme di una passione totale partendo da una pluralità di passioni che vanno in direzioni diverse: mi dimostra che un'impresa siffatta è possibile quell'unico atto di un dramma wagneriano che narra una accanto all'altra le singole storie di diversi individui e una storia comune a tutti. Avvertiamo sin dall'inizio di trovarci di fronte, ol­tre che a singole correnti contrastanti, anche a un grande fiume ancora più potente che ha una sola direzione: questo fiume si muove irrequieto, attraverso nascoste creste di rocce, qua e là la corrente sembra smembrar­si, dividersi, voler prendere direzioni diverse. Via via ci accorgiamo che tutti i moti interiori sono diventati più veementi, più trascinanti; la guiz­zante irrequietezza si è tramutata nella quiete dell'ampio movimento che porta verso una meta ancora sconosciuta; e alla fine il fiume all'improv­viso precipita tutto nel baratro con un piacere demoniaco. Mai Wagner è più se stesso di quando le difficoltà si decuplicano ed egli riesce a domina­re situazioni titaniche col piacere di chi detta legge. Dominare enormi masse contrastanti trasformandole in ritmi semplici, realizzare una sola volontà superando esigenze e aspirazioni molteplici e complesse — questi sono i compiti ai quali si sente chiamato, nei quali avverte la propria li­bertà. Il fiato non gli vien mai meno, mai arriva al traguardo ansimando. Ha voluto imporsi le leggi più difficili con la stessa costante caparbietà con la quale altri cercano di alleggerire il proprio fardello; quando non riesce ad affrontare i problemi più ardui la vita e l'arte gli stanno stretti. Basta considerare il rapporto fra la melodia cantata e quella del discorso non cantato, il fatto che egli tratta l'altezza, la forza e i tempi dell'uomo che parla in preda alla passione come un modello della natura da tramuta­re in arte, e il posto che tale passione cantante occupa nell'intero contesto sinfonico, per capire di fronte a quale incredibile superamento di quali difficoltà ci troviamo; la sua inventiva, nel piccolo come nel grande, la onnipresenza del suo spirito e del suo impegno sono tali che a chi osserva una partitura wagneriana vien fatto di pensare che prima di Wagner non sia mai esistito il vero lavoro e il vero sforzo. Sembra che anche in rap­porto alla fatica, al tormento dell'arte abbia saputo dire che la vera valen­tia del drammaturgo consista nell'autoesternazione, ma probabilmente non è così: esiste un solo tormento, quello di chi non è ancora libero; la bravura e il bene non sono faticosi.

Come artista in toto Wagner ha in sé qualcosa di Demostene, per men­zionare un personaggio noto: la feconda serietà per la cosa e la forza della presa, per cui ogni volta che la sua mano, che sembra di metallo, afferra la cosa, la preda, la blocca subito, la tiene ben ferma. Come Demostene, nasconde la sua arte o la fa dimenticare costrìngendo a pensare alla cosa; e tuttavia, come Demostene, è lui l'ultimo e più alto spirito apparso dopo

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tutta una serie di grandi spiriti di artisti; perciò nasconde la cosa più dei primi della serie; la sua arte agisce come la natura, una natura prodotta, ritrovata; in sé non ha nulla dell'epideitico che hanno tutti i musicisti pre­cedenti, che talvolta giocano con la loro arte ostentando la propria mae­stria. L'opera d'arte wagneriana non fa pensare né a ciò che in essa è inte­ressante o diletta, né a Wagner stesso, né all'arte in generale; in essa si av­verte la presenza del solo necessario. Nessuno potrà mai contestare la por­tata della severa e costante volontà, dell'autosuperamento occorsi all'arti­sta nel suo divenire, per dare infine, nella maturità, in ogni momento del­la creazione, con gioiosa libertà, il necessario: basta constatare come in alcuni passaggi la sua musica si assoggetta, con crudele decisione, all'an­damento del dramma, che è inesorabile come il fato, mentre l'anima foco­sa di quest'arte arde dal desiderio di vagare selvaggiamente, senza briglie, con assoluta libertà.

10.

