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CREPUSCOLO DEGLI IDOLI o Come si filosofa col martello 1888

Friedrich Nietzsche - Crepuscolo Degli Idoli

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CREPUSCOLO DEGLI IDOLIoCome si filosofa col martello1888

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CREPUSCOLO DEGLI IDOLI o

Come si filosofa col martello

1888

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Traduzione condotta sull'originale tedesco «Gotzen-Dàmmerung oder Wie man mit dem Hammer philosophirt», in Nietzsche Werke, Kritische Gesamtausgabe, Herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, vi, 3. Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1969. Traduzione di Mirella Ulivieri

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* Introduzione

Nella sua periodizzazione degli scritti nietzscheani, fondata sulla centra­lità ermeneutica dello Zarathustra e sul principio costruttivistico delle tre metamorfosi della soggettività e della volontà, Lowith pone Gòtzen-Dàm-merung (Crepuscolo degli idoli)* nel terzo e ultimo periodo, la Umwer-thungszeit, l'epoca della trasvalutazione di tutti i valori, che comprende, oltre allo Zarathustra (1883-1885), Jenseits von Gut und Bòse (Al di là del bene e del male) (1886), Zur Genealogie der Moral (La genealogia della morale) (1887), e tutti gli scritti dell'88, Der Antichrist, Ecce homo, Nietz­sche contra Wagner1.

La collocazione lòwithiana, benché sia suscettibile di critica, secondo una prospettiva di ricerca, e di interpretazione di Nietzsche, non globale e totalizzante, ma frammentaria e tematica, orientata dal modello ermeneu­tico della genealogia e soprattutto attenta alla ricezione dell'immenso ma­teriale postumo, tuttavia ci consente di evidenziare subito il rapporto che lega Gótzen-Dàmmerung al progetto e al metodo della trasvalutazione. Questo rapporto di dipendenza, di derivazione o di coappartenenza genea­logica costituisce il nodo problematico preliminare da sciogliere per una in­terpretazione dell'ultimo Nietzsche, e più precisamente per una lettura de­gli scritti nietzscheani dell'88, considerati in quanto «compiuti» nella loro autonomia e differenza dalla Volontà di potenza.

Der Wille zur Macht (La volontà di potenza) non è un'opera incompiu­ta, né un 'opera postuma: è semplicemente un 'opera progettata, un proget­to, un piano di lavoro e di ricerca, un 'opera non realizzata, ma soltanto preparata.

Il problema critico del Wille zur Macht, non soltanto dal punto di vista filologico, ma complessivamente dal punto di vista interpretativo, ha una sua storia che va dalle due compilazioni del 1901 e 1906, ad opera di Elisa­beth Forster Nietzsche e Peter Gast, all'edizione del 1956 dello Schlechta

* Codice delle sigle delle opere di Nietzsche usate nelle note: KGA Werke. Kriiische Cesamtausgabe, hrsg. von G. Colli und M. Montinari, Berlin, De

Gruyter, 1967 ff. OFN Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Milano,

Adelphi, 1964 ss. UT Umano, troppo umano, in F.W. Nietzsche, Opere 1870-1881, Roma, Newton Comp-

ton, 1993. ZA Così parlò Zarathustra, in questo voi. ABMAl di là del bene e del male, in questo voi. CI Crepuscolo degli idoli, in questo voi. EH Ecce homo, in questo voi. NF1 Nachgelassene Fragmente Herbst 1884 - Herbst 1885. NF2 Nachgelassene Fragmente Herbst 1885 - Herbst 1887. NF3 Nachgelassene Fragmente A nfang 1888 bis A nfang Januar 1889. FP Frammenti postumi 1884-1885.

K. Lowith, Nietzsches Philosophie der ewigen Wìederkehr des Gleichen, Berlin, 1935.

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— in special modo il Nachbericht2, all'edizione critica di Colli e Montinari* con cui il problema del Wille zur Macht come opera nietzscheana sembra definitivamente risolto attraverso la pubblicazione di tutto il materiale po­stumo secondo la lettera cronologica. Questa edizione ha segnato in defini­tiva la scomparsa di un'opera dal titolo Der Wille zur Macht, proponendo alla critica il grave compito di distruggere una tradizione interpretativa fondata su quel «testo» e di riconsiderare alta luce di una omologazione di tutti i frammenti postumi il problema filosofico della volontà di potenza come metafisica nietzscheana o sistema.

Allora il problema posto del rapporto fra Gòtzen-Dàmmerung e Der Wille zur Macht va riesposto come problema del rapporto del Crepuscolo degli idoli da un lato con il materiale postumo del periodo 1885-1888 e dal­l'altro con la volontà di potenza come compimento tematico della filosofia nietzscheana, come dottrina. Tuttavia prima di seguire le linee esegetiche che si originano dall'individuazione di questi rapporti, ci sembra opportu­no mostrare il significato critico della volontà di potenza come tratto di­stintivo del pensiero di Nietzsche e progetto letterario non realizzato.

La dottrina della volontà di potenza, la cui forma prototipica — dalle ri­flessioni del 1880 sul «senso di potenza» in Morgenròte (Aurora) e nei frammenti postumi di quel periodo — si trova nel paragrafo « Von der Selbst-Uberwindung (Della vittoria su se stessi)» della seconda parte di Al-so sprach Zarathustra4, si può considerare con Colli /'espressione essoteri­ca del pensiero nietzscheano, la necessità del sistema, della metafisica.

La prima formulazione della dottrina della volontà di potenza è la teoria del prospettivismo, secondo la quale ogni valore, ogni valutazione è ricon­dotto a una comune sostanza interpretativa. Nella prefazione del 1886 a Menschliches, Allzumenschliches fumano, troppo umano,/ il concetto di prospettiva appare inequivocabilmente come la condizione dell'interpreta­re e dell'esistere, come un trascendentale e un esistenziale:

Dovevi acquistar potere sui tuoi prò e contro, e imparare a innestarli e disinnestarli a secon­da del tuo scopo superiore. Dovevi imparare a capire quanto c'è di prospettico in ogni defini­zione di valore — Io spostamento, la distorsione, e l'apparente teleologia degli orizzonti e quanto altro fa parte del prospettico; e anche quel tanto di stupidità che si riferisce a ogni contrapposizione di valori, e tutto lo scapito intellettuale con cui si paga ogni prò e ogni con­tro. Dovevi imparare a capire la necessaria ingiustizia insita in ogni prò e contro, l'ingiustizia come elemento inscindibile della vita, e la vita stessa come condizionata dalla visione prospet­tica, e dalla sua ingiustizia. Dovevi soprattutto vedere con i tuoi occhi dove l'ingiustizia rag­giunge il massimo grado; ossia là, dove la vita è meno sviluppata, più angusta, manchevole, rozza, e ciononostante non può fare a meno di porsi a scopo e misura delle cose (...J dovevi vedere con i tuoi occhi il problema della gerarchia, e come la forza, il diritto e l'ampiezza del­la prospettiva si sviluppino insieme5.

Il prospettivismo è in realtà una riedizione post-soggettivistica della teo­ria della rappresentazione di Schopenhauer che, in qualche modo, offre la base metafisica per un travestimento «metafisico» del pensiero nietzschea­no, giunto con lo Zarathustra e Jenseits von Gut und Bòse alla sua massi­ma espressione. Questa riedizione trasvaluta, trasforma la volontà scho-penhaueriana nella volontà di interpretazione, nel Wille zum Schaffen (vo-

2 F. Nietzsche, Werke in drei Banden, hrsg. von K. Schlechta, Munchen, 1956. 3 OFN. 4 «Solo dove c'è vita c'è anche volontà: ma non volontà di vita, bensì — così t'insegno —

volontà di potenza! Molte cose per l'essere vivente valgono più della vita; ma nel valutare stesso si manifesta

— la volontà di potenza!». Za, p. 93 (KGA vi 1, p. 145). 5 UT, p. 518 (KGA iv 2, pp. 14-15).

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lontà di creare); il prospettivismo è alla fine la trascrizione di un materiali­smo distruttivo ed enigmatico.

La riduzione della «rappresentazione» schopenhaueriana a «giudizio» — «L'uomo è soprattutto un animale giudicante» — è possibile grazie alla critica del soggetto: il soggetto «è riportato allo sdoppiamento primitivo tra il fare e l'agente. E la volontà di vivere risulta superata dalla volontà di potenza, solo quando si consideri come caratteristica discriminante di que­st'ultima il concetto di «ostacolo», inteso come presupposto, indizio, occa­sione vitale della volontà di potenza»6.

Dai Nachgelassene Fragmente Herbst 1885 — Herbst 1887 la critica nietzscheana del soggetto si estende con la sua azione distruttiva fino agli scritti dell'88 e, come vedremo, soprattutto al Crepuscolo degli idoli.

La contrapposizione teoretico-espressiva fra forma essoterica e forma esoterica, la coppia «essoterico-esoterico» (Exoterisch-esoterischJ, con la quale Colli sembra spiegare la nascita della dottrina nietzscheana della vo­lontà, si chiarisce e si risolve nei termini di una teorìa dell'opera «compiu­ta», si traduce nei termini estetici di un dissidio fra Nietzsche artista e Nietzsche pensatore che «annota se stesso». La volontà di potenza — oltre a essere una dottrina, una necessità del linguaggio essoterico, un filosofe­ma (Montinari) — è al tempo stesso un progetto letterario: per realizzarlo Nietzsche, scegliendo dal materiale teoretico e storico raccolto nel periodo autunno-inverno 1887-1888, numerò una serie di frammenti, «giunse cioè a delineare il contenuto di tale opera, sino al limite tuttavia in cui egli rima­neva ancora un pensatore ripiegato su se stesso. Perché la Volontà di po­tenza diventasse un 'opera di Nietzsche, doveva intervenire il momento ar­tistico, come si può constatare per ogni altra sua opera edita. Questo non accadde, neppure attraverso un primo tentativo, e lo dimostra la numera­zione stessa di Nietzsche in questi quaderni, che è una semplice numerazio­ne materiale secondo l'ordine delle pagine, non una numerazione «archi­tettonica»»1.

Il Nietzsche artista è il Nietzsche delle opere edite, il Nietzsche che scrìve per i lettori; il Nietzsche pensatore che «annota se stesso» è il Nietzsche po­stumo, consegnato secondo la cifra cronologica al lettore e al critico. La distinzione fra «artista» e «pensatore» come chiave interpretativa dell'ulti­mo periodo della produzione letteraria nietzscheana è certo semplicistica o comunque riduttiva e non soltanto per l'implicito schematismo delta chia­ve, ma per la conseguente sopravvalutazione dei frammenti postumi — e fra questi comunque dei frammenti 1887-1888 ~ e sottovalutazione degli scritti dell'88, nati dalla frammentazione della progettata Volontà di po­tenza «in scritti polemici, turbolenti, decadenti, con una scelta dei temi più vicini alla realtà contemporanea»*.

Il criterio della frammentazione corrisponde, sul piano di un'interpreta­zione globale di Nietzsche, all'arretrare della tendenza teoretica e sistema­tica, della tendenza architettonica che da Jenseits von Gut und Bòse e Zur Genealogie der Moral aveva preparato nuove possibilità di espressione, a vantaggio di una attualizzazione del pensiero inattuale, così come, sul pia­no della storia testuale del Wille zur Macht, corrisponde alla dissoluzione dottrinale del concetto di volontà «troppo oggettivo (troppo staccato dal

6 G. Colli, Scritti su Nietzsche, Milano, 1980, p. 165. 7 G. Colli, op. cit., p. 170. 8G. Colli, op. cit.,p. 171.

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presente!)»9. Eliminando dal materiale postumo 1887-1888 le parti utilizza­te per le redazioni del Crepuscolo degli idoli e dell'Anticristo, le matrici cioè delle opere compiute, si potrà considerare quanto resta come «il sedi­mento di una meditazione pura (...) il punto estremo, e forse anche il più elevato, cui giunse il pensiero teoretico di Nietzsche»10.

In «Interpretare Nietzsche», introduzione al volume Lo scriba del caos, Masini, in una nota molto illuminante sul Wille zur Macht, sottolinea co­me Colli e Montinari privilegino in questi frammenti «proprio il Nietzsche teoreta e metafisico rispetto a quello della «trasvalutazione» immorali­sta»11 e inoltre come sia possibile rintracciare, al di là della mancanza del «momento artistico» come causa della rinuncia alla progettata Volontà di potenza, «anche altre e più valide ragioni»12. In realtà Masini sembra allar­gare il materiale inedito nietzscheano fino ai biglietti della follia e conside­rarlo come una grande «fucina» di più progetti interrotti e non soltanto per cadute stilistiche o essoteriche: da questa fucina Nietzsche preleva la materia degli scritti dell'88 che non rappresentano la frammentazione di un unico progetto, ma /'elaborazione di più piani espositivi, di lineamenti del­la trasvalutazione.

Sulla definizione della volontà di potenza come espressione essoterica del pensiero nietzscheano si può inoltre osservare che «La parola divulga­zione, per Nietzsche, può suonare soltanto come l'equivalente di una deli­berata provocazione, di una maliziosa sollecitazione al fraintendimento»11\ una maschera, «una nuova «impensabile» maschera»1*.

Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: ancor più, intorno a ogni spirito pro­fondo cresce in continuazione una maschera, grazie all'interpretazione costantemente falsa, e cioè piatta, di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che da lui si esprime's.

L'espressione essoterica è /'interpretazione esteriore: «La masque qui forme tout de mime une physionomie déterminée, quand il cache l'absence de celle-ci, appartient à l'interprétation extérieure et répond à un désir de suggestion venant de l'intérieur»16.

La critica del privilegiamento della volontà di potenza come dottrina metafisica alla volontà di potenza come inversione, del privilegiamento del Nietzsche metafisico al Nietzsche immoralista si lega così alla critica della teoria estetico-espressiva dell'opera letteraria compiuta. Si scopre in tal modo l'esistenza di due piani di lettura della volontà di potenza: come dot-

9 G. Colli, op. cit,,p. 197. 10 G. Colli, op. cit.,p. 172. " F. Masini, Lo scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche, Bologna, 1978, p. 15. 12 F. Masini, op. cit., p. 15. 13 F. Masini, «Un mondo "fluido"». Introduzione a F. Nietzsche, Al di là del bene e del

male, p. 422. 14 F. Masini, op. cit., p. 11-12."«La presunta teoria nietzscheana di un "sistema" della vo­

lontà di potenza è dunque solo una commedia di chi ormai concepisce la sua stessa filosofia come teatro: "teatro di mimi dalle scene multiple, fuggevoli e istantanee, dove i gesti, senza vedersi, si fanno segno" [M. Foucault, «Theatrum Philosophicum», introduzione a G. Deleu­ze, Differenza e ripetizione, tr. it. Bologna, 1971, p. xxiv]. Del restola "commedia" si adatta perfettamente al genealogista delle "verità" che la volontà di potenza si è andata costruendo nella lunga tessitura storica dei suoi inganni, dei suoi mondi dissimulati o rovesciati, assu­mendo la volontà del nulla come volontà dell'essere, scambiando i ruoli e cristallizzando alla fine in due sfere separate un "mondo reale" e un mondo "apparente" (...). Questo "genealogi­sta" è ancora troppo fedele alla sua diffidenza per ogni dicotomia assiologia e ontologico-metafisica per dare alla volontà dì verità un fondamento che sia qualcosa di diverso dall'illu­sione.» Ibid.

15 ABM, p. 459 (KGA vi 2, p. 54). 16 P. Klossowski, Nietzsche et le cerde vicieux, Paris, 1969, p. 323.

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trina, teoria del soggetto e della conoscenza, gnoseologia — sviluppata co­me abbiamo visto fin dai frammenti dell'85 — e come compimento della Experimental-Philosophie, pratica trasvalutativa, immoralista.

