21
Zeitschri des Max-Planck-Instituts für europäische Rechtsgeschichte Rechts R g geschichte Rechtsgeschichte www.rg.mpg.de http://www.rg-rechtsgeschichte.de/rg4 Zitiervorschlag: Rechtsgeschichte Rg 4 (2004) http://dx.doi.org/10.12946/rg04/118-136 Rg 4 2004 118 – 136 Emanuele Conte Archeologia giuridica medievale Spolia monumentali e reperti istituzionali nel XII secolo Dieser Beitrag steht unter einer Creative Commons cc-by-nc-nd 3.0

AP - 22-conte-3 - data.rg.mpg.dedata.rg.mpg.de/rechtsgeschichte/rg04_recherche_conte.pdf · Archeologia giuridica medievale Spolia monumentali e reperti istituzionali nel XII secolo

  • Upload
    vanbao

  • View
    214

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

Zeitschri des Max-Planck-Instituts für europäische Rechtsgeschichte Rechts Rggeschichte

Rechtsgeschichte

www.rg.mpg.de

http://www.rg-rechtsgeschichte.de/rg4

Zitiervorschlag: Rechtsgeschichte Rg 4 (2004)

http://dx.doi.org/10.12946/rg04/118-136

Rg42004 118 – 136

Emanuele Conte

Archeologia giuridica medievaleSpolia monumentali e reperti istituzionali nel XII secolo

Dieser Beitrag steht unter einer

Creative Commons cc-by-nc-nd 3.0

Abstract

Wie bei allen Erscheinungen der langen »Ren-aissance «, die sich vom 12. bis ins 15. Jahrhundert erstreckt, ist auch im Recht die Verweisung auf die Antike aus verschiedenen und zuweilen widersprü-chlichen Elementen zusammengesetzt. Rechtshis-torische Forschungen haben ihr Hauptinteresse stets auf die Schule von Bologna und deren dog-matischen Umgang mit den justinianischen Texten gelenkt. Dagegen gilt es, einen anderen, ebenfalls juristischen Gebrauch der Antike herauszustrei-chen. Im Fall des Cola di Rienzo im 14. Jahrhun-dert wie auch in bestimmten Positionen der römischen Commune des 12. Jahrhunderts und in der Gesetzgebung Friedrichs II. spielt der Text des römischen Rechts eine eher symbolische denn konkrete Rolle: Er verschafft politischen Stand-punkten Autorität, bekräigt neue Gesetze der Herrscher und verleiht nichtkirchlichen Mächten Legitimität.

Die interessanteste Erscheinung dieses »monu-mentalen« Gebrauchs des römischen Rechts findet man im Fall der Stadt Pisa, die bereits im11. Jahrhundert beginnt, sich als »Neues Rom« zu definieren. Obwohl der Text des justinianischen Rechts gerade in Pisa frühzeitig vorliegt, entwick-elt sich dort keine der Schule von Bologna ver-gleichbare Textwissenscha. Vielmehr bedient man sich der Autorität Justinians, um neue munizipale Gesetze zu erlassen, das Verfahren umzugestalten und um die städtischen Institutionen mit auctoritaszu versorgen. Die Pisaner Juristen lenken dement-sprechend ihre Aufmerksamkeit stärker auf das römische öffentliche Recht und befassen sich auch gerne mit den literarischen Quellen der römischen Geschichte, während die Schule von Bologna ihren Rechtstext bald zu enthistorisieren beginnt, sich zunehmend auf das römische Privatrecht konzen-triert und die Erforschung des öffentlichen Rechts den Kanonisten überlässt.

□×

Archeologia giuridica medievaleSpolia monumentali e reperti istituzionali nel XII secolo

1. Roma: la città e il mito

In un giorno imprecisato del 1346, la basilica di S. Giovanni inLaterano è preparata per una cerimonia singolare: Cola di Rienzo,che da due anni ha fatto ritorno a Roma da Avignone, dove s’èingraziato il pontefice e ha stretto amicizia con Petrarca, ha fattopreparare un pulpito di legno e scranni per far sedere il pubblico, enel muro ha fatto inserire una stele di bronzo »granne e man-nifica … con lettere antique scritta, la quale nullo sapeva leiere néinterpretare, se non solo esso«. La stele, che Cola aveva ritrovatoproprio in Laterano, conteneva la celebre Lex regia de ImperioVespasiani, come il colto rivoluzionario aveva compreso:1 unreperto che riempiva di verità storica i ricordi della lex regiacontenuti nel Corpus Iuris Civilis e richiamati sovente dai giuristi.È intorno a questo straordinario reperto che Cola ha progettato lamanifestazione con la quale intende presentare alla città la suapolitica. Accanto all’antica iscrizione ha fatto dipingere scene chene illustrano il contenuto: vi si vede il Senato di Roma che concedela sovranità all’Imperatore.

Radunato un pubblico composto di nobili e popolari, ma anchedi »uomini savii, iudici e decretalisti«, Nicola figlio dell’oste Rienzofa il suo ingresso nella basilica. Vestito in abiti ieratici, incoronatod’alloro, il futuro tribuno tiene un discorso in volgare per illustraread una platea popolare e borghese il suo progetto di riforma delleistituzioni comunali e il suo programma antinobiliare. È un discor-so politico e popolare; tutto centrato, però, intorno all’interpre-tazione acutissima del reperto che mostra: accenti populistici ederudizione filologica si incontrano per formare un connubio giàchiaramente rinascimentale. Già nella Roma del 1346 il tonoieratico assunto da Cola, unito alla suggestione emanata dallostraordinario reperto che esibisce, costituisce lo strumento retoricopiù efficace per acquisire il consenso del suo pubblico, che sarà poila base sociale della sua ascesa politica: popolari e mercanti da unaparte, professionisti e uomini di cultura dall’altra.2

Il programma di Cola rispondeva a esigenze economiche esociali evidenti, che egli condivideva con il Petrarca: era un pro-

118

Archeologia giuridica medievale

Rg

4/2

004

1 Si usa ripetere la congettura diSavigny, Geschichte des römi-

schen Rechts im Mittelalter, Bd. V,§ 119, p. 366, nota g, secondo cuigià Odofredo avrebbe vistol’iscrizione, ma l’avrebbe scam-biata per un frammento delle XIItavole. Ma non è chiaro perché iltesto che Odofredo non seppe ri-conoscere non avrebbe potuto es-sere una qualunque altra iscrizionedi carattere vagamente giuridico.

2 L’episodio del 1346 è narratonella Cronica dell’Anonimo Ro-

mano, ed. G. Porta, Milano1979, 147–150. Inutile fornireindicazioni bibliografiche su Cola,sul quale gli studi sono innume-revoli. Da ultima, con bibliografiaprecedente, A. Collins, Greaterthan Emperor. Cola di Rienzo(ca. 1313–54) and the World ofFourteenth-Century Rome, AnnArbor 2002. Ottima la voce »Coladi Rienzo« di J.-C. Maire Vigu-eur, in: DBI 26 (1982) 662–675.

getto di eversione dei rapporti feudali e signorili, di rilancio dellafunzione unificante di Roma, addirittura di unificazione d’Italiaintorno alla ritrovata centralità di Roma. Un sogno di rinnova-mento radicale, che si appoggiava tutto sull’antico: su un rilanciodi forme e magistrature romane di cui la cerimonia filologico-propagandistica del 1346 è la prima palese espressione.

Nel progetto politico schiettamente umanistico di Cola siincontrano già, come nei successivi scrittori politici italiani, l’aspi-razione al rinnovamento istituzionale e la passione per l’antiquitas,la romanità originaria. La storia che irrompe sul palcoscenico dellapolitica e del diritto è dunque storia »di parte«, ordinata alla difesadi un’idea politica; ma è fondata sull’archeologia, sull’interpreta-zione epigrafica, sulla conoscenza minuziosa delle fonti. È insom-ma l’idea moderna di storia.

Questa minuziosa utilizzazione dell’antichità romana dovevavenir naturale in Cola di Rienzo, che aveva passato gran parte dellasua gioventù aggirandosi fra le rovine romane, decifrando iscrizionie subendo la suggestione dei monumenti della città e della campa-gna romana. La sua cultura archeologica ed epigrafica era dunquegià rinascimentale, perché fondata sull’esperienza diretta dellefonti; eppure poggiava su una conoscenza della storia romanache era piuttosto medievale. Cola s’era formato leggendo gli inge-nui racconti di storie romane che circolavano al tempo suo anche involgare, ma che avevano avuto origine circa due secoli prima: duedei testi che egli ebbe tra le mani risalivano infatti agli anni centralidel XII secolo. È certo che egli abbia studiato a fondo le Storie deTroja et de Roma nella versione volgare circolante a partire dallametà del Duecento; si è avanzata anzi l’ipotesi che gli sia apparte-nuto il manoscritto illustrato di Amburgo,3 in cui compare la stessapropensione all’uso dell’immagine per la divulgazione dei contenutistorico politici che fu poi caratteristica della sua avventura romana.