L'artista che è dominato da questa forza anche se non lo vuole sotto­mette tutti gli altri artisti. Ma i sottomessi, i suoi amici e i suoi accoliti, non diventano per lui un pericolo, un ostacolo: mentre le personalità più modeste, poiché cercano di appoggiarsi agli amici, ne pagano il fio, per­dono la loro libertà. È bellissimo constatare come Wagner in tutta la sua vita abbia evitato di creare ogni sorta di partito nonostante in ogni fase della sua arte si formasse intorno a lui una cerchia di accoliti che sembra­va volessero fermarlo, tenerlo fermo in quella fase. È passato attraverso essi senza lasciarsi vincolare. D'altra parte il suo percorso è stato troppo lungo perché un solo artista abbia potuto seguirlo fin dall'inizio, ed è sta­to così inconsueto e ripido che al più fedele fra essi sarebbe mancato il fiato. In quasi tutte le fasi della vita di Wagner gli amici avrebbero voluto dogmatizzarlo; e i nemici altrettanto, anche se per altri motivi. Se la pu­rezza del suo talento fosse stata meno limpida anche di un solo grado Wa­gner sarebbe potuto diventare il signore incontrastato delle arti e musiche moderne già molto prima — cosa che comunque alla fine è diventato, ma in modo molto più elevato, nel senso che tutto ciò che avviene in qualche campo dell'arte si vede posto di fronte al tribunale della sua arte e del suo carattere artistico.

Ha aggiogato i più riluttanti: non esiste più un musicista di talento che non lo ascolti con l'anima e non Io reputi degno di essere ascoltato più di lui stesso e dell'altra musica. Quelli che vogliono ad ogni costo significare Qualcosa lottano addirittura contro questo fascino che li sopraffa, si rele­gano caparbiamente fra i vecchi maestri e preferiscono appoggiare la loro autonomia a Schubert o a Hàndel piuttosto che a Wagner. Inutilmente! Lottando contro la propria cattiva coscienza come artisti diventano più piccoli e più meschini; essendo costretti a tollerare amici e alleati cattivi rovinano il loro talento; e dopo tutti questi sacrifici capita loro di tendere l'orecchio a Wagner. Questi avversari fanno compassione: perdono se stessi, nel farlo sbagliano e credono di perdere molto.

Ora, a Wagner importa poco, è chiaro, che i musicisti compongano alla Wagner e in generale che compongano, anzi fa del tutto per distruggere la nefasta convinzione che a lui si debba associare una scuola di composito­ri. Fin dove arriva la sua influenza immediata sui musicisti cerca di inse­gnar loro l'arte del grande modo di porgere; gli sembra giunto il momento nello sviluppo dell'arte nel quale è molto più apprezzabile la buona volon­tà di diventare valenti maestri della rappresentazione e dell'esecuzione che

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non la voglia di «creare» se stessi ad ogni costo. Perché al livello oggi rag­giunto dall'arte questa creazione appiattisce fatalmente gli effetti di ciò che è veramente grande in quanto in qualche modo lo moltiplica e attra­verso l'uso quotidiano logora i mezzi del genio. Perfino il buono in arte è superfluo e nocivo quando è frutto di imitazione dell'ottimo. In Wagner scopi e mezzi coincidono: per capire queste cose occorre solo onestà arti­stica; servirsi dei suoi mezzi per scopi minori totalmente diversi è disone­stà. Proprio per questo Wagner sollecita invece tutti i talenti a trovare in­sieme a lui le leggi dello stile per l'esecuzione drammatica. Una profonda necessità lo spinge a fondare per la sua arte la tradizione di uno stile gra­zie al quale la sua opera possa sopravvivere e raggiungere quel futuro al quale il suo creatore la ha predestinata.

Wagner possiede una carica inesauribile nel trasmettere tutto ciò che ri­guarda questa fondazione dello stile e quindi la sopravvivenza della sua arte. Scopo precipuo della sua vita è diventato quello di fare della sua opera un depositum sacro, come direbbe Schopenhauer, e il vero frutto della sua esistenza, un bene dell'umanità per posteri in grado di apprez­zarla meglio. E per questo suo obiettivo porta quella corona di spine dalla quale un giorno germoglierà la corona d'alloro: si è concentrato sull'o­biettivo di mettere al sicuro la sua opera con la stessa determinazione con cui l'insetto nella sua ultima fase si preoccupa di mettere al sicuro le pro­prie uova e il frutto della cova che esso non vedrà mai: depone le sue uova dove sa con certezza che un giorno esse troveranno vita e nutrimento, e muore soddisfatto.