Ai fini di una interpretazione del Crepuscolo degli idoli nei suoi rapporti con i Frammenti postumi 1887-1888 nei quali si è dissolta la favola della Volontà di potenza come opera e con la dottrina e il concetto della volontà di potenza, è opportuno approfondire il senso della tendenza teoretica del­l'ultimo Nietzsche, il senso della sua metafìsica travestita e, d'altra parte, il senso della visione prospettica, extramorale e immoralista degli scritti della Umwerthungszeìt. Ci sembra cioè che soltanto integrando i punti di vista crìtici qui brevemente esposti, la prospettiva teoretica e quella etica, rin­tracciando negli scritti dell'88 — e in particolar modo nel Crepuscolo degli idoli e nell'Anticristo — gli esiti teoretici della volontà di potenza in quan­to nuova interpretazione di tutto l'accadere11 e le immagini trasvalutative del valore, gli esiti prospettivistici dell'inversione, sia possibile una inter­pretazione dell'ultimo Nietzsche che, pur discriminando le opere compiute dai materiali postumi, non valuti questa differenziazione a partire da una teoria estetico-letteraria del «compiuto» e dell'«incompiuto», ma — sulla base di una ristabilita fedeltà testuale — a partire dalla ricezione degli scrit­ti nietzscheani pubblicati o lasciati pronti per la pubblicazione e dalla rice­zione ancora in fieri degli scritti non destinati alla pubblicazione, postu­mi".

La dottrina della volontà di potenza come nuova interpretazione di tutto l'accadere può essere ricondotta a una generale critica della (teorìa della) conoscenza che nella configurazione del 1887-1888 coinvolge nella sua por­tata lo stesso concetto nietzscheano di volontà19. Il centro della teoria «gnoseologica» di Nietzsche è la critica del soggetto che, già latente nelle considerazioni sullo spirito dionisiaco della tragedia greca, si snoda lungo tutta l'opera fino ai frammenti dell'85-87 dove si coniuga alla lezione pro-spettivistica dei testi sull'interpretazione e sul suo dominio, fino ai fram­menti dell'87-88 dove si rad leali zza nella figura della finzione, del soggetto e del pensiero come finzioni:

Un dogma tenace La credenza nel soggetto, che Nietzsche ha contribuito a demolire, è tuttavia intrinseca­

mente connessa al suo pensiero, anche a quello più maturo (pure questo gli giunge da Scho­penhauer). Già il chiamare «volontà» la sostanza del mondo rimanda, nello sfondo, a un sog­getto metafìsico. E non importa che Nietzsche frantumi l'unitaria volontà schopenhaueriana in atomi di volontà di potenza: in ciascuno di questi continua ad annidarsi un frammento dì soggetto sostanziale. Inoltre perché «volontà di potenza»? Perché questa volontà postulata si pensa in contrasto con qualcosa che essa tende a soggiogare. Viene presupposto un campo di ostacoli, di resistenze interiori a un soggetto. In termini metafisici, ciò significa postulare una pluralità di soggetti sostanziali e di altrettante volontà, perché quello che contrasta un centro di volontà — elemento primordiale — non potrà essere se non un'altra volontà.

Questa è una critica capitale che colpisce il concetto di «volontà di potenza». Non c'è vo­lontà di potenza senza un soggetto che lo sostenga, un soggetto cioè sostanziale, poiché qui il

17 «Der Wille zur Macht. Versuch einer neuen Auslegung alles Geschehens». NF1, KGA vii 3, p. 349; FP, OFNvn 3, p. 303.

8 Sul concetto di ricezione e sulla rezeptionsàsthetische Theorie cfr. H.R. Jauss, Literatur-geschichte ats Provocation, Frankfurt a.M., 1970; dello stesso autore Kleine Apologie der àsthetischen Erfahrung, Konstanz, 1972, e H. Kùnkler, «Hermeneutik und Literaturwissen-schaften», in Studi tedeschi, xvn (1974), 3, pp. 79-139.

19 Sul concetto di volontà cfr. B. Quelquejeu, La volonté dans la philosophie de Hegel, Pa­ris, 1972.

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discorso è metafisico: eppure è proprio Nietzsche che aveva distrutto il soggetto! Una demoli­zione radicale del soggetto svuota la volontà di ogni consistenza intrinseca .

La decostruzione della gnoseologia che corrisponde del resto al leit mo-tiv nietzscheano della critica alla filosofia moderna in quanto filosofia del­la conoscenza, costituirà la materia stessa del Crepuscolo degli idoli che Nietzsche, nello scritto dell'autointerpretazione, nell'Ecce: homo, vede co­me la rottura definitiva con ciò che fino ad ora è stato chiamato verità. Crepuscolo degli idoli — detto a chiare lettere —: le antiche verità stanno per finire...

Non c'è realtà, non c'è «idealità», che in questo scritto non venga toccata (— toccata: che prudente eufemismo!...) Non solamente gli idoli eterni, anche quelli giovanissimi e di conse­guenza i più senili. Le «idee moderne» ad esempio21.

La tendenza teoretica e sistematica — in una considerazione dei più stretti vincoli che legano il Crepuscolo degli idoli alla dottrina della volon­tà — non sembra arretrare di fronte all'impulso artìstico-polìtìco che fram­menta il progetto letterario in una serie dì scritti brevi, ma viene per così dire superata dalla stessa critica, dalla stessa prospettiva gnoseologica aperta e codificata — certo con qualche ripetizione — nei paragrafi siste­matici di Gòtzen-Dàmmerung: Il problema Socrate, La «ragione» nella fi­losofia, I quattro grandi errori (Das Problem des Sokrates, Die «Ver-nunft» in der Philosophie, Die vier grossen Irrthùmer). La volontà di po­tenza come dottrina dell'essere (divenire) e del tempo (accadere) si trova nei suoi esiti gnoseologici sviluppata fino al suo stesso superamento nel Crepuscolo degli idoli che nel pensiero nietzscheano è il compendio, il sommario delle eterodossie dottrinali, testo eterodosso. La dottrina, espressione metafisica, forma essoterica del linguaggio e del pensiero, vie­ne riesposta nei suoi tratti fondamentali e in ciò stesso superata. Un analo­go superamento tematico sembra essere quello che si realizza nell'Anticri­sto nei riguardi della volontà di potenza come trasvalutazione di tutti i va­lori. Si potrebbe stabilire nella costellazione dell'ultimo Nietzsche un'equa­zione tra il Crepuscolo degli idoli e /'Anticristo: l'una e l'altra opera pro­vengono dalla fucina della progettata Volontà di potenza, e l'una sta alla volontà di potenza-interpretazione di tutto l'accadere come suo supera­mento dottrinale, l'altra sta alla volontà di potenza-trasvalutazione come superamento immoralista, legislazione.

Quanto al senso della Unwerthung di tutti i valori, si può osservare che nella sua ispirazione immoralista, anticristiana, l'inversione costituisce ma­teria per la formazione di immagini che abbiamo definito «trasvalutative» — come l'imagine del «martello», dell'«idolo», del «miglioratore» dell'u­manità, dell'«allevamento» — che compongono la «lingua inversa», il lin­guaggio che Nietzsche parla dai frammenti dell'88, fino ai biglietti «folli».

Per specificare ulteriormente il rapporto testuale del Crepuscolo degli idoli con i Frammenti postumi 1887-1888 dobbiamo confrontare gli ultimi piani della progettata Volontà di potenza con la struttura dello scritto dell'88.

Il progetto originario del Wille zur Macht sì trova in un taccuino dell'a­gosto 1885 dove la volontà di potenza è espressione di una nuova filosofia dell'accadere, «Versuch einer neuen Auslegung alles Geschehens» 2:

20 G. Colli, Dopo Nietzsche, Milano, 1979, pp. 87-88. 21 EH, p. 821 {KGA vi 3, p. 352). 22 NFÌ, KGA vii 3, p. 349; FP, OFN vii 3, p. 303.

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Cap. Nutrimento Generazione Adattamento Riportati alla volontà di potenza Ereditarietà Divisione del lavoro Cap. La posizione marginale della coscienza rispetto a ciò che propriamente muove e go­verna. Cap. Il rovesciamento dell'ordine temporale (...). Cap. Lo sviluppo della logica. Le proprietà dell'essere organico. Lo sviluppo dell'essere organico. L'unione dell'organico e dell'inorganico. La «conoscenza» in rapporto alle condizioni dì vita. L'elemento «prospettivistico» (...). «Causa ed effetto» (...). «Persona», «soggetto» come illusione (...). L'artista e la volontà di potenza (...). La confutazione di Dio, propriamente solo il Dio morale è confutato23.

// concetto di coscienza, il concetto di soggetto, il problema della cono­scenza e delle sue condizioni, il rapporto di causalità, la confutazione di Dìo, il rapporto arte-volontà di potenza, sono i lineamenti tematici di un progetto che si realizza nei paragrafi del Crepuscolo degli idoli.

Al piano riportato seguono due frammenti: Per la prefazione e Per l'in­troduzione il cui tema principale è il concetto di interpretazione, di nuova interpretazione: «Tutta la causalità fisica è interpretabile in cento modi, se­condo che sia un uomo o siano altri esseri a interpretarla»24. Il concetto di interpretazione non dipende dalla morale, dal dominio nella scienza del ca­none morale (eccellenza della verità, della legge, della ragione); l'interpre­tazione morale e religiosa è trasvalutata, decaduta. La nuova interpretazio­ne immoralista dell'accadere nasce come inversione, come l'inverso: «Dio è confutato, ma il diavolo no, e tutte le funzioni divine fanno anch 'esse parte della sua essenza; l'inverso non è stato possibile»25.

Nell'estate del 1886 Nietzsche redige un nuovo piano dell'opera che ri­mane invariato fino al 26 agosto 1888: il piano è distinto in una pars de-struens (libri i e il) che comprende la descrizione del nichilismo come con­seguenza necessaria della teoria del valore e la critica dei valori, e una pars construens dedicata ali'«Immoralista», al «Legislatore» e al medium della sovversione, il «martello». In un altro piano della primavera dell'88 pre­valgono le riflessioni sul concetto di decadenza: i filosofi come tipi della decadenza, la religione, la morale come espressioni della decadenza. La trascrizione in bella copia del materiale raccolto, iniziata a Torino e conti­nuata a Sils-Maria impegna Nietzsche fino all'agosto: in data 26 agosto si può leggere l'ultimo piano che mantiene come titolo Der Wille zur Macht; in questo abbozzo prevale il concetto di valore.

Entwurf des Pian zu: der Wille zur Macht. Versuch einer Umwerthung aller Werthe Wir Hyperboreer. Grundsteinlegung des Problems. Erstes Buch: was ist Wahrheit? Zweites Buch: Herkunft der Werthe Drittes Buch: Kampf der Werthe26.

Tra la fine di agosto e l'inizio di settembre Nietzsche elabora un nuovo piano in cui l'espressione Trasvalutazione di tutti i valori che faceva parte

" NFI, KGA vii 3, pp. 353-354; FP, OFNwi 3, pp. 306-307. 24 NFI, KGA vii 3, p. 354; FP, OFN vii 3, p. 308. u NFI, KGA vii 3, p. 355; FP, OFN VII 3, p. 309. 26 NF2, KGA vin 1, p. 252; NF3, KGA VIII 3, pp. 337-338.

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del vecchio sottotitolo, diventa semplicemente il nuovo titolo dell'opera progettata secondo questa successione diparti:

1. Wir Hyperboreer 2. Das Problem des Sokrates 3. Die Vernunft in der Philosophie 4. Wie die wahre Welt endlich zur Fabel 5. Moral als Widernatur 6. Die vier grossen Irrthiimer 7. Fùr uns - wider uns 8. Begriff einer Décadence-Religion 9. Buddhismus und Christentum

10. Aus meiner Aesthetik 11. Unter Kùnstlern und Schrifstellern 12. Spruche und Pfeile21.

I capitoli 2, 3, 4, 5, 6 e 12 saranno capitoli definitivi del Crepuscolo degli idoli; i capitoli 10 e 11, «Della mia estetica» e «In mezzo ad artisti e scritto­ri», saranno unificati nel capitolo «Scorribande di un inattuale» (il capito­lo 11 comprende i paragrafi 1-18, il 10 i paragrafi 19-31 e 45-51; i paragrafi 32-44 furono aggiunti durante la stampa). I capitoli 1, 7, 8, 9 sono i titoli originari di gruppi di paragrafi dell'Anticristo, rispettivamente 1-7, 8-14, 15-19 e 20-232\

Abbiamo fin qui cercato di presentare, sulla base dei testi nietzscheani e delle Note dei curatori dell'edizione critica, il Crepuscolo degli idoli come un testo della trasvalutazione, un testo della volontà dì potenza, vista da un lato come metafisica, prospettiva gnoseologica, e dall'altro come in­terpretazione e linguaggio immoralista. È opportuno a questo punto inve-rare questa identità del testo con una interpretazione del testo che attraver­so i segmenti tematici riscriva le linee di una teoria della conoscenza come nuova interpretazione, di una teoria nietzscheana dell'interpretazione: la nuova interpretazione «alla luce della quale la morale, quale è finora esisti­ta, appare come un caso speciale»29 è «unmoralische». In tal modo l'etero­dossia teoretica si identifica con la mediazione del legislatore, del sovverti­tore; il Nietzsche «teoreta e metafisico» con il Nietzsche «immoralista»: «si filosofa col martello»30.

II Crepuscolo degli idoli segna, come nota Morel nel suo Nietzsche, la ri­presa di una technicité philosophique, di una forma espositiva discorsiva: «Certains titres en soni l'indice: Le problème de Socrate, la raison dans la philosophie, Les quatre grandes erreurs — mais surtout la manière théti-que, sensible en plusieurs sections où Nietzsche essaie de ramener sa pensée à une sèrie de propositions fondamentales»il. Questa considerazione sulla forma che in certo modo sembra attestare la prevalenza di un contenuto teoretico deve essere integrata dalla considerazione non soltanto del prima­to nella scrittura della forma aforistica, ma soprattutto della necessità di un linguaggio filosofico che, dalla forma metasemantìca dello Zarathu­stra32, ritorna alla forma discorsiva, ma già sempre nell'orizzonte della tra­svalutazione".

21 NF3, KG A vili 3, p. 345. 28 Cfr. Notizie e note di G. Colli e M. Montinari (Sulla composizione delle opere e degli

scritti postumi del 1888), OFN vi 3, pp. 460-471. 29 NF1, KG A vii 3, p. 356; FP, OFN su 3, p. 310. 50 CI, p. 705 (KGA vi 3, p. 51). 31 G. Morel, Nietzsche, Paris, 1970, i, pp. 194-195. 32 Sulla scrittura dello Zarathustra cfr. F. Masini, Lo scriba del caos, cit., pp. 251-292. 33 Nietzsche distingue lo stile di scrittura (Schreibstil) dallo stile di discorso (Sprecbstil)-

«L'arte dello scrivere esige innanzitutto surrogati per le espressioni che solo chi parla possie­de: ossia per gestì, accenti, toni, sguardi. Per questo lo stile della scrittura è affatto diverso da

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INTRODUZIONE DI GIULIO RAIO 701

Sulla base del piano interpretativo scelto possiamo individuare quattro grandi sezioni tematiche — etica, ontologia, gnoseologia ed estetica — che rappresentano l'esito di un pensiero critico, le estreme concretizzazioni, di­scorsive e non, di una logica dello smascheramento che ha operato in Nietzsche fin dagli scritti del periodo di Basilea. È significativo che Nietz­sche recuperi alcuni dei temi più antichi del suo pensiero: è il caso del dio-nisismo e del socratismo, il tema originario della nascita del tragico, in una ripresa circolare del punto d'avvio, del cominciamento che viene qui rie­sposto come cominciamento stesso della trasvalutazione:

L'assenso alla vita anche nei suoi più incogniti e duri problemi; la volontà di vita, che è lie­ta di sacrificare alla propria inesauribilità i suoi tipi più alti — questo io ho chiamato dionisia­co, questo io ho indovinato come il ponte verso la psicologia del poeta tragico. Non per libe­rarsi dallo sgomento e dalla compassione, non per purificarsi da un affetto pericoloso me­diante un veemente scaricarsi di esso — così lo intendeva Aristotele —: ma, oltre lo sgomento e la compassione, per essere noi stessi l'eterno piacere del divenire, — quel piacere che rac­chiude ancora in sé il piacere dell'annientamento... Torno così a toccare il punto da cui una volta sono partito — la «nascita della tragedia» fu la mia prima trasvalutazione di tutti i vaio­

li socratismo è il problema del rapporto di decadenza e razionalità, il problema della dialettica. Altro tema che Nietzsche riprende ed estremizza fino a trasformare in favola è il problema della realtà e dell'apparenza, dell'essere e del divenire, intimamente connesso alla metafisica del linguag­gio, alla grammatica, teorema nichilista della filosofia nietzscheana. Sul versante critico, di una metacritica della conoscenza, maschera della mo­dernità, delle idee moderne, la concezione del pensiero come errore (Irr-thunV, la critica del soggetto come falsa causalità è l'estrema codificazio­ne, la tabula del prospettivismo fenomenistìco. Infine nelle Streitfziige ei-nes Unzeitgemàssen — l'inattualità essendo «la prima "maschera" del filo­sofo che sarà poi l'oscuro trivellatore, {'"essere sotterraneo" di Aurora, il divinatore d'enigmi, il "Dioniso crocifisso", nel cui sorriso straziato si cela l'ambigua complicità, la tragica solidarietà di decadenza e superamento della decadenza»" — Nietzsche ripropone l'antitesi apollineo-dionisiaco, e una gran mole di frammenti di un'estetica, di una fisiologia dell'arte, altro reperto autoptico o, all'estremo opposto, altro segno profetico, della non­nata Volontà di potenza.