Questo libretto in volgare, che fu sorprendente premessa dellagenuina filologia di Cola, era in realtà la traduzione di un originalelatino più antico di circa un secolo, perché risaliva all’incirca aglianni Quaranta del XII secolo. Erano gli stessi anni in cui a Roma sicomponeva la nota versione dei Mirabilia che va sotto il nome diGraphia Urbis Romae, edita dallo Schramm insieme alla suaappendice dedicata alle magistrature romane, il Libellus de ceri-moniis aulae Imperatoris, che vide la luce a quanto pare inconcomitanza con la discesa a Roma di Federico Barbarossa nel

119

Emanuele Conte

Nach

Hau

se

3 Paul Piur, Cola di Rienzo. Dar-stellung seines Lebens und seinesGeistes, Wien 1931, 7. Cfr. l’ed.del testo con descrizione del ms. diAmburgo: Storie de Troja et deRoma altrimenti dette Liber hi-storiarum Romanorum: testo ro-manesco del secolo XIII precedutoda un testo latino da cui deriva,edito con note e glossario daErnesto Monaci, Roma 1920

(Miscellanea della R. Società ro-mana di storia patria, 5).

1155.4 Probabilmente Cola conobbe anche questo secondo fruttodel revival antichizzante romano del XII secolo, e certamente l’idearinascimentale di attingere alle strutture dell’amministrazione im-periale romana per disegnare istituzioni nuove era già presente inquesti tentativi precoci di ricostruire l’antico monumentale eistituzionale di Roma.

2. Archeologia monumentale e archeologia istituzionalenel XII secolo

In effetti è già poco dopo il 1140 che vediamo nascere proprioa Roma quel binomio fra archeologia istituzionale e archeologiamonumentale che caratterizza già la rinascenza del XII secolo esarà poi tipico del Rinascimento del XV. E già allora l’impulso adissotterrare antiquitates era venuto da esigenze politiche di ca-rattere eversivo: era stata la predicazione di Arnaldo da Brescia,aspramente contraria al clero e al potere temporale dei papi, asollecitare il considerevole »scavo« di un’istituzione romana di-menticata: il Senato.5 Per la verità esso era risorto qualche annoprima del suo arrivo a Roma, nel 1143, ma fu Arnaldo a rilan-ciarne la funzione di centro di potere laico, dal quale avrebbepotuto risorgere l’originaria investitura popolare dell’Imperatore.6

La mitica lex regia de Imperio, ancora ignota nel testo epigraficorinvenuto da Cola ma rievocata dal Digesto e dalle Istituzioni diGiustiniano, agiva evidentemente nell’ideologia del riformatoreanticlericale come aveva fatto già al tempo di Carlo Magno e comesi preparava a fare più tardi con Cola di Rienzo. Il Senato, allora,rappresentava l’unità del popolo romano, che Arnaldo volevaancora titolare dell’antica potestà di legiferare e di conferire ipoteri sovrani all’Imperatore.

Suggestivo che la magistratura così richiamata in vita sipreoccupasse, poco più tardi, di tutelare i monumenti archeologiciveri e propri dell’antichità romana: al 1162 risale infatti il piùantico provvedimento di tutela di un bene culturale che si conosca:il senato romano, nel giudicare di una controversia fra chiese,attribuisce la colonna Traiana alla chiesa di S. Nicola, ma nevincola le disponibilità proibendone qualsiasi manomissione odanneggiamento perché ciò lederebbe »honor … totius populiromani«. »Qui vero eam minuere temptaverit, persona eius ulti-mum patiatur supplicium et bona eius omnia fisco applicentur.«7

120

Archeologia giuridica medievale

Rg

4/2

004

4 Ed. P. E. Schramm, Kaiser, Romund Renovatio, T. II, Leipzig,Berlin 1929, 68–104, ora con ag-giunte e correzioni in Id., Kaiser,Könige und Päpste. GesammelteAufsätze zur Geschichte des Mit-telalters, T. III, Stuttgart 1969,313–359. Cfr. anche dello stesso,Die römische Literatur zur Topo-graphie und Geschichte des altenRom im XI. und XII. Jh., ivi, IV,Stuttgart 1970, 22–42.

5 A. Frugoni, Sulla ›renovatioSenatus‹ del 1143 e l’›ordoequestris‹, in: Bull. dell’IstitutoStorico Italiano per il Medioevo62 (1950) 159–174; G. Arnaldi,Rinascita, fine, reincarnazione esuccessive metamorfosi del Senatoromano (secoli V – XII), in: Ar-chivio della Società Romana diStoria Patria 105 (1982) 5–56;M. Miglio, Il senato in Romamedievale, in: Il senato nella sto-ria, II, Il senato nel Medieovo enella prima età moderna, Roma1997, 117–172.

6 Su Arnaldo e il Senato nei lororapporti con il papa e l’Imperatorecfr. R. Benson, Political Renova-tio: two Models from Roman An-tiquity, in Renaissance and Re-newal in the Twelfth Century, ed.

R. L. Benson e C. D. Constable,Oxford 1982, 339–386. Cfr. inol-tre M. Miglio, Il senato, cit., 124;Frugoni, Sulla renovatio, cit.,170–171, tutti sulla base dellanotissima lettera di un Wezel po-chissimo conosciuto, in: Jaffé,Bibliotheca rerum Germanica-rum, I, Berlin 1864, 539–543,num. 404.

7 Codice diplomatico del senatoromano dal MCXLIV al

MCCCXLVII, a c. di F. Barto-loni, I, Roma 1948 (Fonti per last. d’It., 87), 26–27 (n. 18) del27 marzo 1162. Su questo testocfr. Benson, (op. cit. a nota 6),352 e P. Classen, Causa Imperii:Probleme Roms in Spätantike undMittelalter, in: Das Hauptstadt-problem im Mittelalter (Festschr.F. Meinecke), Tübingen 1952,225–248, 236–237.

La formula adottata dal Senato redivivo rievoca il regime romanodell’ornatus civitatis che, pur ricadendo nel patrimonio dei privati,è soggetto a una forte limitazione nella circolazione proprio perpreservarne la funzione di manifestare la grandezza della città.8

L’honor, cioè la maestà del popolo romano, si specchia neimonumenti dell’Impero, al punto che l’oltraggio ad essi è punitoda parte del Senato con la condanna a morte e la confisca dei beni,le stesse pene previste per l’affronto alla maestà imperiale.9

La sentenza del 1162 segna il ritorno, dopo secoli, all’affer-mazione di una autorità laica sui monumenti romani, che almenodal VII secolo erano passati sotto la giurisdizione del pontefice.Il Senato afferma dunque il ritorno dei segni monumentali dellapotenza romana sotto il controllo dell’autorità laica, che da essipuò ben trarre la riserva di auctoritas necessaria per confrontarsialla pari con la Chiesa. Nel momento di crisi della Chiesa e dellafede che è segnata dalla predicazione di Arnaldo l’antichità sembraquasi poter fornire una sorta di sacertà alle istituzioni laiche: sanctavetustas, sacra vetustas, sacrosancta vetustas avrebbero detto tresecoli più tardi gli umanisti italiani. Anzi, quando con il Trecentole partizioni cronologiche dell’antichità si precisano separandol’epoca classica da quella tardo antica, e l’ideale umanistico siconcentra sull’età repubblicana e su quella classica, allora lavenerazione di Roma potrà costituire un vero problema per l’u-manista cristiano, che vede addensarsi l’ombra della decadenzaproprio nel momento in cui l’Impero si converte al cristianesimo.10

In fondo l’alternativa tra Roma classica, potente e pagana, eRoma cristiana che cedeva il suo potere alla Chiesa era viva già altempo della percezione ancora naïve dell’antichità tipica dellaRoma del Millecento, quando già gli arnaldisti opponevano i fastilaici di Roma alla rapacità del governo pontificio. Nella versionedei Mirabilia del 1155 – composta per attirare il Barbarossa dallaparte del Comune romano – l’esaltazione delle vestigia monumen-tali di Roma si coniuga con il rilancio di quei monumenti istitu-zionali che sono le magistrature dell’antichità, in particolaredell’età imperiale. Accanto al Senato, di cui si esalta la funzionedi promozione dell’Impero più che le origini repubblicane cheinteressano poco, vediamo intensificarsi a Roma l’uso di denomi-nazioni antiche per i magistrati pubblici, gratificati di intitolazioniesotiche come quelle di primicerius o secundicerius, cui il Libellusde cerimoniis giustappone termini ancora più esotici, come quelli di