Questo scopo, cui tende con tutte le sue forze, lo spinge a produrre in continuazione idee sempre nuove; più si sente avversato dai suoi contem­poranei — la sua è stata un'epoca caratterizzata dalla massima indisponi­bilità ad ascoltare — più crea cose nuove attingendo alla fonte di una de­moniaca capacità di comunicare. Poco a poco però i suoi avversatori han­no cominciato a cedere e a prestare orecchio ai suoi instancabili tentativi. Ovunque intravedesse una piccola o grande occasione per farsi capire si è spiegato con l'esempio: ha immesso volta a volta i suoi pensieri nella ma­teria bruta e li ha fatti parlare. Ovunque gli si presentasse un'anima appe­na predisposta vi immetteva il suo seme. Fa nascere la speranza là dove il freddo osservatore si arrende deluso; per avere ragione a dispetto di que­sto osservatore si inganna cento volte; come lo scienziato esegue esperi­menti sul vivo solo finché grazie ad essi può moltiplicare il patrimonio delle proprie conoscenze, così sembra che l'artista non riesca più ad avere rapporti con l'uomo del suo tempo grazie al quale non riesce a eternare la sua arte: non lo ama con la stessa intensità con cui ama questa perpetua­zione, e avverte un solo genere di odio nei propri confronti, l'odio che vuol abbattere i ponti fra lui e quel futuro. Gli allievi che Wagner ha edu­cato, i vari musicisti e attori cui ha detto una parola, ha insegnato con l'e­sempio un gesto, le piccole e grandi orchestre che ha diretto, le città che hanno capito la serietà della sua arte, i prìncipi e le donne che, parte timi­damente parte con amore, lo hanno aiutato a realizzare i suoi piani, i vari Paesi europei cui ha temporaneamente appartenuto come giudice e cattiva coscienza delle loro arti: tutto poco a poco è diventato eco del suo pensie­ro, del suo incessante sforzo per una fecondità a venire; spesso questa eco gli è tornata indietro deformata e confusa, ma alla ultrapotenza del pos­sente suono che ha inviato al mondo centuplicato dovrà alla fine corri­spondere una eco ultrapotente; e ben presto non ascoltarlo, fraintenderlo,

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non sarà più possibile. Già oggi questa eco fa tremare i luoghi d'arte degli uomini moderni; ogni qualvolta l'alito del suo spirito arriva in questi giar­dini tutto ciò che è caduco e inaridito è colto da tremore; e ancora più elo­quente di questo tremore è un dubbio che si leva dappertutto: nessuno sa più dire dove l'effetto Wagner insospettabilmente esploderà. È assoluta­mente fuori luogo considerare il buono dell'arte scisso da ogni altro feno­meno buono e cattivo. Lo spirito moderno, ovunque nasconde in sé dei pericoli, avverte con l'occhio della diffidenza anche il pericolo dell'arte. Spacca e seziona l'edificio della nostra civilizzazione e non si lascia sfuggi­re niente di marcio, niente di raffazzonato: se scopre muri che hanno resi­stito alle intemperie e fondamenta stabili e solide studia subito il modo per farne sostegni e tetti protettivi per la propria arte. Vive come un fug­giasco che cerca di salvare non se stesso ma un segreto; come una sventu­rata donna che vuol salvare la vita del bambino che porta in grembo, non la propria: vive, come Siglinda, «per amore».

Infatti essere precari e spaesati in un mondo al quale si deve parlare e chiedere, che si deve disprezzare ma del quale non si può fare a meno si­gnifica vivere fra mille tormenti e vergogne, — questo è il vero tormento dell'artista del futuro che non può, come il filosofo, andare a caccia della conoscenza in un angolo buio: perché a garanzia del suo futuro, per getta­re un ponte fra l'oggi e il domani, ha bisogno quali mediatrici di anime umane e di istituzioni pubbliche. La sua arte non può venir caricata sulla barca delle cose scritte, come quella del filosofo: per essere tramandata l'arte ha bisogno di persone che la capiscono, non di note e segni grafici. Durante lunghi periodi della sua vita Wagner ha temuto di non riuscire a trovare persone in grado di capire la sua arte, di non poterla illustrare con l'esempio ma di doversi limitare all'indicazione scritta, di non poter com­piere l'azione invece di mostrarne la pallida luce a coloro che leggono li­bri, cioè che non sono artisti.