La saggezza, la «filosofia» è il corvo che appare quando esala l'odore della decomposizione; il socratismo e il platonismo — la nascita della filo­sofia — sono il sintomo della decadenza, la mediazione attraverso la quale si compie la dissoluzione della grecità, Socrate e Platone, gli antigreci, tipi della decadenza. Il problema della decadenza si può così esporre: « Vivere — vale a dire essere lungamente malati» (Fedone II8a). Decadente è il giu­dizio di valore (Werthurtheil) sulla vita; esso è soltanto «sintomo», «ma­lattia», infatti «il valore della vita non può essere stimato»36. Nietzsche as­socia qui una riflessione immoralista o extramorale a una riflessione meta­fisica o esistenziale: se da un lato infatti destituisce di senso il giudizio di valore sul vivere perché il soggetto del giudizio ne è al tempo stesso oggetto in quanto vivente oggetto della questione (Streitobjekt), dall'altro sembra ricadere in un concetto umanistico o soggettivistico di uomo, proprio co­gliendo il vivente come oggetto in questione. Va anche detto che lo stesso

quello della parola, e molto più difficile: — vuole, con meno, farsi capire come quello». UT, PP- 582 ss. (KGA ìv 3, p. 238).

34 CI, p. 761 (KGA vi 3, p. 154). F. Masini, Lo scriba del caos, cit., p. 45.

36 CI, p. 711. (KGA W vi 3, p. 62).

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702 CREPUSCOLO DEGLI IDOLI

concetto di decadenza partecipa a una duplicità di senso, a una eterodossia del canone logico ed ermeneutico, la specularìtà di soggetto e oggetto: il sog­getto è l'oggetto della valutazione. È un risultato illusionistico o semplice­mente prospettico. ìndice della decadenza socratica, il «demone» (alluci­nazioni acustiche) nel suo significato dialettico rinvia all'ambiguità di un linguaggio trasvalutativo che produce qui le immagini doppie del demone (DàmoniunV e dell'idolo (Gòtze) dell'ascoltare (Hòren) e dell 'origliare (Aushorchen). L'una e l'altra sono immagini doppie e contrastanti: ascol­tare il demone è la malattia, la decadenza; origliare gli idoli (Gòtzen au­shorchen) la guarigione, la trasvalutazione. Eppure l'alterità è in questione anche nel demone socratico.

Decadenza e prospettivismo sono i contrari, gli antagonisti. Il problema «Socrate» appare allora come problema della dialettica e della razionalità, identificate come estremi: estrema risorsa, «legittima difesa [Nothwehr]»37

e «controtiranno [Gegentyrann]»38. Col socratismo nasce una «nuova spe­cie di agon»39, la dialettica la cui dimensione originaria è «presente nell'ot­tica pre-logica o a-logica nella quale si articola il mitho-logein nietzscheano che è appunto enigmatico-agonale e distruttivo»40.

La favola del mondo vero fwahre Welt) è la storia di un errore, la storia della separazione del mondo in un «mondo vero» e in un «mondo appa­rente». È la storia stessa della metafisica occidentale, platonico-cristiana: platonismo, cristianesimo, kantismo. I presupposti fondamentali della me­tafisica del linguaggio, della ragione, ai quali Nietzsche riporta il problema dell'errore e dell'apparenza, sono il concetto di volontà come essere, come qualcosa di agente, facoltà; il concetto di soggetto come sostanza, e il con­cetto di cosa come proiezione della sostanzialità dell'io nel mondo.

Accade esattamente come per i movimenti di un grande astro: lì l'errore ha per costante av­vocato il nostro occhio, e qui il nostro linguaggio*1.

Lo schema delle proposizioni o tesi attraverso cui la storia della metafisi­ca «platonica» si identifica con la storia della morale «cristiana», la dialet­tica con la decadenza, rappresenta il punto d'arrivo della critica genealogi­ca all'opposizione mondo vero-mondo apparente: la distinzione è fondata sulla negazione del divenire (principio eracliteo) e della «scienza» dei sensi, della testimonianza dei sensi (Zeugniss der Sinne), e sulla ipostatizzazione dell'essere come identità, dell'unità, della sostanza, della cosalità, della du­rata.

Prima proposizione. I motivi in base ai quali «questo» mondo è stato definito apparente ne fondano invece la realtà — un'altra specie di realtà è assolutamente indimostrabile.

37 CI, p. 712. (KGA vi 3, p. 64). 38 CI, p. 713. (KGA vi3,p. 65): 39 CI, p. 713. (KGA vi 3, p. 65). 40 F. Masini, Lo scriba del caos, cit., p. 41. Masini riprende una tesi di Colli sul rapporto

fra Nietzsche e i presocratici, la nascita della dialettica dall'enigma: «Così la dialettica prende origine dall'enigma: ma che cosa favorisce la nascita di quella? La svolta è data da un miti­garsi dello sguardo sulla vita (...) Chi risponde all'enigma non si trova più in un pencolo mor­tale: la sua risposta al problema non segna più il suo destino subito, definitivamente, senza scampo. Il problema è risolto con una tesi, con un'interpretazione, e la risposta è momenta­neamente assunta come valida. (...) La dialettica è un rito: alla fine il rispondente soccombe, è destinato a soccombere, come una vittima. Nella dialettica viene meno soltanto il rischio mortale, nel senso fisico, dell'enigma. Ma agonisticamente la distruzione è totale, dell'ogget­to e del pensiero, ossia della tesi, e del rispondente stesso, come lottatore del pensiero». G. Colli, Dopo Nietzsche, op. cit., pp. 48-49.

41 CI, p. 716 (ATC^vi 3, p. 71).

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INTRODUZIONE DI GIULIO RAIO 703

Seconda proposizione. I contrassegni che si son dati al «vero essere» delle cose sono i con­trassegni del non essere, del nulla — [...].

Terza proposizione. Favoleggiare di un mondo «altro» da questo non ha senso [...]. Quarta proposizione. Suddividere il mondo in «vero» e «apparente», sia al modo del cri­

stianesimo, sia al modo di Kant (in fondo, un cristiano scaltro) è soltanto una suggestione della décadence — un sintomo di una vita in declino...*2

La genealogia nietzscheana dell 'apparenza è l'origine nichilistica della filosofia dell'apparenza (ScheinJ di Heidegger e della filosofia del simula­cro di Klossowski*3.

Al concetto di apparenza si collega direttamente il concetto di errore e la concezione del pensiero come errore: in un certo senso la genealogia del­l'apparenza fa un passo avanti — cioè «indietro» — risalendo ai meccani­smi più segreti della ragione, ai suoi «scambi» (Verwechslungen>, ai suoi «quattro grandi errori»:

i. Errore dello scambio di causa e effetto (Irrthum der Verwechslung von Ursache und Folge): lo «scambio» dell'effetto con la causa è tema classico {Feuerbach e Marx) della critica dell'idealismo, della trascendenza.

il. Errore di una falsa causalità (Irrthum einer falschen Ursàchlichkeit^: la falsa causa è la volontà, dalla quale deriva l'idea della coscienza (spirito) come causa, e più tardi dell'io (idea moderna) del soggetto come causa.

ni. Errore delle cause immaginarie (Irrthum der imaginàren Ursachen^: è il processo psicologico attraverso cui /'ignoto viene ricondotto al noto, l'inquietudine spiegata. Al concetto di causa immaginaria, alla psicologia dell'errore appartengono la religione e la morale.

iv. Errore della volontà libera (Irrthum vom freien Willen): il concetto teologico di volontà libera, del «libero arbitrio» è riportato al «voler trova­re la colpevolezza», al «volerpunire e giudicare».

Oggi che siamo entrati nel movimento inverso, e che soprattutto noi immoralisti cerchiamo con tutte le forze di spazzar via dal mondo il concetto di colpa e il concetto di punizione e di purificare da essi la psicologia, la storia, la natura, le istituzioni e le sanzioni sociali, non esi­ste ai nostri occhi opposizione più radicale di quella dei teologi, che con il loro concetto di «ordinamento morale del mondo» continuano a contaminare l'innocenza del divenire per mezzo della «punizione» e della «colpa»44.

Nella legislazione immoralista il concetto di colpa e quello di pena sono stati già distrutti.

GIULIO RAIO

Aprile 1980

42 CI, p. 717. 45 Su «apparenza» e «simulacro» in Heidegger e Klossowski cfr. M. Perniola, «Il problema

dell'apparire dopo Nietzsche: apparenza, fenomeno, simulacro», in AA. vv., Romanticismo Esistenzialismo Ontologia della libertà, a cura di G. Riconda, G. Vattimo, V. Verrà, Milano, 1979, pp. 200-212; sul concetto di Schein cfr. H. Kùnkler, «Was ist Illusion?», in Studi Tede­schi, xvm (1975), 1, pp, 117-175.

44 CI, p. 727 (KGA vi 3, p. 90).

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»

Prefazione

Conservare la propria serenità in una faccenda fosca e di smisurata re­sponsabilità non è abilità da poco: eppure, che cosa sarebbe più necessario della serenità? Nulla riesce, se la baldanza non vi ha la sua parte. Solo un eccesso di forza è la dimostrazione della forza. — Una trasvalutazione di tutti i valori, questo interrogativo così oscuro, così immane da gettar om­bra su colui che lo pone — avere per destino un tale compito costringe a ogni istante a correre al sole, a scuotersi di dosso una serietà divenuta pe­sante, troppo pesante. Ogni mezzo è buono a questo scopo, ogni «caso» è un caso fortunato. Soprattutto la guerra. La guerra è sempre stata la gran­de saggezza di tutti gli spiriti divenuti troppo interiori, troppo profondi; persino nella ferita v'è ancora una forza risanatrice. Da molto tempo il mio motto preferito è un detto, la cui origine tengo celata alla curiosità erudita:

increscunt animi, virescit volnere virtus.

Un'altra guarigione, da me talvolta ancor più desiderata, è nell'ausculta­re gli idoli... Al mondo ci sono più idoli che realtà: è questo il mio «cattivo sguardo» per questo mondo, e questo è anche il mio «cattivo orecchio»... Porre qui, per una volta, domande col martello e, forse, udire per risposta quel famoso suono cupo che parla di visceri enfiati — che delizia per uno che, dietro le orecchie, ha ancora altre orecchie — per me vecchio psicolo­go e acchiappatopi, davanti a cui deve trovar voce proprio ciò che vorreb­be restare in silenzio...

Anche questo scritto — il titolo lo dice — è soprattutto una ricreazione, una macchia di sole, un balzo nell'ozio di uno psicologo. Forse anche una nuova guerra? E si presta forse orecchio a nuovi idoli?... Questo piccolo scritto è una grande dichiarazione di guerra; e per quanto riguarda l'au­scultare gli idoli, stavolta non sono idoli del nostro tempo, ma idoli eterni, ad esser qui toccati col martello come con un diapason — non esistono ido­li più antichi, più convinti, più boriosi di questi... E neppure più vuoti... Ciò non impedisce che siano i più creduti; si dice anche, soprattutto nel ca­so più nobile, che non siano niente affatto idoli...

FRIEDRICH NIETZSCHE

Torino, 30 settembre 1888, giorno in cui fu terminato il primo libro della Trasvalutazione di tutti i valori.

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Detti e frecce

1. L'ozio è il padre di ogni psicologia. E che? La psicologia sarebbe un —

vizio?

2.

Anche il più coraggioso di noi solo raramente ha il coraggio di ciò che realmente so...

3.

Per vivere soli bisogna essere o un animale o un dio — dice Aristotele. Manca il terzo caso: bisogna essere l'uno e l'altro — un filosofo...

4.

«Ogni verità è semplice.» — Non è questa una doppia menzogna? —

5.

Voglio, una volta per tutte, non sapere molto. — La saggezza pone dei limiti anche alla conoscenza.

6.

Nella propria natura selvaggia ci si rimette nel migliore dei modi della propria innatura, della propria spiritualità...

7.

E che? l'uomo è soltanto un errore di Dio? Oppure Dio è soltanto un er­rore dell'uomo? —

8.

Dalla scuola di guerra della vita. Quello che non mi ammazza mi rende più forte.

9. Aiutati: così ti aiuteranno anche gli altri. Principio dell'amore del pros­

simo.

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DETTI E FRECCE 707

10.

Che non si commettano viltà verso le proprie azioni! Che non le si pianti poi in asso! — Il rimorso è sconveniente.

11.

Può un asino essere tragico? — Perire sotto un peso che non si può né portare né gettar via?... Il caso del filosofo.

12.

Se si possiede il proprio perché della vita, allora si va d'accordo con qua­si ogni come. — L'uomo non anela alla felicità; soltanto gli Inglesi lo fan­no.

13.

L'uomo ha creato la donna — ma da che cosa? Da una costola del suo Dio — del suo «ideale»...

14-

E che? tu cerchi? vorresti decuplicarti, centuplicarti? cerchi seguaci? — cerca zeri! —

15.

Uomini postumi — io, per esempio — vengono compresi peggio di quelli contemporanei, ma uditi meglio. Più esattamente: non veniamo mai com­presi — di qui la nostra autorità...

16.

Tra donne. — «La verità? Oh, lei non conosce la verità! Non è essa un attentato a tutti i nostri pudeursl» —

17.

È un artista di quelli che piacciono a me, modesto nei suoi bisogni: vuole veramente solo due cose, il suo pane e la sua arte — panem et Circen...

18.

Chi non sa porre la propria volontà nelle cose, vi pone almeno un senso: crede, cioè, che in esse esista già una volontà (principio della «fede»).

19.

Come? Avete scelto la virtù e la testa alta e intanto guardate storto i van­taggi dell'uomo senza scrupoli? — Ma con la virtù si rinuncia ai «vantag­gi»... (a un antisemita, sulla porta di casa).

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708 CREPUSCOLO DEGLI IDOLI

20.

La donna perfetta fa della letteratura così come commette un peccatuc­cio: tanto per provare, di sfuggita, guardandosi attorno per vedere se qual­cuno la nota e che qualcuno la noti...

21.

Mettersi solo in situazioni ove non si debbano possedere false virtù, ma in cui piuttosto, come il funambolo sulla corda, o si cade o si sta fermi — oppure se ne viene fuori...

22.

«Gli uomini cattivi non hanno canzoni.» — Come mai i Russi le hanno?

23.

«Spirito tedesco»: da diciott'anni una contradictio in adjecto.

24.

A furia di cercare gli inizi si diventa gamberi. Lo storico guarda al'in-dietro; finisce anche per credere all'indietro.

25.

La contentezza preserva persino da un raffreddore. Si è mai raffreddata una donna che si sapeva ben vestita? — Pongo il caso che fosse vestita ap­pena.

26.

Diffido di tutti i sistematici e li evito. La volontà di sistema è una man­canza di onestà.

27.

Si ritiene che la donna sia profonda — perché? perché con essa non si giunge mai al fondo. La donna non è nemmeno piatta.

28.

Quando la donna ha virtù virili, c'è da scappare; e se non ha alcuna virtù virile, è lei stessa a scappare.

29.

«Quanto doveva mordere una volta la coscienza! che buoni denti aveva! — E oggi? Che cosa le manca?» — Domanda di un dentista.

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DETTI E FRECCE 709

30.

Raramente si compie un'avventatezza sola. Nella prima avventatezza si fa sempre troppo. Appunto perciò se ne compie di solito anche una secon­da — e a questo punto si fa troppo poco...