121

Emanuele Conte

Nach

Hau

se

8 Y. Thomas, Les ornements, la cité,le patrimoine, in: Images romaines,Paris 1999, 263–283, 282–83.

9 Ringrazio Susanne Lepsius perquesta osservazione.

10 Utili indicazioni sulla sacrosanctavetustas e sull’atteggiamento diPetrarca fra lode di Roma e senti-mento religioso in Erwin Panof-sky, Renaissance and Renais-sances, Stockholm 1960, 8–11.

archarius o sacellarius.11 Sono intitolazioni tardo antiche, tipichedi una corte ormai orientaleggiante, che era quella che esercitava ilfascino maggiore sui romani del XII secolo, cui si giustappone lasuggestiva descrizione delle corone imperiali e delle altre insegne digusto bizantino, tra cui spicca la cintura aurea sulla quale cam-peggia il motto Roma caput mundi regit orbis frena rotundi.12

La sezione »istituzionale« dei Mirabilia Urbis è dunque affa-scinante per il pellegrino medievale quanto la descrizione dei luoghifisici del trionfo di Roma e del cristianesimo antico: verso il 1155,quando il Barbarossa in Italia alimentava le speranze di una verarenovatio dell’Impero, i due aspetti del revival dell’antico, quellomonumentale e quello istituzionale, si uniscono anche fisicamentenelle pagine della Graphia aurea Urbis Romae e della sua appen-dice sulle cerimoniae.

3. Translatio e Renovatio nell’età sveva

Gli storici,13 che hanno sottolineato questi aspetti suggestividell’ambiente culturale romano alla vigilia dell’incoronazione del1155, hanno rilevato peraltro che il rinnovamento dell’Impero cheaveva in mente Federico e che il suo dotto zio Otto di Frisingaaveva vagheggiato per lui era cosa ben diversa dal sogno coltivatodai Romani. E che ciò condusse a un aspro battibecco fral’Imperatore e gli ambasciatori di Roma che erano venuti adaccoglierlo sulla strada della città. L’episodio è riferito dallo stessoOtto, che rievoca la pretesa dei romani di atteggiarsi ad arbitridell’Impero, e mette in bocca a Federico una risposta indignata esarcastica che può intendersi come la più lucida delle opposizioniall’inebriante ricorso alla renovatio che a Roma si intendeva comeriproposizione pura e semplice di un passato mitico.

Il dialogo rievocato da Otto sembra opporre due visionicontrastanti del riferimento a Roma antica. Gli ambasciatori diRoma vorrebbero da Federico un vero e proprio ritorno all’antico,in cui l’Imperatore stesso sembra emanazione della città:

Revertantur, opto, pristina tempora; redeant, rogo, inclitaeUrbis privilegia; orbis Urbs sub hoc principe recipiat guber-nacula, refrenetur hoc imperatore ac ad Urbis reducaturmonarchiam orbis insolentia!

Parlando in prima persona, Roma stessa giunge ad attribuirsi ilmerito di aver legittimato l’Imperatore:

122

Archeologia giuridica medievale

Rg

4/2

004

11 Edizione del Libellus de cerimoniisaulae Imperatoris ora in:

P. E. Schramm, Kaiser Königeund Päpste, III, Stuttgart 1969,338–358. Per osservazioni critichesi veda Id., Kaiser, Rom und Re-novatio, II, Leipzig, Berlin 1929,105–111.

12 Il verso compare già nel 1033 inuna bolla di Corrado II, cit. daSchramm, Kaiser, Rom und Re-novatio, 1, 203–4 (cfr. MGH).

13 Oggetto di un gran numero distudi, il rinnovamento medievale

del mito di Roma è stato al centrodi una stagione di grande storio-grafia negli anni Venti nel XIXsecolo: basti pensare ai volumiancora validi di Burdach (1926),Schneider (1926), Haskins(1927), Schramm (1929). Fra glistudi recenti sulla renovatio diRoma nella politica di FedericoBarbarossa cfr. Benson (cit. a no-ta 6).

Hospes eras, civem feci. / Advena fuisti ex Transalpinis parti-bus, principem constitui. Quod meum iure fuit, tibi dedi.14

La risposta di Federico prospetta una visione assai diversa dellaromanità dell’Impero: se un tempo Roma è stata grande e maestosa– gli fa dire Otto – oggi essa è ridotta a poca cosa, non ha saputosottrarsi al destino comune a tutte le cose umane. La sua autorità èpassata nelle mani dei Greci e dei Franchi, per finire in quellegermaniche degli imperatori svevi. In essi risiede, ora, »antiquamtuam gloriam«.

Evidente, dunque, che il riferimento a Roma della corte impe-riale sveva fosse diverso da quello maturato a Roma stessa neldecennio repubblicano e sotto l’influsso politico di Arnaldo. Conprobabile sorpresa, gli ambasciatori della città dovettero registrareche fra i dotti prelati formati nelle scuole tedesche il richiamoall’antico esercitava il suo fascino soltanto come richiamo adun’idea astratta,15 non alla realtà concreta incarnata dalla città edalla sua popolazione. La romanità che cercava Federico era unmanto di auctoritas che cingesse le sue spalle germaniche, e servissea sostenere il suo progetto politico di controllo dell’Italia. L’ideadella translatio Imperii, cioè della legittimità storica della sovranitàimperiale germanica, prevaleva su quella della renovatio Imperii,cioè del ritorno all’assetto dell’Impero antico, centrato sull’Italia efortemente legato alla città stessa di Roma. L’Impero svevo di cuiOtto di Frisinga era il principale teorico non poteva che guardarecon sospetto gli esagerati venti di classicità che spiravano in Italia, ediffidava perciò anche di un richiamo troppo ampio al dirittoromano, che poteva andar bene soltanto ove servisse a tutelarequalche specifico interesse imperiale, ma doveva senz’altro cedere ilpasso alla legislazione nuova imposta dall’Imperatore in carica. Lafiera coscienza di Federico della propria dignità e la sua pretesa difar rivivere in sé l’auctoritas dell’antichità non poteva andare agenio ai giuristi italiani, che fondavano la propria scienza e ilproprio ruolo sociale sulla forza ineludibile e insuperabile del testogiustinianeo e non volevano vederlo modificato dalle nuove costi-tuzioni dei sovrani germanici. Questo dissidio – ancora riassumi-bile nell’opposizione tra translatio e renovatio – spiega la freddezzacon cui i glossatori, al di là dell’episodio di Roncaglia sul quale sipotrebbe discutere, accolsero le leggi di Federico.16

Anche le manifestazioni artistiche e letterarie della corte nonsembrano subire il fascino dell’antico fino al punto di rifiutare la

123

Emanuele Conte

Nach

Hau

se

14 Ottonis et Rahewini Gesta Fride-rici I. Imperatoris, ed. G. Waitz,Hannover 1912 (MGH, Script.rerum Germanicarum in usumscholarum), 135–136.

15 Una rassegna dei richiami al dirit-to giustinianeo nella letteraturacronachistica in K. Zeillinger,Kaiseridee, Rom und Rompolitikbei Friedrich I. Barbarossa, in:Bull. dell’Ist. Storico Italiano per ilMedio Evo 96 (1990) 367–419.

16 Qualche osservazione sul tema inE. Conte, Federico I. Barbarossa eil diritto pubblico giustinianeo, in:Bull. dell’Ist. Storico Italiano per ilMedio Evo 96 (1990) 237–259;Id., De iure fisci. Il modello sta-tuale giustinianeo come program-ma dell’Impero svevo nell’opera diRolando da Lucca (1191–1217),in: TRG 69 (2001) 221–244,221–223; Id., »Ego quidemmundi dominus«. Ancora su

Federico Barbarossa e il dirittogiustinianeo, in: Studi sulle societàe le culture del Medioevo per Gi-rolamo Arnaldi, a c. di L. Gatto eP. Supino Martini, Firenze 2002,135–148.

storia recente. La Chronica di Otto di Frisinga indugia sull’an-tichità greca e romana, ma per ricostruire una linea ininterrotta chegiustifica il trasferimento dell’Impero nelle mani di Federico. Piùschietto il gusto per l’antico che traspare, qualche anno prima dellamorte del Barbarossa, dalle opere di Goffredo da Viterbo, unitaliano educato in Germania ma sensibile, evidentemente, allemode antichizzanti della Penisola. Dedicate al giovane Enrico VI,che il Barbarossa gli aveva affidato come allievo, anche le opere diGoffredo denunciano l’obiettivo di tracciare una linea storica chetrasferisca legittimamente il potere imperiale dalle sue originiebraiche e greche, attraverso la serie degli imperatori romani, finoai Franchi e quindi alla casa di Svevia.

Si pongono così le premesse culturali per l’intensificarsi deirichiami alla romanità antica dapprima nel breve regno di Enricostesso, e poi nella grande stagione di Federico II.