Come scrittore Wagner mostra lo sforzo cui è costretto a sottoporsi un uomo capace cui sia stata tagliata la mano destra e che tira di scherma, come può, con la sinistra: quando scrive soffre, sempre, perché una ne­cessità talvolta inesorabile lo ha privato di quello che per lui è l'unico mo­do giusto di comunicare, della possibilità di dare un esempio chiaro e illu­minante. I suoi scritti non hanno niente di canonico, di severo: il canone è invece nelle opere. Sono tentativi di capire l'istinto che lo spinge a com­porre le sue opere, a leggere, per così dire, negli occhi a se stesso; solo se è riuscito a trasformare il proprio istinto in conoscenza può sperare che nel­le anime dei suoi lettori avvenga il processo inverso: scrive con questa prospettiva. Qualora risultasse che è stato un tentativo impossibile a Wa­gner sarebbe riservato lo stesso destino che hanno tutti coloro che hanno meditato sull'arte; però rispetto alla maggior parte di questi egli ha il van­taggio di possedere un istinto artistico assolutamente eccezionale. Non co­nosco scritti estetici che abbiano irradiato la stessa luce che irradiano quelli wagneriani; essi rivelano quel che è possibile apprendere della nasci­ta dell'opera d'arte. Ne è testimone Uno dei grandissimi, che attraverso una lunga serie di anni migliora, libera e rende sempre più chiara la sua testimonianza; anche se, come giudice, inciampa, vomita fuoco. Scritti quali Beethoven, La direzione d'orchestra, Attori e cantanti, Stato e reli­gione, mettono a tacere qualsiasi volontà di opposizione e costringono a quella devota osservazione che si conviene quando si apre uno scrigno prezioso. Altri, del periodo precedente, fra i quali Opera e dramma, ren­dono irrequieti, mettono in agitazione: il loro ritmo è disuguale per cui

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come prosa confondono. In essi la dialettica è debole per molti versi, l'an­damento a sbalzi del sentimento è più frenato che accelerato; su essi posa, come un'ombra, una sorta di ostilità dello scrivente, come se l'artista si vergognasse della dimostrazione concettuale. Pesa sull'autore, forse non del tutto sicuro di sé, soprattutto un'espressione di autoritaria dignità, difficile da descrivere, che gli è peculiare: ho come l'impressione che Wa­gner parli spesso davanti a nemici perché lo stile di questi scritti è uno stile parlato, non scritto, ed essi risultano più chiari se li si sente recitare — da­vanti a nemici coi quali l'autore non vuol avere familiarità per cui si mo­stra ritroso e riservato. Non di rado dalle pieghe di questo sipario inten­zionalmente interposto trapela la trascinante passione del suo sentimento; allora il periodo artificioso, pesante e zeppo di avverbi scompare ed emer­gono frasi e intere pagine che appartengono alle cose più belle che la pro­sa tedesca abbia prodotto. Ma anche supponendo che in queste parti dei suoi scritti egli parli a degli amici e che accanto alla sua sedia non ci sia più lo spettro del suo nemico: gli amici e nemici ai quali si rivolge quando scrive hanno tutti in comune qualcosa che li distingue radicalmente, che li separa nettamente da quel popolo per il quale egli crea come artista. Nel raffinamento e nella sterilità della loro cultura essi sono privi della semplicità del popolo, sono non-popolari, e Chi vuol essere capito da essi deve usare — come hanno fatto i nostri migliori prosatori e come fa anche Wagner — una lingua che non è quella del popolo. Con quale sforzo è facile indovinare. Lo fa arretrando nell'oscura cerchia dei dot­ti, ai quali, come creatori, aveva detto addio per sempre, la potenza di quel sollecito, quasi materno istinto al quale sacrifica ogni cosa. Si as­soggetta al linguaggio della cultura e a tutte le leggi della sua comunica­zione benché sia stato il primo a constatare la profonda inadeguatezza di questa comunicazione.