31. Il verme calpestato si rattrappisce. E questo è intelligente. Diminuisce in­

fatti le probabilità di venir calpestato un'altra volta. Nel linguaggio della morale: umiltà. —

32.

Esiste un odio per la menzogna e la simulazione che nasce da un suscetti­bile concetto dell'onore; esiste un odio analogo che nasce dalla viltà, in quanto la menzogna è, per comandamento divino, proibita. Troppo vile per mentire...

33.

Quanto poco ci vuole per essere felici! Il suono di una zampogna. — Senza musica la vita sarebbe un errore. Il tedesco pensa che persino Dio canti delle canzoni.

34.

On ne peut penser et écrire qu'assis (G. Flaubert). — Ecco che ti ho, ni­chilista! Star seduti è appunto il peccato contro lo spirito santo. Solo i pen­sieri che hanno camminato hanno valore.

35.

Ci sono casi in cui siamo come cavalli, noi psicologi, e ci prende l'irre­quietezza: vediamo la nostra ombra ondeggiare su e giù davanti a noi. Lo psicologo deve prescindere da sé, per poter in genere vedere.

36.

Noi immoralisti rechiamo forse danno alla virtù? — Tanto poco, quanto gli anarchici ai principi. Solo dacché vien loro sparato, quelli siedono di nuovo saldamente sui loro troni. Morale: si deve sparare alla morale.

37.

Corri avantn — Lo fai come pastore? o come eccezione? Un terzo caso sarebbe: come l'evaso... Primo problema di coscienza.

38.

Sei schietto? o solo un attore? uno che rappresenta qualcosa? o la stessa cosa rappresentata? — Alla fine sei semplicemente la scimmiottatura di un attore... Secondo problema di coscienza.

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710 CREPUSCOLO DEGLI IDOLI

39. Parla il deluso. — Cercavo grandi uomini, e ho trovato sempre e soltan­

to le scimmie del loro ideale.

40.

Sei uno che sta a guardare? o che interviene? — o che guarda da un'altra parte, si fa da parte... Terzo problema di coscienza.

41.

Vuoi andare con gli altri? o andare avanti? o andartene per conto tuo?... Si deve sapere che cosa si vuole e che lo si vuole. — Quarto problema di coscienza.

42.

Erano gradini per me, li ho saliti — a tal fine ho dovuto oltrepassarli. Ma quelli credevano che volessi riposarmi su di loro...

43.

Che cosa importa che io ottenga ragione! Io ho troppa ragione. — E chi oggi ride bene, ride anche per ultimo.

44.

Formula della mia felicità: un sì, un no, una linea retta, una meta...

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Il problema di Socrate

1.

Sulla vita i più saggi hanno pronunciato in ogni tempo lo stesso giudizio: essa non vale nulla... Sempre e ovunque dalla loro bocca si è udito lo stes­so suono, — un suono pieno di dubbio, di malinconia, di stanchezza della vita, di resistenza alla vita. Persino Socrate disse, in punto di morte: «vive­re — è come esser malati a lungo: debbo un gallo ad Asclepio salvatore». Persino Socrate ne aveva abbastanza. — Che cosa dimostra questo? che cosa indica? — Una volta si sarebbe detto (— oh, lo si è detto, e forte ab­bastanza, e i nostri pessimisti innanzi a tutti!): «Qui dev'esserci in ogni ca­so qualcosa di vero! Il consensus sapientium prova la verità». — Parlere­mo oggi ancora così? ci è lecito? «Qui dev'esserci in ogni caso qualcosa di malato» — rispondiamo noi: questi saggissimi di ogni tempo, li si dovreb­be osservare un po' da vicino! Erano forse, tutti quanti, non più saldi sulle gambe? tardi? barcollanti? décadents? La saggezza comparirebbe forse sulla terra come un corvo, che un lieve odore di carogna manda in esta­si?...

2.

Questa idea irriverente, che i grandi saggi siano tipi della decadenza, è nata in me per la prima volta proprio in un caso in cui le si oppone, nel modo più forte, il pregiudizio dei colti e degli incolti: riconobbi Socrate e Platone come sintomi di decadimento, come strumenti della dissoluzione greca, come pseudogreci, antigreci (Nascita della tragedia, 1872). Quel consensus sapientium — questo lo comprendevo sempre meglio — dimo­stra assai poco che essi avessero ragione nelle cose in cui si trovavano d'ac­cordo: dimostra piuttosto che essi stessi, questi saggissimi, concordavano fisiologicamente in qualche cosa, per assumere — per dover assumere — lo stesso atteggiamento negativo nei confronti della vita. Giudizi sulla vita, giudizi di valore, pro o contro, non possono infine mai esser veri: valgono solo come sintomi, interessano solo come sintomi — in sé, giudizi del gene­re sono delle stupidaggini. Si debbono protendere completamente le dita e fare il tentativo di afferrare questa sorprendente finesse, che il valore della vita non può essere stimato. Non da un vivente, che è parte in causa, anzi addirittura oggetto della controversia e non giudice; e non da un morto, per altri motivi. — Per un filosofo, in tal modo, vedere un problema nel valore della vita costituisce addirittura un'obiezione contro di lui, un pun­to interrogativo sulla sua saggezza, una insipienza. — Come? e tutti questi grandi saggi — non soltanto sarebbero dei décadents, ma non sarebbero nemmeno stati saggi? — Ma torniamo al problema di Socrate.

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712 CREPUSCOLO DEGLI IDOLI

3.

Socrate apparteneva, per origine, al popolino: Socrate era plebaglia. Si sa, lo si vede ancora, quanto fosse brutto. Ma la bruttezza, di per sé un'o­biezione, presso i Greci è quasi una confutazione. Socrate fu del tutto un Greco? La bruttezza è abbastanza spesso l'espressione di uno sviluppo per incroci, ostacolato dall'ibridazione. Altrimenti essa appare come uno svi­luppo che va declinando. Gli antropologi criminalisti ci dicono che il tipico criminale è brutto: monstrum in fronte, monstrum in animo. Ma il crimi­nale è un décadent. Socrate fu un criminale tipico? — Ciò per lo meno non sarebbe in contrasto con il giudizio dato da quel famoso fisiognomo, che suonò tanto sconveniente per gli amici di Socrate. Uno straniero che si in­tendeva di volti, passando per Atene disse in faccia a Socrate che era un monstrum — che nascondeva in sé ogni brutto vizio e ogni brama. E So­crate rispose semplicemente: «Lei mi conosce, signore!» —

4.

Alla décadence, in Socrate, non accenna soltanto la confessa sregolatez­za e anarchia negli istinti: vi accenna anche la superfetazione del logico e quella cattiveria da rachitico che lo contraddistingue. Non dimentichiamo neppure quelle allucinazioni dell'udito che sono state interpretate in senso religioso come «demone di Socrate». Tutto in lui è esagerato, buffo1, cari­catura, tutto è al tempo stesso nascosto, con un secondo fine, sotterraneo. — Cerco di capire da quale idiosincrasia provenga l'equazione socratica di ragione = virtù = felicità: l'equazione più bizzarra che esista, e che spe­cialmente ha contro di sé tutti gli istinti dei più antichi Elleni.

5. Con Socrate il gusto greco si ribalta a favore della dialettica: che cosa

accade realmente? Anzitutto con essa viene vinto un gusto aristocratico; con la dialettica la plebaglia rialza la testa. Prima di Socrate nella buona società si disapprovavano le maniere dialettiche: esse venivano considerate brutte maniere, compromettevano. Contro di esse si metteva in guardia la gioventù. Inoltre si diffidava anche di un simile modo di presentare le pro­prie ragioni. Le cose rispettabili, come gli uomini rispettabili, non portano così in mano i propri motivi. È sconveniente mostrare tutte e cinque le di­ta. Ciò che ha bisogno di essere dimostrato ha poco valore. Dovunque l'autorità faccia ancora parte dei buoni costumi, dove non si «motiva» ma si comanda, il dialettico è una specie di pagliaccio: si ride di luì, non lo si prende sul serio. — Socrate fu il buffone che si faceva prendere sul serio: che cosa accadde realmente dunque? —

6.

Si sceglie la dialettica solo quando non si hanno altri mezzi. Si sa che con essa si suscita diffidenza, che essa convince poco. Nulla si cancella più fa­cilmente dell'effetto di un dialettico: l'esperienza di ogni assemblea, in cui si tengano dei discorsi, lo dimostra. Essa può soltanto essere legittima dife­sa, in mano di quel tale che non abbia più altre armi. Bisogna aver da otte-

' In italiano nel testo. (N.d.T.).

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IL PROBLEMA DI SOCRATE 713

nere a forza la propria ragione: altrimenti non si fa alcun uso della dialetti­ca. Perciò gli Ebrei erano dialettici; la volpe Reinecke lo era: e che? lo fu forse anche Socrate? —

7.

— L'ironia di Socrate è un'espressione di rivolta? di risentimento ple­beo? gusta egli, come oppresso, la propria ferocia nelle stilettate del sillogi­smo? si vendica dei nobili che affascina? — Come dialettici si ha in mano uno strumento implacabile; con esso si può fare i tiranni; si compromette nel momento in cui si vince. Il dialettico lascia al suo avversario il compito di dimostrare che non è un idiota: rende furiosi e allo stesso tempo impo­tenti. Il dialettico depotenzia l'intelletto del suo avversario. — E come? In Socrate la dialettica è soltanto una forma di vendetta1.

8.

Ho fatto capire in che modo Socrate potesse destare avversione: resta tanto più da chiarire il fatto che egli affascinasse. — Il motivo è che egli scoprì una nuova specie di agon, ove fu il primo maestro di scherma per i circoli nobili di Atene. Egli affascinava stuzzicando l'istinto agonistico de­gli Elleni — portava una variante nella lotta tra giovani e giovinetti. Socra­te fu anche un grande erotico.

9.

Ma Socrate indovinò anche di più. Egli vide dietro i suoi nobili ateniesi; comprese che il suo caso, la sua idiosincrasia di caso già non era più un ca­so eccezionale. Lo stesso tipo di degenerazione si andava ovunque prepa­rando in silenzio: la vecchia Atene andava verso la fine. — E Socrate com­prese che tutti avevano bisogno di lui — dei suoi rimedi, della sua cura, del suo personale stratagemma di autoconservazione... Dappertutto gli istinti erano in anarchia; dappertutto si era a pochi passi dall'eccesso: il mon-strum in animo era il pericolo generale. «Gli istinti vogliono fare i tiranni; occorre inventare un controtiranno che sia più forte»... Quando quel fisio-gnomo ebbe svelato a Socrate chi egli fosse, un antro di tutte le peggiori brame, quel grande ironico pronunciò anche un'altra frase, che ci fornisce la chiave per giungere a lui. «È vero», disse, «ma io sono diventato signore di tutti loro.» Come divenne Socrate signore di sei — Il suo caso fu in fon­do solo il caso estremo, solo quel che più saltava agli occhi di quanto allora cominciava a diventare la calamità generale: che nessuno cioè fosse più si­gnore di sé, che gli istinti si volgessero gli uni contro gli altri. Egli affascinò in quanto caso estremo — la sua paurosa bruttezza parlava di lui agli occhi di chiunque: egli, com'è ovvio, affascinò ancor più fortemente come rispo­sta, soluzione, parvenza di cura per questo caso. —

10.

Quando si ha bisogno di far della ragione un tiranno, come fece Socrate, non dev'esser piccolo il pericolo che il tiranno lo faccia qualcos'altro. Al­lora si indovinò la salvezza nella razionalità; né Socrate né i suoi «malati» erano liberi di esser razionali — era de rigueur, era il loro estremo rimedio. 11 fanatismo con cui tutto il pensiero greco si getta sulla razionalità tradisce

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una situazione di emergenza: si era in pericolo, si aveva un 'unica scelta: o andare in rovina o — essere assurdamente razionali... Il moralismo dei fi­losofi greci da Platone in poi è condizionato patologicamente: e così pure la loro valutazione della dialettica. Ragione = virtù = felicità significa soltanto: si deve fare come Socrate e contro gli oscuri desideri produrre in permanenza la luce del giorno — la luce della ragione. Si deve essere saggi, chiari, luminosi a ogni costo: ogni cedimento agli istinti, all'inconscio, tra­scina in basso...

11.

Ho fatto capire come Socrate affascinava: egli appariva come un medi­co, come un salvatore. È ancora necessario indicare l'errore insito nel suo credere alla «razionalità a ogni costo»? — I filosofi e i moralisti ingannano se stessi se credono di uscire dalla décadence per il solo fatto di combatter­la. L'uscirne fuori va oltre le loro forze: quello che essi scelgono come ri­medio, come salvezza, è a sua volta soltanto una ulteriore espressione della décadence — essi trasformano la sua espressione, ma non la eliminano. Socrate fu un equivoco; l'intera morale del miglioramento, anche quella cristiana, fu un equivoco... La più abbagliante luce diurna, la razionalità a ogni costo, la vita chiara, fredda, cauta, cosciente, senza istinto, in opposi­zione agli istinti, fu essa stessa soltanto una malattia, un'altra malattia — e niente affatto un ritorno alla «virtù», alla «salute», alla felicità... Dover combattere gli istinti — ecco la formula della décadence: sino a che la vita si innalza, felicità è uguale a istinto.

12.

— Ha capito anche questo, il più accorto di tutti i raggiratori di sé? Lo disse a se stesso alla fine, nella saggezza del suo coraggio di fronte alla morte?... Socrate volle morire — non Atene, lui stesso si diede la coppa di veleno, costrinse Atene a dargli la coppa di veleno... «Socrate non è un medico», disse piano a se stesso, «qui solo la morte è medico... Socrate fu soltanto per lungo tempo malato...»

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La «ragione» nella filosofia

1. Mi chiedete tutto quel che è idiosincrasia nei filosofi... Per esempio la

loro mancanza di senso storico, il loro odio per l'idea stessa del divenire, il loro egizianesimo. Credono di rendere onore a una cosa destoricizzandola, sub specie aeterni, — facendo di essa una mummia. Tutto quello che i filo­sofi hanno avuto tra le mani per millenni, erano mummie di concetti; nulla di reale uscì vivo dalle loro mani. Questi signori idolatri del concetto, quando adorano, uccidono, imbalsamano — diventano un pericolo morta­le per ogni cosa, quando adorano. La morte, il mutamento, la vecchiaia, così come la procreazione e la crescita, per loro sono obiezioni — addirit­tura confutazioni. Ciò che è, non diviene; ciò che diviene, non è... allora credono tutti, addirittura con disperazione, a ciò che è. Ma giacché non ar­rivano a possederlo, cercano le ragioni per cui ne vengono privati. «De­v'esserci una finzione, un inganno, nel fatto che non percepiamo ciò che è; dove si nasconde l'ingannatore?» — «Lo abbiamo», gridano beati, «è la sensibilità! Questi sensi, per altro sempre così immorali, ci ingannano sul vero mondo. Morale: liberarsi dall'inganno dei sensi, dal divenire, dalla storia, dalla menzogna, — la storia non è altro che fede nei sensi, fede nel­la menzogna. Morale: dire no a tutto ciò che presta fede ai sensi, a tutto il resto dell'umanità: questo è tutto "popolo". Essere filosofi, essere mum­mie, rappresentare il monotono-teismo con mimica da becchini! — E so­prattutto basta con il corpo, questa miserevole idée fixe dei sensi! affetto da tutti gli errori della logica che esistano, confutato, persino impossibile, eppure tanto impudente da atteggiarsi a reale!...»

2.

Metto da parte, con profonda deferenza, il nome di Eraclito. Se il re­stante popolo dei filosofi rifiutava la testimonianza dei sensi, perché questi indicavano molteplicità e mutamento, egli ne respinse la testimonianza, perché mostravano le cose come se possedessero durata e unità. Anche Eraclito fece torto ai sensi. Questi non mentono né al modo che credevano gli Eleati né al modo che credeva lui — non mentono affatto. È soltanto quel che noi facciamo della loro testimonianza, a introdurre la menzogna, per esempio la menzogna dell'unità, della materialità, della sostanza, della durata... È la «ragione» il motivo per cui falsiamo la testimonianza dei sensi. In quanto mostrano il divenire, il passare, il mutamento, i sensi non mentono... Ma Eraclito avrà eternamente ragione in questo, che l'essere è una vuota finzione. Il mondo «apparente» è l'unico: il «mondo vero» è soltanto un'aggiunta menzognera...