Di Enrico si dirà qualcosa più oltre, richiamando l’operagiuridica di Rolando da Lucca. Preme però ora rammentare irilevanti episodi di classicismo che fanno del regno di Federico IIun chiarissimo esempio di uso cosciente dell’antico nel sistema dilegittimazione e di propaganda del potere imperiale.

4. L’Antico e il Medievale nell’età di Federico II

Per la verità la tradizionale esaltazione della figura di Fede-rico II, presentato come l’artefice di uno Stato più illuminista chemedievale, ha suscitato negli ultimi tempi parecchi dubbi, tra iquali particolarmente espliciti quelli di David Abulafia, che hainsistito sulla necessità di riportare indietro al suo tempo la figuradell’Imperatore e Re di Sicilia, che troppi entusiasmi tendevano apresentare come un genio presago di modernità.17 Perciò anche latradizionale convinzione che Federico sia stato il primo principedella storia che abbia formato collezioni di opere d’arte antica18

può esser posta in dubbio. Ma se non si può far di Federico unLorenzo de’ Medici ante litteram, non si può neanche negare cheegli si sia lasciato affascinare dall’antico assai più dell’austero egermanico nonno. È certo, ad esempio, che manifestò curiositàarcheologiche a Ravenna, quando fece scavare il mausoleo di GallaPlacidia e, una volta portati alla luce i sarcofagi della stessa Galla,dell’Imperatore Teodosio e di sant’Eliseo, volle aprire soltantoquello dell’imperatore, che contemplò ornato delle sue insegne.19

124

Archeologia giuridica medievale

Rg

4/2

004

17 D. Abulafia, Frederick II. A Me-dieval Emperor, London 1988, tr.it. Torino 1992, 235–239.

18 A. Esch, Friedrich II. und die An-tike, in: Federico II. Convegnodell’Istituto Storico Germanico diRoma nell’VIII centenario dellenascita, hrsg. von A. Esch eN. Kamp, Tübingen 1996 (Bibl.des DHI Rom, 85) 201–234, 205,ove attribuisce a Ferdinand Gre-gorovius la convinzione che Fe-

derico abbia fondato le primecollezioni di antichità. L’autoritàdel Gregorovius favorì poil’accoglimento generalizzato diquesto giudizio.

19 Cronaca di Tommaso da Pavia,ed. MGH SS XXII, 511–512. Fe-derico non mostrò alcun interesseper il corpo del santo, che invece furiesumato dal vescovo di Ravennasu sollecitazione di S. Bonaventu-ra. Un episodio del suo laicismo?

Da Ravenna fece più tardi inviare in Sicilia un paio di colonne dionice.20

Gli studi di Arnold Esch21 hanno posto in luce diversi aspettidel rapporto di Federico II con l’antico, che traspare dall’uso dispolia, dai tratti classicheggianti della scultura e dell’architettura dicorte, dal rapporto privilegiato che l’Imperatore intrattenne con ilCampidoglio nonostante le relazioni difficili con il papato.

L’atteggiamento sospettoso del Barbarossa nei confronti del-l’idea di renovatio che gli era stata prospettata dai Romani sembrainsomma completamente superato nelle lettere scambiate tra Fede-rico II e il Senato, o nell’episodio significativo dell’invio ai Romanidel carroccio, conquistato dalle truppe imperiali a Cortenuova nel1237. L’imperatore lo volle accompagnare con un monumentoclassicheggiante, costruito in parte con colonne antiche, che dovevamanifestare l’unità indissolubile fra Roma e l’Impero. Proprio quellegame che Arnaldo aveva predicato in funzione antipapale, che ilBarbarossa aveva rifiutato, e che ancora emergerà all’epoca di Colaal tempo del papato avignonese. Sembra, insomma, che il connubiofra Roma e l’Impero sia possibile soltanto contro il Papa o durantela sua assenza dall’Urbe.

D’altra parte, questi episodi pur rilevanti non cancellano ilcarattere sostanzialmente medievale di un sovrano che guardò alclassico e all’antico come si guarda a un patrimonio da cui trarrecitazioni importanti, ma che non possono trasformare la strutturatradizionale del Regno.

È, in fondo, lo stesso atteggiamento che traspare dalla produ-zione monumentale federiciana. Con il loro gotico fitto di richiamiall’antico, taluni celebri monumenti dell’età sveva testimonianodell’apertura del sovrano alla Renovatio che non giunge, però, aprospettare un vero e proprio Rinascimento. Non produce, cioè,quel fenomeno di imitazione dell’antico e di ripudio dell’esteticamedievale che è distintivo dell’arte del Quattrocento.

Nella costruzione giuridica della sua amministrazione Federicousa un metodo non troppo diverso. Come nella Porta di Capua isimboli classicheggianti della maestà imperiale sono inseriti in unmonumento di stile gotico, così nella legislazione di Federicol’ispirazione ai testi romani si coordina con una struttura am-ministrativa costruita sulle solide fondamenta gettate durante ilRegno normanno. Il richiamo alla lex regia de Imperio di LA 1.31,ad esempio, sembra uno di quei capitelli classicheggianti inseriti

125

Emanuele Conte

Nach

Hau

se

20 Esch, 204.21 Oltre a Friedrich II., cit., cfr. anche

Esch, Reimpiego dell’antico nelMedioevo: la prospettiva dell ar-cheologo, la prospettiva dello sto-rico, in: Ideologie e pratiche delreimpiego nell’Alto Medioevo,Spoleto 1999, I, 73–108.

nella struttura gotica di Castel del Monte: ispira l’immagine celebredi »Cesare padre e figlio della giustizia«, che è fatta di suggestioniantiche ma è medievale quanto Giovanni di Salisbury o Pier delleVigne, che ne è probabilmente il poetico ispiratore.

5. Pisa Roma altera

Ma torniamo indietro al secolo del primo Federico per soffer-marci su quell’intreccio affascinante di nuovo e di antico chetroviamo a Pisa, una città che fu schierata dalla parte del Barba-rossa dal 1162, e che non venne meno alla propria fede ghibellinafino al secolo seguente. Ma non furono certo i buoni rapportiintrattenuti con l’Impero svevo a promuovere i richiami pisani allaromanità. Al contrario, la città toscana indulgeva alla rievocazionedell’antico già un secolo prima di Federico, al momento della suaespansione trionfale nei commerci marittimi, della precisazionedelle proprie strutture politiche interne e dei primi trionfi militaricontro i saraceni d’oltremare. Lungo tutto l’XI secolo Pisa èimpegnata in una serie di imprese contro i musulmani in Africa,in Calabria, Sicilia, Sardegna, infine a Maiorca, e il secolo èdisseminato di testimonianze letterarie e figurative di un insistitorichiamo di queste imprese a Roma e alla sua lotta contro icartaginesi. Sono noti da alcuni anni i riferimenti alle guerrepuniche presenti, per tacer d’altro, nel liber Maiorichinus checelebra la vittoria di Maiorca sugli arabi.22

Già alla metà dell’XI secolo questa nuova Roma si raccoglietrionfante intorno alla fabbrica del suo monumentale duomo: unacostruzione strabiliante per l’epoca, che già nelle dimensioni enell’impianto richiamava i grandiosi complessi architettonicidell’antichità.23 Iniziato nel 1064, il duomo è tutto intessuto dielementi antichi: frammenti di iscrizioni marmoree romane sitrovano incastonati nelle pareti a diverse altezze, in posizioni chesembrano piuttosto casuali.24 Lo Scalia s’è chiesto il motivo diqueste inserzioni per una costruzione che, a differenza di talunechiese romane fatte di marmi antichi, poteva ben essere edificatatutta con marmo nuovo, cavato a Carrara, non lontano dalla città,in giacimenti che Pisa controllava. I frammenti antichi inseriti nellemura del tempio pisano non sono dunque trattati come semplicemateriale da costruzione: al contrario, svolgono la funzione dicollegamento esplicito tra la città toscana e l’ornatus di Roma

126

Archeologia giuridica medievale

Rg

4/2

004

22 G. Scalia, »Romanitas« pisanatra XI e XII secolo. Le iscrizioniromane del Duomo e la statua delconsole Rodolfo, in: Studi Medie-vali, s. III, 13 (1972) 791–843;M. Ronzani, ›La nuova Roma‹:Pisa, papato e Impero al tempo diS. Bernardo, in: Momenti di storiamedievale pisana, a c. di O. Bantie C. Violante, Pisa 1991, 61–77.

23 M. Seidel, Dombau, Kreuzzugs-idee und Expansionspolitik. Zur

Ikonograpie der Pisaner Kathe-dralbauten, in: Frühmittelalterli-che Studien 11 (1977) 340–69.