Distingue la sua arte da tutte le arti dei tempi moderni il fatto che egli non parla più il linguaggio della cultura di una casta e non conosce più l'antinomia fra colti e incolti. Così facendo si pone in contrasto con tutta la cultura del rinascimento, che fino allora aveva ammantato gli uomini nuovi con la sua luce e la sua ombra. Solo per il fatto che l'arte di Wa­gner ci allontana qua e là dalla stessa riusciamo a cogliere il carattere omogeneo di questa cultura: ecco allora che Goethe e Leopardi ci appaio­no come gli ultimi rappresentanti dei poeti-filologi italiani e Faust come la rappresentazione, nella forma dell'uomo teorico assetato di vita, dell'e­nigma meno popolare di tutti, che i tempi moderni hanno liquidato; la stessa lirica goethiana ha seguito la lirica popolare, non l'ha preceduta, e il suo poeta sapeva la ragione per la quale a un suo ammiratore aveva confidato con grande serietà: «le mie cose non possono diventare popola­ri; chi lo pensa e lo desidera è in errore».

Abbiamo dovuto imparare, e indovinarlo era impossibile, che può esi­stere un'arte tanto calda e solare da essere in grado sia di illuminare coi suoi raggi i piccoli e i poveri di spirito sia di dissolvere la boria dei sapien­ti. Ma nello spirito di chi ne fa la conoscenza essa non può non sconvolge­re i concetti di educazione e cultura; costui avrà l'impressione che gli ab­biano sollevato la tenda che celava un futuro nel quale non esisteranno sommi beni e somma felicità non comuni ai cuori di tutti. Allora il di­sprezzo oggi riservato alla parola «comune» finalmente cadrà.

Se il presentimento osa spingersi così lontano, la consapevole constata-

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zione coglierà la sinistra insicurezza sociale del nostro presente e non si nasconderà i pericoli di un'arte che sembra non avere radici se non in quel lontano futuro, e che ci pone sotto gli occhi i suoi rami fioriti invece della base, del tronco da cui nasce. Come salvare quest'arte senza patria fino a quel futuro, come arginare la piena della rivoluzione, che appare ovunque inevitabile, affinché il molto che è destinato al tramonto, e che merita di tramontare, non venga privato anche di quanto anticipa e garantisce un futuro migliore, un'umanità più libera? Chi si pone questi interrogativi e si preoccupa ha partecipato alle preoccupazioni di Wagner; si sentirà spin­to a cercare con lui quelle forze, che esistono, e che nei tempi dei terremo­ti e delle rivoluzioni hanno la bontà e la volontà di essere gli spiriti protet­tivi dei beni più nobili dell'umanità. Solo in questo senso Wagner tramite i suoi scritti chiede ai dotti di nascondere nei loro forzieri l'anello prezioso della sua arte; e persino la immensa fiducia che Wagner ripone nello spiri­to tedesco, anche nelle sue mete politiche, sembra avere origine nella sua convinzione che il popolo della Riforma possiede la forza, la mitezza e il coraggio che sono necessari per «rattenere il mare della rivoluzione nel letto del tranquillo fiume dell'umanità.» Vorrei quasi dire che attraverso il simbolismo della sua marcia imperiale egli ha voluto esprimere questo e soltanto questo.

Ma in generale il generoso impeto dell'artista che crea è troppo forte, l'orizzonte del suo amore per l'umanità è troppo ampio perché il suo sguardo possa arrestarsi ai confini della sua nazione. I suoi pensieri, come quelli di ogni Tedesco grande e buono, valicano i confini nazionali e la lingua della sua arte non parla a popoli ma a uomini.

Però a uomini del futuro.

Questa è la fede che gli è peculiare, questo il suo tormento e la sua grandezza. Nessun artista, qualunque sia il suo passato, ha avuto in dono dal suo genio doti altrettanto cospicue, nessuno ha dovuto bere gocce tan­to amare ad ogni calice di nettare che l'entusiasmo gli ha offerto. Si vor­rebbe credere che l'artista misconosciuto, maltrattato, in qualche modo esule in patria, sia arrivato a questa fede per «legittima difesa»; invece no, non è così; successo e insuccesso presso i suoi contemporanei non so­no riusciti né ad abbatterlo né a motivarlo. Wagner non appartiene a que­sta schiatta. Vuol essere accettato o respinto: — questo gli detta il suo istinto; le cose stanno così anche se e a chi non ci crede non è possibile di­mostrarlo. Ma a chi non ci crede possiamo chiedere quale sarebbe secon­do lui la schiatta nella quale Wagner vedrebbe il suo «popolo» rappresen­tare tutti coloro che avvertono un bisogno comune e vogliono affrancar­sene per mezzo di un'arte comune. Schiller però credeva e sperava di più; non si chiedeva come sarebbe stato il futuro se l'istinto dell'artista che lo presagiva vedeva giusto, ma esortava gli artisti a volare:

Volate con le vostre ali al dì sopra del vostro tempo! Albeggia già nel vostro specchio il secolo venturo!

11. La ragione, il buon senso, ci preservi dal credere che un giorno l'umani-

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tà troverà ordinamenti ideali definitivi e che poi la felicità illuminerà gli uomini così ordinati con raggio sempre uguale, come il sole dei tropici: Wagner non pensa niente del genere, non è un utopista. Se non può fare a meno di credere nel futuro è solo perché nell'uomo di oggi percepisce qualità che non fanno parte del carattere immutabile della natura umana, ma sono mutevoli, anzi effimere, e perché pensa che l'arte fra essi non può che essere senza patria proprio a causa di queste qualità, e vede in se stesso il messaggero di un altro tempo. Nessuna età dell'oro, nessun cielo senza nubi è destinato a questa stirpe futura che il suo istinto preconizza e le cui caratteristiche sono decifrabili dalla sua arte, al punto che dal tipo di appagamento è possibile dedurre il tipo di bisogno. Né su questo futuro si tende, come un immobile arcobaleno, bontà e giustizia sovrumana. Forse nel suo insieme questa stirpe apparirà persino peggiore di quella attuale, — per­ché, nel male come nel bene, sarà più aperta; anzi la sua anima se si espan­desse in piena libertà potrebbe anche scuotere e intimorire le nostre anime, così come le spaventerebbe la voce altisonante di un malefico spirito naturale rimasto finora nascosto. Oppure risuonerebbero al nostro orecchio frasi co­me: la passione è migliore dello stoicismo e dell'ipocrisia, essere onesti, an­che nel male, è meglio che perdere se stessi nella moralità della tradizione, l'uomo libero può essere sia buono che cattivo, mentre l'uomo non libero è una vergogna della natura e non troverà consolazione né in cielo né in Terra; chi vuol essere libero deve diventarlo per forza propria, a nessuno la liberta cade in grembo come un dono prodigioso. Anche se appaiono striduli e sini­stri, questi sono i suoni che vengono da quel mondo futuro che ha davvero bisogno dell'arte e che da essa può anche aspettarsi un vero appagamento; è il linguaggio della natura reimmesso nell'umano, è esattamente ciò che io precedentemente ho definito sentimento autentico, agli antipodi con quello non-genuino oggi dominante.

Ora però il vero appagamento e la vera liberazione esistono solo per la natura, non per la non-natura. Alla non-natura, quando arriva alla co­scienza, rimane solo il desiderio del nulla, mentre la natura aspira alla tra­sformazione in virtù dell'amore: la prima vuol non essere, la seconda vuol essere una cosa diversa. Chi ha capito questo esamini i semplici motivi dell'arte wagneriana per chiedersi se in essi persegua i suoi scopi la natura o la non-natura.

L'uomo che soffre, che è disperato viene liberato dalla sua sofferenza dalla abnegazione della donna che preferisce morire che essergli infedele: motivo dell' Olandese Volante. — L'amata, rinunciando alla felicità, in una celeste trasfigurazione da Amor si tramuta in Caritas, in Santa, e sal­va l'anima dell'amato: motivo del Tannhàuser. — Scende fra gli umani l'essere più sublime e nobile che esista, non vuole che gli si chieda da dove viene; quando l'infausta domanda gli viene rivolta è costretto con dolore a ritornare alla sua vita più alta: motivo del Lohengrin. — Sia l'anima amante della donna sia il popolo accolgono di buon grado il benefico ge­nio apportatore di felicità sebbene i cultori delle tradizioni lo respingano e lo diffamino: motivo dei Maestri Cantori. Due innamorati, che non sanno di esserlo credendo invece di essersi offesi e disprezzati, apparentemente al fine di espiare per la colpa commessa ma in realtà per l'inconscio desi­derio di liberarsi mediante la morte da ogni separazione e finzione, chie­dono l'uno all'altro di bere un filtro mortale. La creduta imminenza della morte libera la loro anima e dona loro una breve inebriante felicità, come se fossero veramente sfuggiti al giorno, all'illusione, anzi alla vita: motivo di Tristano e Isotta.