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716 CREPUSCOLO DEGLI IDOLI

3.

— E che fini strumenti di osservazione abbiamo nei nostri sensi! Il naso per esempio, del quale nessun filosofo ha ancora parlato con venerazione e riconoscenza, è per ora addirittura il più delicato strumento che abbiamo a disposizione: è in grado di constatare differenze anche minime di movi­mento, che neppure lo spettroscopio rileva. Noi oggi possediamo esatta­mente tanta scienza, per quanto abbiamo deciso di accettare la testimo­nianza dei sensi — e per quanto abbiamo appreso ad acuirli, ad armarli, a completarli col pensiero. Il resto è aborto e non ancora scienza: voglio dire metafisica, teologia, psicologia, teoria della conoscenza. Oppure scienza formale, teoria dei segni: come la logica, e quella logica applicata che è la matematica. In esse la realtà non compare affatto, neppure come proble­ma; e tantomeno vi appare la questione di quale valore abbia in generale una convenzione di segni, quale la logica è. —

4.

Non meno pericolosa è l'altra idiosincrasia dei filosofi: che consiste nel­lo scambiare ciò che è ultimo e ciò che è primo. Ciò che viene alla fine — purtroppo! chè non dovrebbe venire affatto! — i «supremi concetti», ossia i concetti più generali, più vacui, l'ultimo fumo di una realtà che svapora, essi lo pongono all'inizio, come inizio. Questo è a sua volta soltanto l'e­spressione del loro modo di venerare: il superiore non può crescere dall'in­feriore, non può assolutamente essere cresciuto... Morale: tutto ciò che è di primo grado dev'essere causa sui. La provenienza da qualcos'altro vale come un'obiezione, una messa in dubbio del valore. Tutti i valori superiori sono di primo grado; tutti i concetti supremi, l'essente, l'assoluto, il bene, il vero, il perfetto — tutto ciò non può essere divenuto, di conseguenza de­ve essere causa sui. Ma tutti questi non possono nemmeno essere disuguali fra loro, non possono essere in contraddizione con sé... Così essi hanno il loro stupendo concetto di «Dio»... Ciò che è ultimo, più inconsistente, più vacuo, viene posto come primo, come causa in sé, come ens realissimum... E l'umanità ha dovuto prendere sul serio le sofferenze cerebrali di questi fantasticoni malati! — E l'ha pagata cara!...

Contrapponiamo infine il modo diverso in cui noi (— dico noi per corte­sia...) guardiamo ai problema dell'errore e dell'apparenza. Una volta si considerava la trasformazione, il mutamento, il divenire in genere come prova dell'apparenza, come segno che doveva esserci qualcosa ad indurci in errore. Oggi invece, nell'esatta misura in cui il pregiudizio della ragione ci costringe a stabilire unità, identità, durata, sostanza, causa, materialità, essere, ci vediamo in certo qual modo irretiti nell'errore, necessitati all'er­rore; per quanto siamo sicuri, in base a una rigorosa verifica con noi stessi, che qui stia l'errore. Accade esattamente come per i movimenti di un gran­de astro: lì l'errore ha per costante avvocato il nostro occhio, e qui il no­stro linguaggio. Il linguaggio appartiene, secondo la sua origine nel tempo, alla forma più rudimentale di psicologia: se prendiamo coscienza dei pre­supposti fondamentali della metafisica del linguaggio — in parole più chia­re, della ragione — penetriamo in un rozzo feticismo. Esso vede ovunque

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LA «RAGIONE» NELLA FILOSOFIA 717

autore e atto: crede nella volontà come causa in generale; crede nell'«io», nell'io come essere, nell'io come sostanza, e proietta la fede nell'io-sostan-za su ogni cosa — solo così crea il concetto di «cosa»... L'essere viene pe­netrato col pensiero, interpolato ovunque come causa; solo dalla concezio­ne delP«io» segue, come derivato, il concetto di «essere»... All'inizio sta la grande sciagura dell'errore per cui la volontà è qualcosa che agisce, — per cui la volontà è una facoltà... Oggi noi sappiamo che è solo una parola... Solo molto più tardi, in un mondo mille volte più illuminato, i filosofi si accorsero con sorpresa della sicurezza, della soggettiva certezza nell'ado-perare le categorie della ragione: essi conclusero che queste non potevano derivare dall'empiria, — anzi, che tutta quanta l'empiria era in contraddi­zione con esse. Da dove provenivano dunque? — E tanto in India quanto in Grecia si commise lo stesso errore: «già una volta abbiamo dimorato in un mondo superiore (— anziché in uno assai inferiore: il che sarebbe stata la verità!), dobbiamo essere stati divini, giacché abbiamo la ragione!»... In effetti, nulla ha sinora posseduto più ingenua forza persuasiva dell'errore dell'Essere, come per esempio fu formulato dagli Eleati: esso ha a suo fa­vore ogni parola, ogni frase che pronunciamo! — Anche gli avversari degli Eleati soggiacquero alla seduzione della loro idea di Essere: tra questi De­mocrito, quando inventò il suo atomo... La «ragione» nel linguaggio: oh, che vecchia donnaccia ingannatrice! Temo che non ci libereremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica...

6.

Mi si sarà grati se condenso una teoria così essenziale e nuova in quattro tesi: ne faciliterò in tal modo la comprensione e stimolerò le obiezioni.

Prima proposizione. I motivi in base ai quali «questo» mondo è stato definito apparente ne fondano invece la realtà — un'altra specie di realtà è assolutamente indimostrabile.

Seconda proposizione. I contrassegni che si son dati al «vero essere» del­le cose sono i contrassegni del non essere, del nulla — si è costruito il «mondo vero» dalla sua contraddizione col mondo reale: mondo apparen­te, in effetti, in quanto è solamente un'illusione ottico-morale.

Terza proposizione. Favoleggiare di un mondo «altro» da questo non ha senso, presupponendo che non sia potente in noi l'istinto di diffamare, sminuire, render sospetta la vita: nel qual caso ci vendichiamo della vita con la fantasmagoria di una vita «altra», «migliore».

Quarta proposizione. Suddividere il mondo in «vero» e «apparente», sia al modo del cristianesimo, sia al modo di Kant (in fondo, un cristiano scal­tro) è soltanto una suggestione della décadence — un sintomo di una vita in declino... Che l'artista stimi più l'apparenza che la realtà non costituisce un'obiezione a questa tesi. In questo caso infatti l'apparenza significa an­cora una volta realtà, ma selezionata, rafforzata, corretta... L'artista tra­gico non è pessimista — dice appunto sì a ogni cosa problematica e anche terribile, è dionisiaco...

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Come il «mondo vero» finì per diventare favola Storia di un errore

1. Il mondo vero, raggiungibile per il saggio, il pio, il virtuoso — egli vive in quel mondo, egli è quel mondo.

(La più antica forma dell'idea, relativamente intelligente, semplice, convincente. Parafrasi della proposizione «Io, Platone, sono la veri­tà».)

2. Il mondo vero, irraggiungibile per ora, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso («al peccatore che fa penitenza»).

(Progresso dell'idea: diventa più sottile, più insidiosa, meno compren­sibile — diventa donna, diventa cristiana...)

3. Il mondo vero, irraggiungibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un dovere, un imperativo.

(Il vecchio sole, in fondo, ma attraverso nebbia e scetticismo; l'idea divenuta sublime, pallida, nordica, kònigsberghese.)

4. Il mondo vero — irraggiungibile? comunque non raggiunto. E, in quan­to non raggiunto, anche sconosciuto. Dunque neppure consolante, libe­ratorio, vincolante: a che potrebbe vincolarci qualcosa di sconosciu­to?...

(Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo.)

5. Il «mondo vero» — un'idea che non serve più a niente, che non vincola nemmeno più — un'idea divenuta inutile, superflua, dunque, un'idea confutata: eliminiamola!

(Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens e della serenità; rossore di vergogna di Platone; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi.)

6. Il mondo vero lo abbiamo eliminato: quale mondo è rimasto? quello ap­parente, forse?... Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente*.

(Mezzogiorno; momento dell'ombra più corta; fine dell'errore più lungo; culmine dell'umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA.)

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Morale come contronatura

1.

Tutte le passioni hanno un tempo in cui sono soltanto funeste, e con il peso della stupidità trascinano in basso la loro vittima — e un tempo più tardo, assai più tardo, in cui si sposano con lo spirito, si «spiritualizzano». Una volta, a causa della stupidità insita nella passione, si faceva guerra alla passione stessa: si congiurava per annientarla — tutti i vecchi mostri della morale sono unanimi sul fatto che «il faut tuer les passions». La formula più famosa di questo è nel Nuovo Testamento, in quel Discorso della Mon­tagna in cui, detto tra parentesi, le cose non vengono affatto considerate dall'alto. Ad esempio vi si dice, riferendosi alla sessualità, «se il tuo occhio ti molesta, strappalo»: fortunatamente nessun cristiano agisce secondo questo precetto. Annientare le passioni e i desideri unicamente per preveni­re la loro stupidità e le spiacevoli conseguenze della loro stupidità, oggi ci appare soltanto come una forma acuta di stupidità. Non ammiriamo più i dentisti che strappano i denti affinché non dolgano più... Si ammetta d'al­tra parte, con un po' d'equità, che sul terreno sul quale è cresciuto il cri­stianesimo non poteva affatto venir concepita l'idea di «spiritualizzazione della passione». Anzi, come è noto, la prima Chiesa combatté contro gli «intelligenti» a favore dei «poveri di spirito»: come ci si potrebbe aspettare da essa una guerra intelligente contro la passione? — La Chiesa combatte la passione mediante l'eliminazione in ogni senso: la sua pratica, la sua «cura» è la castrazione. Essa non domanda mai: «come si spiritualizza, si abbellisce, si divinizza un desiderio?» — in ogni tempo essa ha messo il vi­gore della disciplina nell'estirpazione (della sensualità, dell'orgoglio, della sete di dominio, della sete di possesso, della sete di vendetta). — Ma aggre­dire le passioni alla radice significa aggredire alla radice la vita: la prassi della Chiesa è nemica della vita...

2.

Lo stesso mezzo, la castrazione, l'estirpazione, viene istintivamente scel­to, nella lotta contro un desiderio, da coloro che sono troppo deboli di vo­lontà, troppo degenerati per potersi imporre in esso una misura: da quelle nature che han bisogno della trappa, per dirla con una metafora (e senza metafora —), di una qualsiasi definitiva dichiarazione di ostilità, di un abisso tra sé e una passione. I mezzi radicali sono indispensabili solo ai de­generati; la debolezza della volontà, o, più precisamente, l'incapacità di non reagire a uno stimolo, è essa stessa soltanto un'altra forma di degene­razione. L'ostilità radicale, l'inimicizia mortale per la sensualità resta un sintomo che fa pensare: autorizza a ipotesi sullo stato complessivo di un uomo eccessivo a tal punto. — Quell'inimicizia, quell'odio giungono del resto al culmine quando quelle nature non hanno più sufficiente fermezza

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neppure per la cura radicale, per il rifiuto del loro «diavolo». Si consideri tutta quanta la storia dei preti e dei filosofi, e anche degli artisti: le cose più velenose contro i sensi non sono state pronunciate dagli impotenti, e nep­pure dagli asceti, ma dagli asceti impossibili, da coloro che avrebbero avu­to bisogno di essere asceti...

3.

La spiritualizzazione della sensualità si chiama amore: essa è un grande trionfo sul cristianesimo. Un altro trionfo è la nostra spiritualizzazione dell'inimicizia. Essa consiste nel comprendere profondamente il valore del­l'avere nemici: insomma neh"agire e nel pensare all'opposto di come si agi­va e si pensava prima. La Chiesa ha voluto in ogni tempo l'annientamento dei propri nemici: noi, noi immoralisti e anticristiani, vediamo nell'esisten­za della Chiesa un vantaggio per noi... Anche in campo politico l'inimici­zia si è fatta oggi più spirituale — molto più accorta, più riflessiva, più in­dulgente. Quasi ogni partito, per la propria sopravvivenza, ha interesse a che il partito avversario non si indebolisca; lo stesso vale per la grande po­litica. Soprattutto una creazione nuova, come per esempio il nuovo Reich, ha bisogno più di nemici che di amici: solo nel contrasto si sente necessa­rio, solo nel contrasto diventa necessario... Non diversamente ci compor­tiamo con il «nemico interiore»: anche qui abbiamo spiritualizzato l'inimi­cizia, anche qui abbiamo compreso il suo valore. Si è fertili solo a patto di esser ricchi di contrasti; si resta giovani solo a condizione che l'anima non si distenda, non desideri la pace... Nulla ci è divenuto più estraneo di quel che una volta ci sembrava desiderabile, la «pace dell'anima», il desiderio cristiano; nulla invidiamo meno della vacca della morale e della grassa feli­cità della buona coscienza. Si rinuncia alla grande vita, se si rinuncia alla guerra... In molti casi, certo, la «pace dell'anima» è soltanto un equivoco, — qualcosa d'altro, che solo non conosce un nome più onesto. Senza giri di parole e pregiudizi, qualche caso. «Pace dell'anima» può essere ad esempio il dolce irradiarsi in campo morale (o religioso) di una ricca ani­malità. O una incipiente stanchezza, la prima ombra che la sera, ogni spe­cie di sera, getta. Oppure un segno che l'aria è umida, che arrivano venti del sud. O l'inconsapevole gratitudine per una buona digestione (detta tal­volta «filantropia»). Oppure l'acquietarsi del convalescente, che in tutto trova un sapore nuovo, e che aspetta... O lo stato che segue a un forte ap­pagamento della nostra passione dominante, il benessere di una ecceziona­le sazietà. Oppure la debolezza senile della nostra volontà, delle nostre bra­me, dei nostri vizi. O la pigrizia, che la vanità induce ad agghindarsi di at­tributi morali. Oppure l'affacciarsi di una certezza, di una sia pur terribile certezza, dopo la lunga tensione e il martirio dell'incertezza. Oppure l'e­spressione della maturità e della padronanza nel fare, nel creare, nell'agire, nel volere, il respiro tranquillo, la raggiunta «libertà del volere»... Crepu­scolo degli idoli: chissà? forse anch'esso soltanto una specie di «pace del­l'anima»...

4.

— Formulo un principio. Ogni naturalismo nella morale, ossia ogni mo­rale sana, è dominata da un istinto della vita, — un certo precetto della vi­ta è adempiuto con un determinato canone di «devi» e «non devi», un cer­to ostacolo e una certa ostilità sulla via della vita viene in tal modo tolto di

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MORALE COME CONTRONATURA 721

mezzo. La morale contronatura, ossia quasi ogni morale che sino ad oggi sia stata insegnata, venerata e predicata, si volge invece proprio contro gli istinti della vita, — è una condanna ora nascosta, ora sfrontata e aperta, di quegli istinti. Dicendo «Dio guarda il cuore», dice no ai più bassi e ai più alti desideri della vita, e intende Dio come nemico della vita... Il santo in cui Dio si compiace è il castrato ideale... La vita finisce là dove inizia il «regno di Dio»...

5. Posto che si sia capita l'empietà di una simile ribellione contro la vita,

quale è diventata quasi sacrosanta nella morale cristiana, così si è capito, per fortuna, anche qualcos'altro: l'inutilità, il carattere fittizio, l'assurdi­tà, la mendacia di una tale ribellione. Una condanna della vita da parte del vivente resta alla fine solo il sintomo di una determinata specie di vita: la questione se ciò avvenga a ragione o a torto non viene affatto sollevata. Si dovrebbe avere una posizione al di fuori della vita, e d'altra parte cono­scerla così bene come quell'uno, come quei molti, come quei tutti che l'hanno vissuta, per potere in generale toccare il problema del valore della vita: motivi sufficienti a comprendere che tale problema è per noi inacces­sibile. Quando parliamo di valori, parliamo sotto l'ispirazione, sotto l'otti­ca della vita: la vita stessa ci costringe a porre valori, la vita stessa valuta per tramite nostro, quando poniamo valori... Ne consegue che anche quell' esser-contronatura della morale, che intende Dio come concetto anti­tetico e condanna della vita, è soltanto un giudizio di valore pronunciato dalla vita — da quale vita? da quale tipo di vita? — Ma ho già risposto: dalla vita in declino, indebolita, stanca, condannata. La morale, così co­m'è stata intesa sinora — e come infine venne formulata anche da Scho­penhauer, quale «negazione della volontà di vivere» — è Vistinto stesso della décadence, che fa di sé un imperativo: essa dice «perisci!» — essa è il giudizio dei condannati...