24 A. Peroni, Spolia e architetturanel Duomo di Pisa, in: AntikeSpolien in der Architektur desMittelalters und der Renaissance,hg. von J. Poeschke, München1996, 205–223. Anche: MirabiliaItaliae 3: Il Duomo di Pisa, a c. diA. Peroni, 2 voll., Modena 1995.

imperiale, che Pisa sentiva di far rivivere nei suoi trionfi militari.Insieme ai marmi da inserire nel duomo e ai nomi dei magistrati, ipisani importavano da Roma massicce quantità di sarcofagi antichida destinare a sepolture. Non c’è famiglia rilevante della città chenon avesse provveduto a inumare in un marmo antico, splendida-mente scolpito, i suoi esponenti più autorevoli. Questo fenomenonon ha paralleli in altre città medievali: se qualche singola sepol-tura romana può aver percorso molte miglia per rispondere allavanità di questo o quel sovrano (Federico II volle seppellire la mo-glie Costanza d’Aragona in uno splendido marmo funerario classi-co), Pisa era però di gran lunga l’acquirente più importante disarcofagi romani.25 Il che ha fatto della città toscana un luogo oveerano disponibili molti bei modelli di scultura classica, che influ-enzarono nel Duecento il gotico locale e poi l’arte meridionale, nellaquale, come si è visto, lampeggiano i richiami al modello antico.

Lapidi iscritte e sarcofagi di provenienza romana fanno di Pisa,nuova Roma, un luogo di accumulazione di elementi dell’ornatusdell’Urbe che trasferisce alla città toscana la propria maiestas.26

Negli stessi anni, accanto ai marmi classici accumulati, Pisa rievocareperti di tipo istituzionale: con un certo anticipo rispetto a tutte lealtre città dell’area longobarda, essa si dà magistrature cittadineche assumono la denominazione repubblicana di consules (1080–1085).27

I richiami alla maestà di Roma antica che si rinnova neisuccessi politici, militari e commerciali di Pisa trovano insommaespressione sia nelle celebrazioni poetiche e letterarie, sia nellaquantità di spolia classici che si concentra in città, sia, infine, nellarievocazione di magistrature antiche.

Fra gli spolia materiali portati trionfalmente in città spiccava ilfamoso manoscritto delle Pandette, conservato anch’esso in chiesa,a conferma della fusione tra coscienza laica e devozione religiosache comincia a caratterizzare le società cittadine italiane.

Si voglia o non prestare fede alla leggenda non provata delritrovamento del manoscritto ad Amalfi, forse in uno dei saccheggicompiuti dai pisani nel 1135 e nel 1137,28 resta il fatto che fu Pisa adar notorietà al suo tesoro, che fu conosciuto dai primi glossatoriproprio con il nome della città che lo conservava e venerava. Manon lo copiava: nonostante la sicura presenza di dotti giuristi, dipersonaggi di spicco come Burgundio, di una scuola di dirittoattestata fin dagli anni Venti del XII secolo,29 a Pisa non si

127

Emanuele Conte

Nach

Hau

se

25 S. Settis, Continuità, distanza,conoscenza. Tre usi dell’antico, inMemoria dell’antico nell’arte ita-liana, a c. di S. Settis, III: Dallatradizione all’archeologia, Torino1986, 373–486.

26 Suggestive considerazioni sullafunzione degli spolia dapprima aRoma e poi nei molti centri oveessi rappresentarono Roma nelMedioevo in Y. Thomas, Les or-nements (cit. a nota 8), ripreso e

ampliato da F. Hartog, Régimesd’historicité. Présentisme et expe-riences du temps, Paris 2003,174–185.

27 Scalia, Romanitas, (cit. a nota22) 813–14; E. Mayer, Italieni-sche Verfassungsgeschichte, II,Leipzig 1909, 537–38. La data-zione tradizionale ha suscitatodiscussioni ma resta convincente:cfr. C. Wickham, Legge, pratiche,conflitti. Tribunali e risoluzione

delle dispute nella Toscana del XIIsecolo, Roma 2000, 189 nota 7.

28 Discussione delle fonti in:P. Classen, Burgundio von Pisa.Richter – Gesandter – Übersetzer,Heidelberg 1974, 39–50.

29 J. Doufour, G. Giordanengo,A. Gouron, L’attrat des »leges«.Note sur la lettre d’un moine vic-torin (vers 1124–1127), in: Studiaet Documenta Historiae et Iuris 45(1979) 504–529.

produssero manoscritti del Digesto conformi alla Pisana. Il gran-dioso monumento del diritto giustinianeo, unico testimone direttodella compilazione, svolse piuttosto un ruolo di stimolo a certiatteggiamenti diffusi in città, che già nel 1154 aveva intrapreso laredazione per iscritto delle proprie consuetudini chiamandoleromanamente »nostrum ius civile«,30 e mescolando gli usi medie-vali a revival antichi come quello, celebre perché ammirato già daGiovanni Bassiano, dell’introduzione nella procedura cittadina dialcuni elementi fondamentali del procedimento romano comel’editio actionis e la litis contestatio.31 Oltre a fornire gli originaligreci per le traduzioni di Burgundio, il venerando manoscritto fusfogliato soltanto per controllare talune letture del testo bolognesedella vulgata che ai giuristi apparivano dubbie. Ma a nessunovenne in mente di ricopiarlo tutto e di sostituirlo alla vulgata.

Ci saranno state ragioni pratiche per un simile atteggiamento.Però può esser suggestivo sottolineare qui che in fondo i duevecchissimi volumi conservati in cattedrale dovevano svolgere unruolo non diverso dagli altri spolia di cui erano disseminati ilduomo e la città. Come le iscrizioni incastonate nelle pareti delduomo non erano considerate portatrici di un testo, ma testimonidella romanità di Pisa, così anche gli antichissimi volumi, chedenunciavano in ogni dettaglio la loro provenienza dal cuore dellamaestà giustinianea, erano venerati più per il loro valore simbolicoche per il testo che contenevano. Non inducevano perciò allaricostruzione filologica minuziosa (che pure in qualche caso reseropossibile), ma autorizzavano i Pisani a cimentarsi nella costruzionedi istituzioni in cui l’esigenza presente si intrecciava con il rife-rimento all’antico. Istituzioni che, come più tardi nel Regno fede-riciano, erano strutture medievali nelle quali comparivano abbon-danti citazioni giustinianee.

Così il Constitutum usus di Pisa nuova Roma sfoggia unaconoscenza matura dei meccanismi legislativi che il sovrano bi-zantino aveva precisato, e il Constitutum legis, di poco successivo,inserisce richiami a norme romane nel quadro essenzialmentelongobardo delle leggi che la città considera vigenti.32 Le inserzionidi diritto romano nel complesso medievale della legislazionecittadina sembrano insomma quelle figure classicheggianti inseritenel pulpito di Nicola Pisano, o inquadrate qualche decennio primanella struttura gotica della Porta di Capua: richiami al grandeesempio classico inquadrati però in una cornice medievale.

128

Archeologia giuridica medievale

Rg

4/2

004

30 Storti Storchi, Intorno ai Co-stituti pisani della legge e dell’uso(secolo XII), Napoli 1998 (Qua-derni GISEM 11) 10–11 e nota 34.

31 Ivi, 5–6, con indicazioni biblio-grafiche.

32 L’impianto longobardistico è ri-chiamato da Wickham, Legge,pratiche, conflitti, cit., 198 sullabase di Storti Storchi, (cit. anota 30) 44–55.

Non credo, però, che i richiami a Roma volessero compiacerel’Impero. Intorno al 1160 Federico Barbarossa si sentiva certa-mente ancora più germanico che romano, sperava sì di sfruttare lacultura dei giuristi per tutelare le proprie pretese, ma non sentivaancora il diritto giustinianeo come il proprio. Piuttosto Pisa,»Roma altera«, sfoggia un atteggiamento non diverso da quellodegli ambasciatori della Roma di Arnaldo da Brescia: cerca cioèlegittimazione alla propria autonomia politica nell’autorità del-l’antico, che emana dalle spoglie romane di cui la città è dissemi-nata, e si riverbera sul suo ordinamento e sulle sue magistrature:legittime perché convalidate dallo spirito immortale dell’auctoritasromana.33

Questa funzione legittimante del testo giustinianeo può rile-varsi anche dalla testimonianza più esplicita che si abbia dellaconoscenza ampia e dell’uso intensivo che si faceva in pratica deldiritto romano a Pisa. Lo straordinario documento del 1155 editoda Peter Classen34 rappresenta, come si sa, una tappa di unacontroversia che oppose per un paio di secoli i canonici dellacattedrale ai monaci di S. Rossore.35 Si trattava, come assaisovente in quegli anni, di questioni di pertinenza di terre, nellequali le parti confrontavano documenti di concessione ottenuti dapapi e imperatori e allegavano il possesso quarantennale comecausa costitutiva di un diritto di proprietà. Precoce per i tempi è lalimpida distinzione del procedimento in possessorio e petitorio e –come sottolineato già dallo stesso Classen – la grande quantità dicitazioni dotte, tratte dal Corpus Iuris Civilis, nonché da unaraccolta canonistica che potrebbe anche essere già il Decretum.Può lasciar sorpresi, allora, rilevare che per quel che riguarda ilDigesto il venerando manoscritto delle Pandette non sia statoscomodato per servire alla pratica: le citazioni seguono piuttostoil testo della Vulgata. Sul tavolo del compilatore della dottaconsulenza doveva esserci insomma un Digesto completo36 diversodal manoscritto antichissimo conservato in città e conforme piut-tosto alla versione bolognese. E accanto ad esso c’era un Codice,già corredato delle Autenticae, che la tradizione ha sempre attri-buito a Irnerio e certamente sono un prodotto bolognese. Proba-bilmente c’era anche il Decreto di Graziano, come suggerisceClassen, anche se i canoni citati potevano provenire anche daqualche altra compilazione, che nel 1155 circolava ancora ampia-mente nonostante la fortuna bolognese del Decretum.