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Nell'Anello del Nibelungo il tragico eroe è un dio che è assetato di potere e che mentre tenta tutte le strade per conquistarlo perde la sua libertà e in­corre nella maledizione che incombe sul potere. Si rende conto di non essere più libero quando scopre che non ha più modo di impadronirsi dell'anello d'oro, simbolo dei simboli del potere terreno e per lui, finché è in possesso dei suoi nemici, il pericolo più grande: è sopraffatto dalla paura della fine e del tramonto di tutti gli dèi e dalla disperazione di non potersi opporre a questa forza. Ha bisogno dell'uomo libero e impavido, che senza il suo con­siglio e il suo appoggio, anzi a dispetto dell'ordine divino compia l'azione negata agli dèi: non lo vede, deve obbedire alla costrizione che lo vincola proprio quando nasce in lui una nuova speranza: la sua mano deve annienta­re la cosa più cara, deve punire la pietà per la sua sofferenza.

Allora lo assale profondo disgusto per il potere, che porta in grembo male e prigionia, la sua volontà si spezza, desidera egli stesso la fine che lo minaccia da lontano. Solo adesso avviene ciò che aveva desiderato più di ogni altra cosa: appare l'uomo libero e impavido, è nato nel contrasto con la tradizione; quelli che l'hanno generato pagano il fio per essersi coa­lizzati contro l'ordine della natura e della tradizione: essi periscono men­tre Sigfrido vive. Alla vista del suo splendido divenire il disgusto abban­dona l'anima di Wotan, che quindi segue le sorti dell'eroe con l'occhio paterno dell'amore e della trepidazione, lo vede forgiare la spada, uccide­re il drago, conquistare l'anello, sfuggire allo scaltro inganno, risvegliare Brunilde; vede come la maledizione che incombe sull'anello non risparmi nemmeno lui, come egli, fedele nell'infedeltà, ferendo per amore la cosa più cara, viene avvolto dall'ombra e dalla nebbia della colpa, ma alla fine emerge e tramonta puro come il Sole accendendo tutto il cielo col suo splendore di fuoco e liberando il mondo dalla maledizione, — tutto ciò vede il dio, la cui lancia nel duello con l'uomo libero si è spezzata e ha perduto il suo potere su di lui; vede tutto ciò e gode per la propria sconfit­ta, colmo di goia e di comprensione per colui che lo ha sconfitto: il suo occhio guarda agli ultimi eventi con la luce di una beatitudine dolorosa, nell'amore è diventato libero, libero da se stesso.

E ora chiedete a voi stesse, schiatte di uomini del presente! È stata crea­ta per voi questa poesia? Avete voi il coraggio di indicare con la vostra mano le stelle di questo firmamento di bellezza e di bontà e di dire: quella che Wagner ha trasferito fra le stelle è la nostra vita?

Dove sono fra di voi gli uomini capaci di interpretare la divina immagi­ne di Wotan conformemente alla propria vita, quelli che diventano tanto più grandi quanto più arretrano, si ritraggono? Chi di voi è disposto a ri­nunciare al potere sapendo che il potere è malefico? Dove sono le donne che, come Brunilde, rinunciano alla conoscenza per amore e ciononostan­te alla fine traggono dalla propria vita l'insegnamento più alto: «la più profonda sofferenza per un triste amore mi ha aperto gli occhi». Dove so­no tra voi gli uomini liberi, impavidi, che crescono e fioriscono in inno­cente autonomia?

Chi si pone, e invano, questi interrogativi dovrà guardare al futuro, e se il suo sguardo scoprirà ancora quel «popolo» cui è dato leggere la propria storia dai segni dell'arte wagneriana alla fine capirà anche cosa sarà Wa­gner per questo popolo: — una cosa che non può essere per tutti noi, cioè non il vate che preconizza un futuro che potrebbe apparire, ma l'interpre­te e il trasfiguratore di un passato.