6.

Consideriamo infine anche quale ingenuità sia dire: «l'uomo dovrebbe essere così e così!». La realtà ci mostra una incantevole ricchezza di tipi, il rigoglio di un dissipante gioco e mutamento di forme: e un qualche misera­bile fannullone di moralista dice: «no! l'uomo dovrebbe essere diverso»\ Sa persino come dovrebbe essere, questo bigotto e piagnone; dipinge se stesso sulla parete e dice «ecce homo!»... Ma persino quando il moralista si rivolge soltanto al singolo e gli dice «tu dovresti essere così e così!», non cessa di rendersi ridicolo. L'individuo è un frammento di fato da cima a fondo, una legge in più, una necessità in più per tutto ciò che viene e che sarà. Dirgli «cambiati» significa pretendere che tutto si cambi, persino al-l'indietro... E in realtà ci furono moralisti conseguenti che volevano l'uo­mo diverso, ossia virtuoso, lo volevano a propria immagine, ossia bigotto: a tale scopo negarono il mondo! Una follia non da poco! Una specie di im­modestia niente affatto modesta!... La morale, nella misura in cui essa condanna, in sé, non sotto i riguardi, le considerazioni, le intenzioni della vita, è un errore specifico di cui non si deve aver pietà, una idiosincrasia di degenerati, che ha provocato danni indicibili!... Noi altri, noi immoralisti, abbiamo invece spalancato il nostro cuore a ogni sorta di comprensione, di intendimento, di approvazione. Non neghiamo facilmente, e cerchiamo il

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nostro onore nell'essere affermativi. Sempre più il nostro occhio si è aper­to a quell'economia che ha ancora bisogno e sa far uso di tutto quello che la santa follia del prete, della ragione malata nel prete, respinge, a quella economia nella legge della vita che trae il suo vantaggio persino dalla ripu­gnante specie del bigotto, del prete, del virtuoso — quale vantaggio? — Ma noi stessi, noi immoralisti, qui siamo la risposta...

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I quattro grandi errori

1. Errore dello scambio di causa ed effetto. — Non v'è errore più pericolo­

so dello scambiare l'effetto con la causa: io lo definisco la vera e propria corruzione della ragione. Tuttavia questo errore appartiene alle più antiche e alle più recenti consuetudini dell'umanità: anche tra noi esso è santifica­to, e porta il nome di «religione», di «morale». Ogni principio che religio­ne e morale formulino, lo contiene; i preti e i legislatori in campo morale sono gli autori di questa corruzione della ragione. — Faccio un esempio. Ognuno conosce il libro del famoso Cornaro, in cui questi consiglia la sua parca dieta quale ricetta di una vita lunga e felice — e anche virtuosa. Po­chi libri sono stati tanto letti, e tuttora ne vengono stampati in Inghilterra migliaia di esemplari all'anno. Sono sicuro che nessun altro libro (eccettua­ta giustamente la Bibbia) abbia causato tanta sventura, abbia accorciato tante vite come questa tanto ben intenzionata bizzarria. Motivo: lo scam­bio dell'effetto con la causa. Quel buon italiano vedeva nella sua dieta la causa della sua lunga vita: mentre la condizione prima di una lunga vita, la straordinaria lentezza del metabolismo, l'esiguo consumo erano la causa della sua parca dieta. Non era a sua discrezione mangiare poco oppure molto, la sua frugalità non era un «libero volere»: se avesse mangiato di più si sarebbe ammalato. Ma chi non è una carpa, non soltanto fa bene, ma ha bisogno di mangiare in piena regola. Un dotto dei giorni nostri, con il suo rapido consumo di energia nervosa, con il regime di Cornaro si rovi­nerebbe. Crede experto. —

2.

La formula più generale che sta alla base di ogni religione e di ogni mo­rale è: «fa questo e quello, non far questo e quello — così sarai felice! Al­trimenti...». Ogni morale, ogni religione è questo imperativo, — io Io defi­nisco il grande peccato originale della ragione, l' immortale irrazionalità. Nella mia bocca quella formula si trasforma nel suo rovescio — primo esempio della mia «trasvalutazione di tutti i valori»: — un uomo ben riu­scito, un «felice», deve compiere determinate azioni e ne evita istintiva­mente altre, e nei suoi rapporti con gli uomini e le cose introduce l'ordine che egli fisiologicamente rappresenta. In una formula: la sua virtù è l'effet­to della sua felicità... Una lunga vita, una numerosa discendenza non sono il premio della virtù; la virtù stessa è piuttosto proprio quel rallentamento del metabolismo che, tra l'altro, ha per conseguenza anche una lunga vita, una numerosa discendenza, insomma il cornarismo. La Chiesa e la morale dicono: «una stirpe, un popolo sono rovinati dal vizio e dal lusso». La mia ragione ripristinata dice: quando un popolo va in rovina, quando degenera fisiologicamente, ne conseguono vizio e lusso (ossia il bisogno di stimoli

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sempre più forti e frequenti, come ogni natura esaurita conosce). Questo giovane impallidisce e avvizzisce anzitempo. I suoi amici dicono: è colpa di questa e quella malattia. Io dico: il fatto che egli si sia ammalato, che non abbia resistito alla malattia, era già la conseguenza di una vita impoverita, di un esaurimento ereditario. Il lettore di giornali dice: Con questo errore il tal partito si rovinerà. La mia politica superiore dice: un partito che com­mette simili errori è finito — non possiede più la sua sicurezza istintiva. Qualsiasi errore in ogni senso è la conseguenza di una degenerazione dell'i­stinto, della disgregazione della volontà: con ciò si definisce pressappoco il cattivo. Ogni cosa buona è istinto — e di conseguenza facile, necessaria, li­bera. La fatica è un'obiezione, il dio si differenzia tipicamente dall'eroe (nel mio linguaggio: i piedi lievi, primo attributo della divinità).

3.

Errore di una falsa causalità. — In ogni tempo si è creduto di sapere che cosa sia una causa: ma da dove abbiamo preso la nostra consapevolezza, più esattamente, la nostra fede di saperne qualcosa? Dalla sfera dei famosi «fatti interiori», dei quali sinora nessuno si è dimostrato fattualmente. Credevamo di essere noi stessi la causa nell'atto del volere; almeno lì crede­vamo di cogliere sul fatto la causalità. Ugualmente non si dubitava che tut­ti gli antecedentia di un'azione, le sue cause, fossero da ricercare nella co­scienza e che, a cercarli, si sarebbero ritrovati lì — come «motivi»; altri­menti non si sarebbe stati liberi per quell'azione, non si sarebbe stati re­sponsabili di essa. Infine, chi avrebbe contestato il fatto che un pensiero viene causato? che l'io causa il pensiero?... Di questi tre «fatti interiori», nei quali la causalità sembrava trovar garanzia, il primo e più convincente è quello della volontà come causa; la concezione di una coscienza («spiri­to») come causa, e più tardi anche quella dell'io (del «soggetto») come causa sono semplicemente nate dopo, una volta che la causalità della vo­lontà risultava stabilmente come data, come empiria... Nel frattempo ab­biamo riflettuto meglio. Oggi non crediamo più una parola di tutto questo. Il «mondo interiore» è pieno di chimere e fuochi fatui: la volontà è uno di questi. La volontà non muove più nulla, e di conseguenza non spiega nem­meno più nulla — accompagna semplicemente gli avvenimenti, ma può an­che mancare. Il cosiddetto «motivo»: un altro errore. Solo un superficiale fenomeno della coscienza, un elemento incidentale dell'azione che, più che rappresentarli, nasconde gli antecedentia di un'azione. E poi l'io! È diven­tato una favola, una finzione, un gioco di parole: ha cessato del tutto di pensare, di sentire e di volere!... Che cosa ne consegue? Non esistono cau­se spirituali! Tutta la presunta empiria in compenso è andata al diavolo! Questo ne consegue! — E noi avevamo bellamente abusato di quella «em­piria», su di essa avevamo creato il mondo come un mondo di cause, un mondo della volontà, un mondo di spiriti. Agiva qui la più antica e dure­vole psicologia, e non ha fatto altro: ogni accadere era per essa un fare, ogni fare effetto di un volere, il mondo divenne per essa una molteplicità di soggetti agenti, in ogni accadere si suppose un soggetto agente (un «sogget­to»). L'uomo ha proiettato fuori di sé i suoi tre «fatti interiori», ciò in cui più fermamente credeva, la volontà, lo spirito, l'io — ha ricavato prima il concetto di essere dal concetto dell'io, ha posto le «cose» come essenti se­condo la sua immagine, il suo concetto dell'io come causa. Perché stupirsi se più tardi, nelle cose, egli ritrovava sempre e solo ciò che vi aveva messo! — La cosa stessa, ripetiamo, il concetto di cosa è puramente un riflesso

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I QUATTRO GRANDI ERRORI 725

della fede nell'io come causa... E anche il vostro atomo, signori meccanici­sti e fisici: quanto errore, quanta rudimentale psicologia restano ancora nel vostro atomo! — Per non parlare affatto della «cosa in sé», delVhorren-dum pudendum dei metafisici! L'errore dello spirito come causa scambiato con la realtà! E assunto a misura della realtà! E chiamato Dio\

4.

Errore delle cause immaginarie. — Per partire dal sogno: a una determi­nata sensazione, che per esempio segue a un lontano colpo di cannone, vie­ne successivamente attribuita una causa (spesso un intero romanzetto, con il sognatore per protagonista). La sensazione intanto perdura, in una spe­cie di risonanza: aspetta, per così dire, che l'impulso di causalità le permet­ta di venire in primo piano, — ormai non più come caso, bensì come «sen­so». Il colpo di cannone si presenta in maniera causale, in una apparente inversione di tempo. Quello che viene dopo, la motivazione, viene vissuto per primo, spesso con cento particolari che trascorrono come in un baleno, il colpo segue... Che cosa è accaduto? Le rappresentazioni che un determi­nato sentire ha prodotto vengono erroneamente intese come causa di esso. — In realtà facciamo lo stesso da svegli. La maggior parte dei nostri senti­menti comuni — ogni sorta di inibizione, di pressione, di tensione, di esplosione nell'alterno gioco degli organi, come pure, in particolare, lo sta­to del nervus sympathicus — stimolano il nostro impulso di causalità: vo­gliamo avere un motivo di sentirci in questo e in quel modo, — di sentirci male o di sentirci bene. Non ci è mai sufficiente constatare puramente e semplicemente il fatto di sentirci in questo e in quel modo: noi ammettia­mo questo fatto — ne diventiamo consapevoli —, solo quando gli abbiamo dato una sorta di motivazione. — Il ricordo, che a nostra insaputa entra in azione in questi casi, fa emergere stati analoghi precedenti e le interpreta­zioni causali loro connesse — non la loro causalità. Certamente la creden­za che le rappresentazioni, i processi della coscienza che le accompagnano, siano stati le cause, viene provocata anche dal ricordo. Nasce così un'abi­tudine a una determinata interpretazione delle cause, che in verità ostaco­la, e persino esclude, una ricerca della causa.

5.

Spiegazione psicologica di ciò. — Ricondurre qualcosa di non conosciu­to a qualcosa di noto solleva, calma, soddisfa, dà inoltre un senso di po­tenza. Ciò che è ignoto equivale a pericolo, inquietudine, pena, — il primo istinto è quello di eliminare queste sgradevoli situazioni. Primo principio: meglio una spiegazione qualsiasi che nessuna spiegazione. Poiché in fondo si tratta solo della volontà di liberarsi da rappresentazioni opprimenti, non si guarda troppo per il sottile circa i mezzi per liberarsene: la prima rappre­sentazione con la quale l'ignoto si esplica come noto, fa tanto bene che la si «tiene per vera». Prova del piacere («della forza») come criterio della ve­rità. — L'impulso di causalità è dunque condizionato e stimolato dal senti­mento di paura. Il «perché» deve dare, se è possibile, non tanto la causa per se stessa quanto piuttosto una specie di causa — una causa che tran­quillizzi, liberi, rassereni. Che qualcosa di già noto, vissuto, inscritto nella memoria sia stabilito come causa è la prima conseguenza di questo biso­gno. Il nuovo, il non vissuto, l'estraneo, viene escluso come causa. — Non solo dunque si ricerca come causa una specie di spiegazioni, ma una specie

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scelta e privilegiata di spiegazioni, quelle grazie alle quali è stato eliminato più rapidamente e più spesso il senso dell'estraneo, del nuovo, del non vis­suto, — le spiegazioni più abituali. — Conseguenza: una specie di ordina­mento causale prevale sempre più, si concentra in sistema e alla fine si pre­senta come predominante, vale a dire escludendo semplicemente altre cau­se e spiegazioni. — Il banchiere pensa subito agli «affari», il cristiano al «peccato», la fanciulla al suo amore.

6.

Tutta la sfera morale e religiosa è inscritta in questo concetto delle cause immaginarie. — «Spiegazione» dei sentimenti comuni sgradevoli. Essi so­no determinati da esseri che ci sono ostili (spiriti cattivi: il caso più noto — le isteriche prese per streghe). Sono determinati da azioni riprovevoli (il senso del «peccato», della «peccaminosità» attribuito a un malessere fisio­logico — si trovano sempre motivi per essere scontenti di se stessi). Sono determinati come punizioni, come una resa dei conti per qualcosa che non avremmo dovuto fare, non avremmo dovuto essere (generalizzato in forma impudente da Schopenhauer in una proposizione, nella quale la morale ap­pare ciò che essa è, la vera avvelenatrice e diffamatrice della vita: «ogni grande dolore, sia fisico che spirituale, esprime quello che meritiamo; in­fatti non potrebbe colpirci se non lo meritassimo». Mondo come volontà e rappresentazione, u, 666). Questi sentimenti sono condizionati in quanto conseguenze di azioni sconsiderate, che finiscono male (— gli affetti, i sen­si stabiliti come causa, come «colpevoli»; stati fisiologici di necessità inter­pretati come «meritati», con l'ausilio di altri stati di necessità). — «Spiega­zione» dei sentimenti comuni piacevoli. Essi sono determinati dalla fiducia in Dio. Sono determinati dalla coscienza di buone azioni (la cosiddetta «buona coscienza», uno stato fisiologico che a volte somiglia tanto a una felice digestione da esser scambiato con essa). Sono determinati dall'esito felice di imprese (— paralogismo ingenuo: la felice riuscita di imprese non produce, in un ipocondriaco o in un Pascal, alcun sentimento comune pia­cevole). Sono condizionati da fede, carità, speranza — le virtù cristiane. — In verità, tutte queste presunte spiegazioni sono stati che conseguono a sentimenti di piacere o di dolore, sono, per così dire, la loro traduzione in un falso dialetto: si è in grado di sperare perché il sentimento fisiologico fondamentale è di nuovo forte e ricco; si ha fiducia in Dio perché il senso di pienezza e di forza acquieta. — La morale e la religione appartengono in tutto e per tutto alla psicologia dell'errore: in ogni singolo caso la causa viene scambiata con l'effetto; oppure la verità viene scambiata con l'effet­to di ciò che è creduto vero; oppure uno stato della coscienza viene scam­biato con la causalità di questo stato.

7.