129

Emanuele Conte

Nach

Hau

se

33 Sembra questa l’interpretazionedata da C. Storti Storchi, 14 epassim, alla politica legislativa diPisa nel XII secolo, quando lepretese di recupero delle regalie diFederico indussero la potente eautonoma città toscana a cercarelegittimità per il proprio ordina-mento nel richiamo all’antichitàromana.

34 P. Classen, Studium und Gesell-schaft im Mittelalter, hg. von

J. Fried, Stuttgart 1983 (Schriftender MGH, 29) 103–125.

35 Ricostruzione della controversiain Wickham, Legge (cit. a nota27) 242–252, anche sulla base diuno studio del Ronzani sui prece-denti di essa.

36 Contrariamente a quanto asserisceClassen (cit. a nota 34) 102, an-che l’Infortiatum compare fra lecitazioni.

Della provenienza dalla raccolta di Graziano non si può esserecerti a causa del particolare sistema di citazione adottato dall’igno-to consulente pisano, che non rimanda alla compilazione da cuiogni frammento è tratto. Se infatti egli disponeva di una piccolabiblioteca giuridica »bolognese«, tuttavia la sua cultura denotacaratteristiche diverse da quelle di Bologna, e lo stile della suaconsulenza giuridica appare originale e distante dagli atti dellapratica padana coevi o successivi.

A parte il fatto, peraltro rilevante, che la consulenza proces-suale è composta in forma dialogica,37 la sua peculiarità, osservatagià dal Classen, è la presenza amplissima di citazioni che, adifferenza dello stile conciso per titolo e incipit adottato dai maestribolognesi, riportano il testo originale dell’autorità invocata: »tes-tante Paulo iurisperitissimo, iuste possidet qui auctore praetorepossidet« (D. 41.2.11), oppure: »Sin autem abbas dicat ipsoscanonicos non esse ob hoc deiectos … audiat Ulpianus, qui ait …«(e segue D. 43.16.1.22). Il testo risulta dunque una sorta dicomposizione a mosaico, che giustappone brani distinti delle auto-rità antiche per comporre una difesa dei diritti dei monaci.

Nonostante l’uso vivo e frequente dell’ »edizione bolognese«delle fonti giuridiche romane, Pisa sembra insomma ancora legataa un rapporto concreto con le parole del testo, che devono esseretutte trascritte nell’atto giudiziario per essere efficaci. Sembra quasidi riconoscere in questa pratica della citazione per esteso la stessamentalità che trova nell’esibizione di spolia antichi la viva presenzadella maestà di Roma antica. Negli stessi anni, a Bologna, si eraconsolidato un sistema di citazione più asciutto, che incoraggiavaun uso più tecnico dei libri legali. E presupponeva una circolazioneampia di testi standardizzati nei quali ognuno potesse riscontrare lecitazioni fortemente abbreviate tipiche dei maestri dell’alma mater.A Bologna, infatti, il Digesto non si conservava in chiesa e non sicitava alla lettera, ma si produceva in serie per le esigenze didat-tiche e si citava indicando semplicemente la posizione dei fram-menti nel testo canonizzato per mezzo del titolo e dell’incipit. È unatteggiamento diverso, che non tratta il testo come spolium, ma loprepara per essere trasformato in ratio astratta.38

È questo l’aspetto della cultura giuridica medievale che lastoriografia ha sempre sottolineato: la funzione creativa dei giuristimedievali sarebbe stata proprio quella di sminuzzare la grandiosacostruzione giustinianea astraendone i frammenti dal loro contesto

130

Archeologia giuridica medievale

Rg

4/2

004

37 Sull’uso della forma dialogica inopere di scuole minori cfr. Cor-tese, Il Rinascimento giuridicomedievale, sec. ed., Roma 1996,35–37.

38 Un raffronto fra i diversi atteggia-menti di Pisa e Bologna di fronte aldiritto romano anche in Wick-ham, Legge (cit. a nota 27) 205:»Si potrebbe dire che i Bolognesivolevano solo studiare gli antichiRomani, i Pisani volevano essere

gli antichi Romani.« Per la veritàle differenze fra i due modelli misembrano più articolate.

storico, per costruire istituti nuovi con i materiali così ottenuti. Mase questo è vero per Bologna, lo è molto meno per certi centri minoriin cui la mentalità tradizionale dello spolium restò viva e si tradussein una attenzione quasi archeologica per il diritto giustinianeo.

6. La mentalità dei giuristi bolognesiinsensibili al fascino degli spolia

La propensione di Bologna per l’analisi seccamente tecnicadelle fonti allontanava insomma il giurista dalla venerazionedell’antico, così come lo induceva a diffidare della cultura gram-maticale e delle citazioni letterarie. A Bologna il rispetto per laforma originale dei testi giustinianei dura soltanto quanto basta aricostruire il volto originale del Corpus Iuris, durante i decenni difebbrile ricerca delle fonti: il reperimento delle tre parti in cui èdivisa la vulgata del Digesto, la ricostruzione minuziosa del Codicee dei Tres Libri a partire dalla tradizione frammentaria delleepitomi, la ricerca e la critica della versione latina delle Novelleche va sotto il nome di Authenticum impegnarono Irnerio e i suoiallievi in un’opera che a ragione è stata definita »filologica«. Ma sitratta di una filologia destinata a lasciare il passo a un uso assaimeno rispettoso del testo: inscriptiones mutilate per facilitare ilriconoscimento dell’incipit, Novelle dell’authenticum tranquil-lamente tralasciate nella versione corrente in nove collationes,riassunti delle stesse Novelle inseriti nel Codex. Fino a giungere,in pieno Duecento, alla disinvolta inserzione fra le pagine del sacroCorpus di Giustiniano del volgare compendio di consuetudinifeudali milanesi apprestato dal giudice Oberto dell’Orto. È un’o-perazione che sarebbe stata impensabile negli anni pionieristicidella riscoperta dei testi giustinianei, quando i civilisti di Bolognaprofessavano rispetto assoluto per la purezza del testo che avevanoricostruito e si mostravano insofferenti verso qualsiasi turbamentodelle loro fonti tardo antiche, quando ignoravano le costituzioniimperiali degli Svevi o irridevano al diritto longobardo e al cano-nico.

Fu un atteggiamento, quello dei primi maestri bolognesi, cheHermann Kantorowicz chiamò per primo »filologico«, antici-pando all’epoca di Irnerio una sensibilità che si usa ricollegareall’umanesimo quattrocentesco.39 Ma se è vero che questo rispettoper il testo originale caratterizzò i primissimi decenni dell’attività

131

Emanuele Conte

Nach

Hau

se

39 H. Kantorowicz, Max Conrat(Cohn) und die mediävistischeForschung, ZRG RA 33 (1912)417–73, 440–41. L’idea di consi-derare i glossatori umanisti antelitteram fu poi ripresa in un saggiodi Calasso, Umanesimo giuridico(1949), ora in: Id., Introduzione aldiritto comune, Milano 1951,181–205. Di »filologia« di Irnerioha parlato ancora E. Cortese,

Il rinascimento giuridico medie-vale, sec. ed., Roma 1996, 21–28.

dei maestri, è vero anche che alla metà del Duecento, all’epoca diAccursio, non è più l’autorità di Giustiniano che dà vigore alle leggiromane, bensì il fatto stesso che quelle leggi sono contenute nei libricanonizzati dalla scuola, corredati dalla glossa e interpretabilisoltanto da parte di giuristi iniziati alla scienza. La scuola bolo-gnese matura, insomma, non trae più legittimità dall’auctoritasdell’antico, e tratta le fonti come un deposito di razionalità che sigiustifica da sé, anche svincolata dalla memoria storica dell’or-ganismo politico che aveva creato quella legislazione. Dilaga allorafra i giuristi quella trascuratezza culturale che qualche decennio piùtardi sarà loro rimproverata dagli umanisti: non distinguevano piùfra norme di periodi diversi, ignoravano se Giustiniano fossevissuto prima o dopo Cristo, denotavano una cultura del tuttoapprossimativa, perché non la storia, ma la scuola legittimava iloro testi.40

Questa tendenza comincia a manifestarsi abbastanza presto, esi consolida intorno al 1200 con l’insegnamento di Azzone, alquale si deve una presa di posizione esplicita contro l’indulgenzaalla cultura letteraria tipica di altre scuole in cui ci si attardava –appunto – a citare poeti e retori, si sfoggiava una certa conoscenzadel greco, e si conservava insomma un atteggiamento curioso versoil mondo antico che traspare dalle fonti giuridiche.41 Azzone,invece, rifiutava ad esempio di occuparsi degli ultimi tre libri delCodice perché in essi »vi sono molte parole che non si comprendo-no«.42 si riferiva alle magistrature bizantine con la loro esoticaterminologia, che non esercitavano alcun fascino sul maestro diAccursio.

7. I Tres Libri e Rolando

Mentre a Bologna l’insegnamento di Azzone formava decine dicivilisti e canonisti destinati a dominare la scena del Duecento, nonlontano da Pisa si assiste a un rilevante esempio di sintesi fra leinevitabili mode bolognesi e il vecchio rispetto per l’antichitàdispensatrice di auctoritas. Il giudice Rolando, dottissimo conosci-tore del Corpus iuris civilis e rispettoso ammiratore dei grandimaestri civilisti, compone a più riprese, fra il 1194 e l’inizio delDuecento la più ampia Summa ai Tres Libri che il Medioevo abbiaprodotto.43 Una certa sensazione di inferiorità di fronte a maestricome Piacentino e Pillio lo inducono ad abbondare oltre misura

132

Archeologia giuridica medievale

Rg

4/2

004

40 Cfr. Calasso, Medioevo del dirit-to, Milano 1954, 524–525. Ilgiudizio di Calasso sulla culturadel XII secolo è per molti aspettitroppo severo e privo di sfumatu-re: può invece applicarsi ai glos-satori civilisti del XIII secolo.

41 Di una »svolta azzoniana«, nelsenso di una rottura con il mondodelle arti liberali e della gramma-tica, ha parlato E. Cortese,Legisti, feudisti e canonisti. Laformazione di un ceto medievale,in: Università e società nei secoliXII – XVI, Pistoia 1983, 195–281,222, poi rifuso con profonde mo-difiche in: Id., Il rinascimento

giuridico medievale, sec. ed., Ro-ma 1996, 39–42, dove però lascelta di Azzone non è più quali-ficata di »svolta«, ma non perquesto risulta meno importante.

42 Cfr. Conte, Tres Libri Codicis.La ricomparsa del testo e l’esegesiscolastica prima di Accursio,Frankfurt am Main 1990 (IusCommune Sonderhefte, 46) 81.

43 Bibliografia completa sulla figurae l’opera di Rolando da Lucca in:

Conte, I diversi volti di un testodel XII secolo. La Summa di ungiudice fra aule universitarie e tri-bunali, in: Juristische Buchpro-duktion im Mittelalter, a cura diV. Colli, Frankfurt am Main2002 (Studien zur EuropäischenRechtsgeschichte, 155), da inte-grare con i contributi di S. Ma-grini e V. Longo e di F. Theisennello stesso volume.

nelle citazioni del diritto giustinianeo che conferiscono un aspettocertamente scolastico alla sua opera, che a prima vista non sembradiversa dalle summae composte da Azzone a Bologna negli stessianni. Eppure tra le pieghe del discorso si scorge chiaramente lavecchia passione per l’antico, la cura del particolare erudito, l’ansiaper la ricostruzione del mondo istituzionale che doveva rinascere,negli auspici dell’autore, con l’Impero rinnovato di Enrico VI.

È questa caratteristica dell’opera di Rolando che mi ha spinto aparlare, altrove, di una sua passione antiquaria che fa pensare allefebbri archeologiche dei Romani, dei Pisani, di Federico II: conpassione diversa da quella dei giuristi bolognesi suoi contempora-nei Rolando cita Cicerone e Vegezio, consulta elenchi cronologicidegli imperatori, ricostruisce l’identità di un prefetto, lega insiemenorme diverse promulgate dagli stessi imperatori, formula ipotesisull’origine dell’indizione quindicennale, recupera novelle giusti-nianee escluse dalla vulgata bolognese, prova addirittura a rico-struire il contenuto di leggi greche che non ha.

Il testo dei suoi Tres Libri è dunque per Rolando la testimo-nianza preziosa di un passato grandioso, e non soltanto un testodenso di razionalità da interpretare. Anzi, il valore del testo staproprio nel suo rispecchiare l’organizzazione del grande Imperoromano che i lucchesi – alleati dell’Imperatore e da lui gratificati diprivilegi – vorrebbero veder rinascere con i successi politici diEnrico VI. Incoronato a Palermo in stile bizantino, il figlio predi-letto di Federico Barbarossa sembrava davvero un imperatoreromano: e mentre Goffredo da Viterbo, canonico di Lucca, loesalta come nuovo Cesare, il giudice lucchese Rolando gli dedica lasua opera tra l’erudito e il pratico.44 Vorrebbe indurlo ad adottareun sistema di governo legalitario, che ponga le città a lui fedeli alriparo dalla prepotenza dei signori feudali, e gli prospetta lagrandezza dell’amministrazione basso imperiale come un modelloda imitare.

La continuità tra il tardo Impero romano e il nuovo Imperosvevo, che costituisce la base della proposta politica elaboratada Goffredo da Viterbo per Enrico VI, si precisa politicamentenell’analisi dell’amministrazione giustinianea presentata da Rolan-do al suo imperatore. Vi troviamo, fra l’altro, un modello per laregolazione dei difficili rapporti fra potere imperiale e autonomiecittadine, soprattutto sul piano fiscale, che era quello che stavamaggiormente a cuore a entrambe le parti.

133

Emanuele Conte

Nach

Hau

se

44 Per i rapporti tra l’Impero di En-rico e Lucca cfr. Conte, De iurefisci, (cit. a nota 16) 224–228.

Benché la disciplina amministrativa giustinianea fosse statacodificata nei Tres Libri quando ormai l’unità dell’Impero erairrimediabilmente perduta, il disegno delle magistrature e degliuffici contenuto nel Codice può ancora suggerire un modello diunità amministrativa alla fine del XII secolo. E l’orgoglioso giudicelucchese può presentare di fronte agli occhi del suo sovranol’immagine accattivante di un Impero ampio e tollerante delleautonomie che vivono al suo interno, forte della propria funzioneunificante: l’immagine di Roma »communis nostra patria«, trattadal Digesto,45 ma filtrata da una interpretazione funzionale allapolitica di equilibrio fra autonomie locali e potere centrale checaratterizza la proposta di Rolando.

»Communis Patria« non indica dunque soltanto appartenenzae cittadinanza, ma anche rapporto giurisdizionale: »communispatria et commune forum« aveva precisato Pillio da Medicina;gli fa eco Rolando,46 che amplia il discorso qualificando Roma diforum generale, di legum origo e di apex summi Pontificatus.E rilevando che è in Roma che si riconosce la libertà di ognuno:

Set et cum vetus Roma legum originem et summi pontificatusapicem sortita est et forum generale firmum ut ff. e. l. Roma(D. 50.1.33), cum sit caput mundi ut C. de veteri iur. e.(C. 1.17.1.10) et per eam vocamus omnes qui sumus libericives Romani, ut instit. de nupt. in princ. (Inst. 1.10 in princ.),instit. de patria potestate § ius aut. (Inst. 1.9.2) et ut quismanumittitur civis romanus dicitur …47

Accogliendo Pillio, Rolando accoglie probabilmente una eco –forse mediata – della visione poetica che di Roma aveva avuto,sul finire del Quarto secolo, Aurelio Prudenzio, poeta cristiano cheraccoglie nel giro di pochi versi sia il richiamo alla patria comunedi tutte le genti sia l’evocazione dell’unità giuridica imposta dalcommune forum romano e dal ius commune che affratella lepopolazioni tanto lontane e diverse che costituiscono l’Impero.48

Prudenzio esprimeva poeticamente quell’aspirazione all’unitàideale della cristianità nel quadro istituzionale dell’Impero che erastata affermata già da Ambrogio e che un secolo dopo di lui sarebbestata ancora visibile nell’ordinamento del Regno Visigotico, cheappunto coordinava le norme vigenti per le popolazioni locali con ilquadro ampio del diritto romano, patria comune dei popoli diversiche lo componevano, anche al di là della crisi costituita dal crollodell’Impero d’occidente. Ancora all’inizio del sesto secolo il re

134

Archeologia giuridica medievale

Rg

4/2

004

45 Dei tre luoghi del Digesto in cuicompare l’espressione soltantodue erano disponibili nella versio-ne vulgata. Il brano di Modestinoin D. 27.1.6.11, greco nell’origi-nale, si trova attribuito a Ulpianoe tradotto da Burgundio comeD. 27.1.7, mentre D. 48.22.18 sitrova in una lacuna sia della Fio-rentina sia della Vulgata, ed è ri-costruito nell’attuale edizione sullabase della versione greca dei Basi-lici. Rolando comunque trae spun-to solo dalla rapidissima frase diModestino accolta in D. 50.1.33.Fondamentale per l’interpretazio-ne della formula nel mondo ro-mano Y. Thomas, Origine et com-mune patrie. Étude de droit publicromain (89 av. J. C. – 212 ap. J. C.),Roma 1996 (Collection de l’ÉcoleFrançaise de Rome, 221).