Errore della libera volontà. — Oggi non abbiamo più alcuna compassio­ne per il concetto di «libera volontà»: sappiamo anche troppo bene che co­sa sia — il più infame trucco dei teologi che esista, volto a rendere l'umani­tà «responsabile» nel senso loro, vale a dire a renderla dipendente da lo­ro... Do qui solo la psicologia di ogni responsabilizzazione. Ovunque si cerchino responsabilità, è sempre l'istinto del voler punire e giudicare a cercarle. Si è spogliato il divenire della sua innocenza, quando si riconduce l'essere in questo o in quel modo a volontà, a intenzioni, ad atti di respon-

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sabilità: la dottrina del volere è stata inventata essenzialmente allo scopo di punire, ossia allo scopo del voler trovare colpevoli. Tutta l'antica psicolo­gia, la psicologia della volontà, ha il suo presupposto nel fatto che i suoi creatori, i sacerdoti al vertice di antiche comunità, vollero crearsi un diritto di infligger pene — o lo vollero creare a Dio... Gli uomini vennero pensati «liberi» perché potessero esser giudicati, puniti — perché potessero diven­tare colpevoli: di conseguenza ogni azione doveva esser pensata come volu­ta, e l'origine di ogni azione riposta nella coscienza (— con il che la più fondamentale falsificazione in psychologicis fu eretta a principio della psi­cologia stessa...). Oggi che siamo entrati nel movimento inverso, e che so­prattutto noi immoralisti cerchiamo con tutte le forze di spazzar via dal mondo il concetto di colpa e il concetto di punizione e di purificare da essi la psicologia, la storia, la natura, le istituzioni e le sanzioni sociali, non esi­ste ai nostri occhi opposizione più radicale di quella dei teologi, che con il loro concetto di «ordinamento morale del mondo» continuano a contami­nare l'innocenza del divenire per mezzo della «punizione» e della «colpa». Il Cristianesimo è una metafisica del boia...

8.

Quale può essere la nostra sola dottrina? — Che nessuno dà all'uomo le sue qualità, né Dio, né la società, né i suoi genitori e antenati, né egli stesso (— l'assurdità dell'idea qui da ultimo respinta è stata insegnata da Kant, e forse già anche da Platone, come «libertà intellegibile»). Nessuno è re­sponsabile del fatto di esistere, di esser fatto in questo o in quel modo, di trovarsi in queste circostanze, in questo ambiente. La fatalità del suo esse­re non va scissa dalla fatalità di tutto ciò che fu e che sarà. Egli non è la conseguenza di una sua propria intenzione, di una volontà, di uno scopo, con lui non si tenta di raggiungere un «ideale di uomo» o un «ideale di feli­cità» o un «ideale di moralità», — è assurdo voler far rotolare il suo essere verso un qualsiasi scopo. Noi abbiamo inventato il concetto di «scopo»: nella realtà lo scopo manca... Si è necessari, si è un frammento di destino, si appartiene al Tutto, si è nel Tutto — non c'è nulla che possa giudicare, misurare, paragonare, condannare il nostro essere, perché ciò significhe­rebbe giudicare, misurare, paragonare, condannare il tutto... Ma fuori del Tutto non esiste nulla! — Che nessuno sia più reso responsabile, che non sia consentito ricondurre a una causa prima la natura dell'essere, che il mondo non sia un'unità né come sensorium né come «spirito»: solo questa è la grande liberazione — solo così si ripristina l'innocenza del divenire... L'idea di Dio è stata sinora la più grande obiezione contro l'esistenza... Noi neghiamo Dio, neghiamo la responsabilità in Dio: soltanto così redi­miamo il mondo.

L

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I «miglioratori» dell'umanità

1. Si sa quello che pretendo dal filosofo, il porsi al di là del bene e del male

— l'avere sotto di sé l'illusione del giudizio morale. Questa richiesta deriva da un'idea formulata per la prima volta da me: che non esistono fatti mo­rali. II giudizio morale ha in comune con quello religioso di credere a realtà che non sono tali. La morale è solo un'interpretazione di determinati feno­meni, più precisamente una falsa interpretazione. Il giudizio morale attie­ne, come quello religioso, a un livello di ignoranza nel quale manca ancora persino il concetto di reale, la distinzione fra reale e immaginario: sicché, a tale livello, «verità» indica solo cose che noi oggi chiamiamo «chimere». Il giudizio morale non va pertanto mai preso alla lettera: come tale esso con­tiene sempre e soltanto un controsenso. Ma resta inestimabile come semio­tica: esso rivela, almeno al sapiente, le più preziose realtà di culture e di in­teriorità che non sapevano abbastanza per «comprendere» se stesse. La morale è semplicemente un discorso di segni, pura sintomatologia: bisogna già sapere di che si tratta, per trarre da essa un vantaggio.

2.

Un primo esempio, e del tutto provvisorio. In ogni tempo si sono voluti «render migliori» gli uomini: soprattutto questo portava il nome di mora­le. Ma sotto una stessa parola stan nascoste le tendenze più diverse. Sia l'addomesticamento della bestia uomo, che l'allevamento di una determi­nata specie di uomini sono stati chiamati «miglioramento»: solo questi ter­mini zoologici esprimono delle realtà — realtà, invero, di cui il «migliora­tore» tipico, il prete, nulla sa — nulla vuole sapere... Definire l'addomesti­camento di un animale il suo «miglioramento», ai nostri orecchi suona quasi come uno scherzo. Chi conosce quel che succede nei serragli, dubita che proprio lì la bestia venga «migliorata». Essa viene indebolita, resa me­no nociva, attraverso il sentimento depressivo della paura, attraverso il do­lore, le ferite, la fame, essa diviene una bestia malaticcia. — Non diversa­mente stanno le cose con l'uomo addomesticato, che il prete ha «reso mi­gliore». Nei primo Medioevo, quando in effetti la Chiesa era innanzitutto un serraglio, si dava ovunque la caccia ai più begli esemplari della «bionda bestia» — si «miglioravano» ad esempio ì nobili Germani. Ma come appa­riva poi un tale Germano «migliorato», sedotto al chiostro? Come una ca­ricatura d'uomo, come un aborto: era diventato «peccatore», stava in una gabbia, lo si era rinserrato tra idee semplicemente terribili... Ora se ne sta­va lì, malato, meschino, incattivito contro se stesso: pieno di odio verso gli impulsi alla vita, pieno di sospetto per tutto quanto fosse ancora forte e fe­lice. Insomma, un «cristiano»... Per dirla in termini fisiologici: nella lotta con la bestia, renderla malata può essere l'unico mezzo per indebolirla. La

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I «MIGLIORATORI» DELL'UMANITÀ 729

Chiesa lo ha capito: essa ha guastato l'uomo, lo ha indebolito — ma ha preteso di averlo «reso migliore»...

3.

Consideriamo l'altro caso della cosiddetta morale, il caso dell'alleva-mento di una determinata razza e specie. La morale indiana ce ne fornisce l'esempio più grandioso, sanzionato a religione come «legge di Manu». In essa è posto il compito di allevare in una sola volta non meno di quattro razze: una di sacerdoti, una di guerrieri, una di mercanti e agricoltori, e in­fine una razza di servi, i Sudra. Qui chiaramente non siamo più tra doma­tori di belve: una specie d'uomo cento volte più mite e ragionevole è la condizione perché si possa anche soltanto concepire il piano di un tale alle­vamento. Si respira di sollievo nel passare da quell'atmosfera cristiana di malattia e di carcere a questo mondo più sano, più elevato, più vasto. Quanto è meschino il Nuovo Testamento in confronto a Manu, come puz­za! — Ma anche a questa organizzazione fu necessario essere terribile — nella lotta, stavolta, non con la bestia, ma con il suo concetto opposto, con l'uomo non-da-allevamento, con l'uomo-miscuglio, il Ciandala. E a sua volta essa non aveva altro mezzo di renderlo innocuo, debole, se non quel­lo di renderlo malato — era la lotta contro il «grande numero». Non esiste forse nulla che urti maggiormente il nostro sentimento di queste misure preventive della morale indiana. Per esempio il terzo editto (Avadana-Sa-stra i), quello sugli «ortaggi impuri», prescrive che l'unico nutrimento con­sentito ai Ciandala sia aglio e cipolla, considerato che la sacra scrittura proibisce di dar loro grano o frutti che contengano semi, oppure acqua o fuoco. Lo stesso editto stabilisce che l'acqua di cui essi han bisogno non sia presa né da fiumi né da sorgenti né da stagni, ma solo dagli accessi agli ac­quitrini e dalle buche formate dagli zoccoli delle bestie. Ugualmente è loro proibito lavare i propri panni e se stessi, giacché l'acqua concessa loro per misericordia può essere usata soltanto per estinguere la sete. Infine la proi­bizione alle donne Sudra di assistere le donne Ciandala durante il parto, e ugualmente, ancora una proibizione per queste ultime, di assistersi l'un l'altra... — Il successo di una tale polizia sanitaria non mancò: epidemie mortali, atroci malattie sessuali e per di più anche la «legge del coltello», che prescriveva la circoncisione per i bambini maschi e l'asportazione delle piccole labbra per le femmine. — Manu stesso dice: «I Ciandala sono il frutto dell'adulterio, dell'incesto e del delitto (— questa la necessaria con­seguenza dell'idea di allevamento). Per abiti debbono avere solo gli stracci dei cadaveri, per stoviglie solo vasi rotti, per ornamento ferro vecchio, per il servizio divino solo gli spiriti cattivi; debbono vagare senza requie da un luogo all'altro. È loro vietato scrivere da sinistra a destra e servirsi per scri­vere della mano destra: l'uso della mano destra e lo scrivere da sinistra a destra è riservato solo ai virtuosi, alla gente di razza». —

4.

Queste disposizioni sono sufficientemente istruttive: in esse abbiamo per una volta l'umanità ariana, affatto pura, affatto originaria — apprendia­mo che il concetto di «sangue puro» è un concetto tutt'altro che innocuo. D'altra parte diventa chiaro in quale popolo si sia eternato l'odio, l'odio dei Ciandala contro questa «umanità», dove esso sia divenuto religione, sia divenuto genio... Da questo punto di vista i Vangeli sono un documen-

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to di prim'ordine; ancor più il libro di Enoch. — Il cristianesimo, per la sua radice ebraica e comprensibile solo come frutto di questo terreno, rap­presenta il movimento opposto a ogni morale dell'allevamento, della raz­za, del privilegio: — esso è la religione antiariana par excellence: il cristia­nesimo, il rovesciamento di tutti i valori ariani, la vittoria dei valori-Cian-dala, il vangelo predicato ai poveri, agli umili, la rivolta generale di tutti i calpestati, i miseri, i falliti, i malriusciti, contro la «razza» — l'immortale vendetta dei Ciandala come religione dell'amore...

5.

La morale dell'allevamento e quella dell'addomesticamento sono perfet­tamente degne l'una dell'altra quanto ai mezzi per imporsi: come massimo principio noi possiamo additare quello secondo cui per fare della morale bisogna avere l'assoluta volontà del contrario. È questo il grande, inquie­tante problema al quale mi sono più a lungo dedicato: la psicologia dei «miglioratori» dell'umanità. Un dato di fatto piccolo e in fondo modesto, quello della cosiddetta pia fraus, mi ha fornito il primo accesso a questo problema: la pia fraus, retaggio di tutti i filosofi e i sacerdoti che «resero migliore» l'umanità. Né Manu, né Platone, né Confucio, né i maestri ebrei e cristiani hanno mai dubitato del proprio diritto a mentire. Essi non han­no dubitato di ben altri diritti... Con una formula si potrebbe dire: tutti i mezzi grazie ai quali sinora l'umanità ha dovuto esser resa morale, erano fondamentalmente immorali. —

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Quel che manca ai Tedeschi

1. Tra i Tedeschi oggi non basta avere spirito: bisogna anche prenderselo,

prendersi la libertà di averlo... Forse conosco i Tedeschi, forse posso dir loro anche qualche verità. La

nuova Germania rappresenta una grande quantità di capacità ereditate e apprese, sicché per un certo tempo può spendere, anche a profusione, il te­soro di forza che ha accumulato. Non è un'alta cultura, quella che con essa si è affermata, e tanto meno un gusto delicato, una nobile «bellezza» degli istinti; ma virtù più virili di quelle che qualunque altro paese d'Europa possa mostrare. Molto buon animo e rispetto di sé, molta sicurezza nei rapporti, nella reciprocità dei doveri, molta laboriosità, molta tenacia — e una ereditaria moderazione, che ha bisogno più del pungolo che del freno. Aggiungo che qui, in Germania, si ubbidisce ancora, senza che l'ubbidien­za umilii... E nessuno disprezza il suo avversario...

Come si vede, è mio desiderio render giustizia ai Tedeschi: in questo non vorrei tradire me stesso, — debbo dunque anche far loro la mia obiezione. Si paga caro giungere al potere: il potere rende stupidi... I Tedeschi — una volta li si chiamava il popolo dei pensatori: pensano ancora, oggi? — I Te­deschi adesso si annoiano dello spirito, i Tedeschi oggi diffidano di esso, la politica inghiotte ogni serietà per cose effettivamente spirituali — «Germa­nia, Germania sopra ogni cosa», fu questa, temo, la fine della filosofia te­desca... «Esistono filosofi tedeschi? esistono poeti tedeschi? esistono buo­ni libri tedeschi?» — mi si chiede all'estero. Io arrossisco; ma col coraggio che mi contraddistingue anche in casi disperati, rispondo: «Sì, Bismarck!» — Potrei anche solo ammettere quali libri si leggono oggi?... Dannato istinto della mediocrità! —

2.

— Quel che potrebbe essere lo spirito tedesco: chi non ha già avuto a ri­guardo i suoi malinconici pensieri? Ma questo popolo si è volontariamente instupidito, da quasi un millennio: da nessun'altra parte si è abusato con ugual dissolutezza dei due grandi narcotici europei, l'alcool e il cristianesi­mo. Ultimamente se ne è aggiunto anche un terzo, che già da solo può dare il colpo di grazia a ogni sottile e ardita mobilità dello spirito, la musica, la nostra intasata e intasante musica tedesca. — Quanta fastidiosa pesantez­za, fiacchezza, quanto umidore, quanta veste da camera, quanta birra c'è nell'intelligenza tedesca! Com'è possibile che uomini giovani, i quali con­sacrano la propria esistenza a mete spirituali, non sentano in se stessi il pri­mo istinto della spiritualità, l'istinto di autoconservazione dello spirito — e bevano birra?... L'alcoolismo della gioventù istruita non è forse ancora un

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punto interrogativo sulla sua erudizione — si può essere, senza spirito, ad­dirittura un grande dotto —, ma sotto ogni altro riguardo resta un proble­ma. — Dove non la si troverebbe, la morbida degenerazione che la birra produce nello spirito! Una volta, in un caso che è quasi diventato famoso, ho posto il dito su una tale degenerazione — la degenerazione del nostro primo spirito libero tedesco, l'intelligente David Strauss, divenuto autore di un vangelo da birreria e di una «nuova fede»... Non invano egli aveva messo in versi la sua promessa solenne alla «leggiadra bruna» — fedeltà si­no alla morte...

3.

— Dicevo, dello spirito tedesco, che diventa più rozzo, che si appiatti­sce. È sufficiente? — In fondo è ben altro che mi spaventa: come scendano sempre più in basso la serietà tedesca, la profondità tedesca, la passione te­desca nelle cose dello spirito. Si è mutato il pathos, non soltanto l'intellet­tualità. — Ho talvolta contatti con università tedesche: che atmosfera re­gna tra i loro dotti, che spiritualità squallida, modesta e tiepida! Sarebbe un profondo malinteso se a questo punto mi si volesse obiettare la scienza tedesca — e oltracciò una prova che di me non si è letta una parola. Da di­ciassette anni non mi stanco di mettere in luce l'influsso despiritualizzante della nostra attuale attività scientifica. II duro ilotismo al quale l'enorme espansione delle scienze costringe oggi l'individuo è uno dei motivi princi­pali per cui nature con doti più ricche, più piene, più profonde non trovino più educazione ed educatori adatti a loro. La nostra cultura soffre soprat­tutto per l'abbondanza di fannulloni presuntuosi e di umanità in frammen­ti; le nostre università sono loro malgrado delle vere e proprie serre per questa specie di immiserimento istintuale dello spirito. E tutta l'Europa ne sa già qualcosa — la grande politica non inganna nessuno... La Germania è considerata sempre più come la. pianura d'Europa. — Sto ancora cercan­do un Tedesco con il quale io possa essere serio a modo mio, — e ancor di più uno con il quale possa essere sereno! Crepuscolo degli idoli: ah, chi può capire oggi da quale serietà si riposi qui un eremita! — La serenità è in noi la cosa più incomprensibile...

4.