46 Rolando accoglie nella sua Summanumerosissimi brani della coevaSumma Trium Librorum incom-piuta composta a Modena da Pil-lio: cfr. Conte, I diversi volti, cit.

47 Rolandi Summa Trium Librorum,in C. 10.39 de municipibus et ori-ginariis. Edizione in corso a curadi E. Conte e S. Menzinger.

48 Prudentius, Contra Symmacum,Liber II, vv. 602–618, ed.M. P. Cunningham, in: CorpusChristianorum, 126, Turnhout1966, 232:

Hanc frenaturus rabiem Deus un-dique gentes / inclinare caput do-cuit sub legibus hisdem / Roma-nosque omnes fieri quos Rhenus etHister / quos Tagus aurifluus quosmagnus inundat Hiberus / cornigerHesperidum quos interlabitur etquos / Ganges alit tepidique lavantseptem ostia Nili. / Ius fecit com-mune pares et nomine eodem / ne-xuit et domitos fraterna in vinclaredegit. / Vivitur omnigenis in par-

tibus haud secus ac si / cives con-genitos concludat moenibus unis /urbs patria atque omnes lare con-ciliemur avito. / Distantes regioneplagae divisaque ponto / litoraconveniunt nunc per vadimonia adunum / et commune forum, nuncper commercia et artes / ad coetumcelebrem, nunc per genialia ful-cra / externi ad ius conubii; namsanguine mixto / texitur alternis exgentibus una propago.

burgundo Sigismondo, figlio del legislatore Gundobado, potevascrivere all’Imperatore d’Oriente Anastasio riconoscendo la suasovranità superiore: »Il mio popolo è tuo. E’ per me una gioiamaggiore servire Te che governare i miei sudditi … Tu amministri ituoi sudditi attraverso di me. La mia patria è il tuo mondo.«49

»Patria nostra est orbis vester«, aveva detto Sigismondo, eRolando non fa che tradurre nel linguaggio tecnico del suo tempoun’aspirazione che aveva tradizioni antiche e profonde: e il suoimperatore Enrico poteva forse scorgere, dietro le sue parole,l’insegnamento tradizionale che attraverso le scuole ecclesiasticheaveva tramandato fino al rinascimento del XII secolo il motivotardo antico e cristiano della reductio ad unum.50

Ma le suggestioni dell’antico non si arrestano al livello dellapolitica alta. La pratica lucchese, ad esempio, rivela che Rolandonon esitava a mettere in pratica le sue idee nell’attività giudiziaria,e che l’espressione »civis romanus« stava in effetti a indicarel’uomo libero. Proprio Rolando in persona, qualche anno primadi dedicare la sua summa a Enrico VI, era stato arbitro in unacontroversia fra il vescovo di Lucca e un gruppo di contadini, cheegli dichiara di condizione libera, per l’appunto »liberi homines etcives Romanos«.51

Questi »cives romani« di Lucca sono soggetti alla giurisdizionecittadina, esercitata in forza di un privilegio concesso nel 1186proprio da Enrico VI, ma sottostanno anche alla sovranità supe-riore dell’Imperatore (e del pontefice per le materie spirituali) e diconseguenza alla sua giurisdizione. Roma »commune forum« nonè dunque la città materiale, il luogo fisico, ma una finzione ideale:Roma communis patria et commune forum è ogni luogo in cuil’Imperatore offre un grado superiore di giurisdizione e in cui eglistabilisce il diritto comune. Ed è l’autorità suprema che dà legitti-mità all’ordinamento giustinianeo.

8. Una conclusione

Cos’è dunque il riferimento a Roma che percorre l’Italia nel»lungo« XII secolo, e che prepara per molti versi i successiviriferimenti che caratterizzeranno la febbre umanistica del XIV eXV secolo?

È un richiamo vario: per certi aspetti sono le spoglie fisiche,tangibili dell’antichità che inducono a riesumare monumenti e stili,

135

Emanuele Conte

Nach

Hau

se

49 La citazione della lettera del reSigismondo si trova fra le lettere diAvito di Viennes: Vester quidemest populus meus, et plus me ser-vire vobis quam illi praeesse de-lectat … Cumque gentem nostramvideamur regere, non aliud nosquam milites vestros credimus …Per nos administratis remotarumspatia regionum, patria nostravester orbis est, tangit Galliam,Scytiam lumen Orientis et radius,

qui illis partibus oriri creditur, hicrefulgiet, in: Alcimi Ecdicii AvitiViennensis episcopi Opera quaesupersunt, ed. R. Peiper, MGHAA 6.2, Berlin 1883, 100.

50 È un concetto caro a FrancescoCalasso: cfr. Medioevo del diritto(cit. a nota 40) 371–372; rielabo-rato con profonde novità da EnnioCortese, che ne ha sottolineato leorigini piuttosto tardoantiche edaltomedievali che scolastiche: cfr.

Cortese, Il diritto nella storiamedievale, Roma 1995, I, 63–68,236–238; Id., Agli albori del con-cetto di diritto comune in Italia(sec. XII – XIII), in: El Dret comú iCatalunya (congr. 1998), Barcelo-na 1999, 173–195.

51 Raffaele Savigni, Episcopato esocietà cittadina a Lucca da An-selmo II († 1086) a Roberto(† 1225), Lucca 1996, 200–201nt. 78: documento del 16 luglio1192.

a recuperare istituzioni venerande come il Senato, a rilanciarel’Antico come inesauribile fonte di auctoritas; per altri è invece ilmito astratto che affascina le coscienze; in altri casi, e in particolareper i giuristi bolognesi, l’autorità romana si concentra nel testo delCorpus iuris che, ricostruito con amore filologico all’inizio, sitrasforma ben presto in un testo puramente razionale, svincolatodalla sua storia.

È questa funzione tecnica del testo che la storiografia giuridicatedesca e italiana ha sempre sottolineato: dall’idea di Savigny di undiritto medievale come Professorenrecht, fino alle recentissimericostruzioni della scienza giuridica medievale in termini di »ricercadi validità« per istituti di origine consuetudinaria, il grande feno-meno del Rinascimento giuridico medievale è stato descritto comela nascita di una grande scienza del testo.

Ma insieme, al di sotto dell’abbagliante dottrina bolognese,esistevano richiami a Roma che conservavano l’ottica della raccol-ta di spolia: magistrature bizantine incastonate come reperti isti-tuzionali in architetture medievali, richiami all’Impero romano permodellare non soltanto l’Impero medievale, ma anche il governoautonomo delle città e il rapporto legalitario fra poteri del Principee diritti dei sudditi.

È all’interno di questo filone »pubblicistico« che nasce e sicoltiva l’attenzione all’archeologia giuridica che non rinuncia avalutare il legame fra gli istituti e la storia. Mentre la grande scienzabolognese si concentra piuttosto sul diritto che oggi chiamiamo»privato«, il legame fra storia e diritto si conserva nei non moltigiuristi che si occupano di diritto pubblico: sono spesso funzionarie magistrati più che professori in cattedra; sono legati talvolta acentri di potere come Napoli o Parigi; sono in certi casi letteratiinteressati al diritto, come Dante e Petrarca, o giuristi interessatialla letteratura, come Luca da Penne o Giovanni da Legnano.

Tra questi attori di un persistente richiamo a Roma antica,repubblicana o imperiale, compariranno infine, tra Tre e Quattro-cento, i protagonisti dell’umanesimo. Quando i fili tessuti fin dalpieno XII secolo convergono nel richiamo retorico ma efficace aRoma come modello di un rinnovamento radicale della cultura edella società europea.

Emanuele Conte

136

Archeologia giuridica medievale

Rg

4/2

004