Si faccia un calcolo approssimativo: non solo è palese che la cultura te­desca è al tramonto, ma non mancano neppure motivi sufficienti per que­sto. Nessuno in fondo può spendere più di quel che ha — ciò vale per il sin­golo, ciò vale per i popoli. Se si spende se stessi per il potere, per la grande politica, per l'economia, per il commercio mondiale, il parlamentarismo, gli interessi militari — se si dà via in questa direzione la quantità di intelli­genza, di serietà, di volontà, di superamento di sé, che si è, ne verrà a man­care nell'altra direzione. La cultura e lo Stato — non ci si inganni in pro­posito — sono antagonisti: «Stato di cultura» è soltanto un'idea moderna. L'una cosa vive dell'altra, l'una cosa prospera a spese dell'altra. Tutte le grandi epoche della cultura sono epoche di decadenza politica: ciò che è grande nel senso della cultura, era impolitico, persino antipolitico... — A Goethe si aprì il cuore di fronte al fenomeno Napoleone, — gli si richiuse dinanzi alle «guerre di liberazione»... Nello stesso istante in cui la Germa­nia assurge a grande potenza, la Francia acquista una diversa importanza

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QUEL CHE MANCA AI TEDESCHI 733

come potenza culturale. Già oggi molta nuova serietà, molta nuova passio­ne dello spirito sono emigrate a Parigi; il problema del pessimismo, ad esempio, il problema Wagner, quasi tutti i problemi psicologici e artistici vengono dibattuti là in maniera incomparabilmente più sottile e approfon­dita che non in Germania, — i Tedeschi sono incapaci di questo tipo di se­rietà. — Nella storia della civiltà europea, l'ascesa del «Reich» significa so­prattutto una cosa: uno spostamento del centro di gravità. Lo si sa già dap­pertutto: nell'essenziale — e la cultura resta tale — i Tedeschi sono ormai fuori questione. Si domanda: avete da indicare anche un solo spirito che conti per l'Europa? come contarono il vostro Goethe, il vostro Hegel, il vostro Heinrich Heine, il vostro Schopenhauer? — Sul fatto che non esista più un solo filosofo tedesco, non si finirà mai di meravigliarsi.

5.

A tutta l'istruzione superiore in Germania è venuta meno la cosa princi­pale: lo scopo, come pure i mezzi per raggiungerlo. Che l'educazione, la formazione siano esse stesse uno scopo — e non «il Reich» —, che per que­sto scopo occorrano educatori — e non gli insegnanti ginnasiali e i sapienti delle università — lo si è dimenticato... Occorrono educatori che siano essi stessi educati, spiriti superiori, nobili, provati tali in ogni momento, prova­ti tali dalla parola e dal silenzio, culture diventate mature, dolci — non i dotti tangheri che il ginnasio e l'università offrono oggi alla gioventù come «superiori nutrici». Mancano gli educatori, a parte le eccezioni delle ecce­zioni, la condizione prima dell'educazione: di qui la decadenza della cultu­ra tedesca. — Una di quelle rarissime eccezioni è il mio stimabile amico Ja­cob Burckhardt di Basilea: soprattutto a lui Basilea deve il suo primato di umanità. — Quello che le «scuole superiori» della Germania effettivamen­te ottengono è un brutale addestramento per rendere utilizzabili, sfruttabili per il servizio statale, con la minor perdita di tempo, un numero esorbitan­te di giovani. «Educazione superiore» e numero esorbitante — è sin dal principio una contraddizione. Ogni educazione superiore appartiene solo all'eccezione: si deve essere privilegiati, per aver diritto a un così alto privi­legio. Tutte le cose grandi e belle non possono mai essere patrimonio co­mune: pulchrum est paucorum hominum. — Che cosa determina la deca­denza della cultura tedesca? Il fatto che l'«educazione superiore» non sia più un privilegio — il democratismo della «cultura» divenuta «generale», comune... Non va dimenticato che i privilegi militari costringono a un vero e proprio sovraffollamento delle scuole superiori, ossia alla loro decaden­za. — Nessuno è ormai più libero, nella Germania di oggi, di dare ai propri figli una buona educazione: le nostre scuole «superiori» sono organizzate tutte sulla più equivoca mediocrità quanto a insegnanti, a programmi, a fi­nalità educative. E ovunque regna una fretta indecorosa, come se andasse perduto qualcosa se il giovane a 23 anni non ha ancora «finito», non sa an­cora rispondere alla «questione principale»: quale professione? — Una specie superiore di uomini, con licenza parlando, non ama le «professio­ni», appunto perché si sa designata... Ha tempo, prende tempo, non pensa affatto a «finire» — a trentanni si è, nel senso di un'alta cultura, un prin­cipiante, un fanciullo. — I nostri ginnasi strapieni, i nostri insegnanti gin­nasiali sovraccarichi, instupiditi, sono uno scandalo: per prendere le difese di questa situazione, come recentemente hanno fatto i professori di Heidel­berg, si avranno forse dei motivi, — ragioni non ce ne sono.

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6. — Per non venir meno alla mia natura, che è affermativa e solo media­

tamente e involontariamente ha a che fare con la contraddizione e la criti­ca, presento subito i tre compiti per i quali occorrono educatori. Bisogna imparare a vedere, bisogna imparare a pensare, bisogna imparare a parlare e a scrivere: scopo di tutti e tre questi compiti è una cultura aristocratica. — Imparare a vedere — abituare l'occhio alla calma, alla pazienza, al la­sciar giungere a sé le cose; rimandare il giudizio, imparare a rigirare e ad abbracciare il singolo caso da ogni lato. È questa la prima introduzione al­la spiritualità: non reagire subito a uno stimolo, ma padroneggiare gli istinti che inibiscono, che isolano. Imparare a vedere, così come l'intendo io, è all'incirca ciò che il linguaggio non filosofico chiama forte volontà: l'essenziale in esso è appunto non «volere», saper sospendere il giudizio. Ogni mancanza di spiritualità, ogni bassezza poggiano sulla incapacità di resistere a uno stimolo — si deve reagire, si segue ogni impulso. In molti casi un tale «dovere» è già uno stato di malattia, è già decadenza, sintomo di esaurimento, — quasi tutto quello che la rozzezza non filosofica indica con il nome di «vizio», è soltanto quella incapacità fisiologica di non reagi­re. — Un'applicazione pratica dell'aver imparato a vedere: come allievi si sarà diventati lenti, diffidenti, riluttanti. Si lascerà dapprima avvicinare a noi l'estraneo, il nuovo di ogni specie in silenzio ostile — se ne ritrarrà la mano. Lo stare con tutte le porte aperte, il deferente chinar la schiena di fronte a ogni piccolo fatto, l'esser sempre pronti a balzare, a precipitarsi dentro questa e quella cosa, insomma la famosa «obiettività» moderna è cattivo gusto, è non nobile par excellence. —

7.

Imparare a pensare: nelle nostre scuole non se ne ha più alcuna idea. Persino nelle università, persino tra i veri e propri dotti della filosofia la lo­gica comincia a morire, come teoria, come pratica, come mestiere. Si leg­gano i libri tedeschi: nemmeno il più lontano ricordo, ormai, che per pen­sare occorre una tecnica, un programma, una volontà di magistero, — che il pensiero deve essere appreso così come dev'essere appresa la danza, co­me una specie di danza... Chi, tra i Tedeschi, conosce ancora per esperien­za quel sottile brivido, che dei piedi lievi nelle cose spirituali irradiano in tutti i muscoli! — La rigida goffaggine del gesto spirituale, la mano pesan­te nell'afferrare — ciò è tedesco a tal punto, che all'estero lo si scambia con il carattere tedesco in generale. Il Tedesco non ha dita per le nuances... Che i Tedeschi abbiano anche solo sopportato i loro filosofi, soprattutto il più deforme storpio del concetto che sia mai esistito, il grande Kant, rende abbondantemente l'idea della grazia tedesca. — Infatti in una nobile edu­cazione non si può prescindere dalla danza in ogni sua forma, dal saper danzare con i piedi, con i concetti, con le parole: debbo forse dire che si de­ve saperlo fare anche con la penna, — che bisogna imparare a scriverei — Ma a questo punto diventerei un perfetto enigma per i lettori tedeschi...

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Scorribande di un inattuale

1. I miei impossibili. — Seneca: ovvero il toreador della virtù. Rousseau:

ovvero il ritorno alla natura in impuris naturalibus. — Schiller: ovvero il trombettiere morale di Sàckingen. — Dante: ovvero la iena che fa poesia nelle tombe. — Kant: ovvero cant come carattere intelligibile. — Victor Hugo: ovvero il faro sul mare dell'assurdo. — Liszt: ovvero la scuola della speditezza — dietro le dorine. — George Sand: ovvero lactea ubertas, in te­desco: la mucca da latte dal «bello stile». — Michelet: ovvero l'entusiasmo che si toglie i pantaloni... Carlyle: ovvero il pessimismo come rigurgito del pranzo. — John Stuart Milk ovvero la chiarezza che offende. — Lesfrères de Goncourt: ovvero i due Aiaci in lotta con Omero. Musica di Offenbach. — Zola: ovvero «il piacere di puzzare». —

2.

Renan. — Teologia, ovvero corruzione della ragione a causa del «pecca­to originale» (il cristianesimo). Testimone Renan che, non appena arri­schia un sì o un no di ordine generale, fa cilecca con penosa regolarità. Egli vorrebbe, per esempio, annodare insieme la science e la noblesse; ma la science appartiene alla democrazia, lo si tocca con mano. Egli desidera, con non poca ambizione, rappresentare un aristocratismo dello spirito: ma allo stesso tempo davanti alla dottrina opposta, Vévangile des humbles, si mette in ginocchio e non solo in ginocchio... A che serve tutta la libertà di pensiero, la modernità, il dileggio e la flessibilità del torcicollo, se nelle vi­scere si è restati cristiani, cattolici e persino preti! Renan ripone la sua in­ventiva nella seduzione, esattamente come un gesuita e un padre confesso­re; alla sua spiritualità non manca il largo sorriso compiaciuto del prete — e, come tutti i preti, diventa pericoloso soltanto quando ama. Nessuno gli sta a pari nell'adorare in modo mortalmente pericoloso... Questo spirito di Renan, uno spirito che snerva, è una sciagura in più per la povera Francia malata, malata nella volontà. —

3.

Sainte-Beuve. — Nulla dell'uomo; pieno di una piccola rabbia segreta contro tutti gli spiriti virili. Egli se ne va attorno, sottile, curioso, annoia­to, origliando, — in fondo una femmina, con una vendicatività e una sen­sualità da femmina. Come psicologo, un genio della médisance; con una inesauribile ricchezza di mezzi in tal senso; nessuno meglio di lui sa mesco­lare a una lode il veleno. Plebeo negli istinti più bassi e affine al risenti­mento di Rousseau: di conseguenza romantico — giacché sotto ogni ro-mantisme grugnisce famelico l'istinto vendicativo di Rousseau. Rivoluzio-

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nario, ma ancora abbastanza imbrigliato dalla paura. Senza libertà di fronte a tutto ciò che ha forza (opinione pubblica, accademia, corte, persi­no Port Royal). Inasprito verso ogni grandezza negli uomini e nelle cose, verso tutto ciò che creda in sé. Poeta e mezza femmina abbastanza per sen­tire ancora la grandezza come potenza; continuamente rattrappito come quel famoso verme, poiché si sente continuamente calpestato. Come criti­co, senza misura, senza tenuta e spina dorsale, con la lingua del cosmopoli­ta libertin per molte cose, ma senza coraggio per una professione di liberti-nage. Come storico, senza filosofia, senza la potenza dello sguardo filoso­fico, — respingendo perciò, in tutte le questioni essenziali, il compito di. giudicare, frapponendo l'«obiettività» come una maschera. Diversamente si comporta verso tutte quelle cose nelle quali un gusto sottile e consumato sia la massima istanza: allora egli ha veramente il coraggio di essere se stes­so, il piacere di sé — allora egli è maestro. — Sotto alcuni aspetti, una pre-formazione di Baudelaire. —

4.

L'imitatio Christi fa parte di quei libri che non tengo in mano senza una qualche ripugnanza fisiologica: esso emana un parfum di eterno femmini­no, per il quale si deve essere già francesi — o wagneriani... Questo santo ha un tale modo di parlare dell'amore, che persino le parigine si fanno cu­riose. — Mi si dice che quell'accortissimo gesuita, A. Comte, il quale vole­va portare a Roma i suoi Francesi attraverso l'indiretta via della scienza, si sia ispirato a questo libro. Lo credo: «la religione del cuore»...

5.

G. Eliot. — Si sono liberati del Dio cristiano, e ora credono di dover te­ner tanto più ferma la morale cristiana: questa è una consequenzialità in­glese, non vogliamo addebitarla alle donnette della morale à la Eliot. In In­ghilterra, per ogni piccola emancipazione dalla teologia, bisogna riacqui­star credito in modo da far paura come fanatici della morale. È questa l'ammenda che lì si paga. — Per noi altri le cose stanno altrimenti. Se si abbandona la fede cristiana, ci si toglie di sotto i piedi anche il diritto alla morale cristiana. Questa non è affatto ovvia di per sé: si deve continua­mente mettere in luce questo punto, a dispetto di quei superficiali degli In­glesi. Il cristianesimo è un sistema, una visione coerente e totale delle cose. Se se ne distacca un concetto fondamentale, la fede in Dio, si infrange così anche il tutto: non si ha fra le dita più nulla di necessario. Il cristianesimo presuppone che l'uomo non sappia, non possa sapere, che cosa sia bene e male per lui: egli crede in Dio, che è il solo a saperlo. La morale cristiana è un comando; la sua origine è trascendente; essa sta al di là di ogni critica, di ogni diritto alla critica; essa possiede verità solo se la verità è Dio — essa si regge e cade con la fede in Dio. — Se gli Inglesi credono davvero di sape­re da soli, «intuitivamente», ciò che è buono e ciò che è cattivo, se di con­seguenza ritengono di non aver più bisogno del cristianesimo a garanzia della morale, questo è semplicemente la conseguenza dell'egemonia eserci­tata dal cristiano giudizio di valore, e l'espressione della forza e della pro­fondità di tale egemonia: è stata così dimenticata l'origine della morale in­glese, sicché non si avverte più quanto condizionato sia il suo diritto all'esi­stenza. Per l'Inglese la morale non è ancora un problema...

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SCORRIBANDE DI UN INATTUALE 737

6. George Sand. — Ho letto le prime lettres d'un voyageur: come tutto ciò

che discende da Rousseau, sono false, artificiose, gonfie, esagerate. Non sopporto questo variopinto stile da tappezzeria; come pure l'ambizione plebea a sentimenti generosi. La cosa peggiore resta certamente la civette­ria femminile ammantata di atteggiamenti mascolini, di modi da ragazzo maleducato. — Come dev'essere stata fredda, nonostante tutto ciò, questa insopportabile artista! Si caricava come un orologio — e scriveva... Fredda come Hugo, come Balzac, come tutti i romantici, non appena si mettevano a comporre! E come doveva sentirsi compiaciuta di sé, questa feconda mucca-da-scrivere, che aveva in sé qualcosa di tedesco nel senso cattivo, come anche lo ebbe Rousseau, suo maestro, e che in ogni caso potè esistere solo grazie alla decadenza del gusto francese! — Ma Renan la venera...

7.

Morale per psicologi. — Non fare della psicologia da venditori ambulan­ti! Mai osservare per osservare! Ciò dà una falsa ottica, uno strabismo, qualcosa di forzato e di esagerato. Vivere un'esperienza per voler vivere un'esperienza — non porta a nulla. Vivendo un'esperienza, non è lecito guardare a sé, ogni sguardo diventa allora «malocchio». Uno psicologo nato evita per istinto di vedere per vedere; lo stesso vale per il pittore nato. Egli non lavora mai «secondo la natura», — lascia al suo istinto, alla sua camera obscura, di filtrare ed esprimere il «caso», la «natura», l«'espe­rienza vissuta»... Solo dell' uni versale egli diviene cosciente, della conclu­sione, del risultato: quell'arbitrario astrarre dal singolo caso egli non lo co­nosce. — Cosa succede se ci si comporta diversamente? Se per esempio, al modo dei romanciers parigini, si fa in grande e in piccolo una psicologia da venditori ambulanti? In questo modo si tendono per così dire agguati alla realtà, in questo modo si porta a casa ogni sera una manciata di cose curio­se... Ma si guardi solo a che cosa ne viene fuori alla fine — un mucchio di scarabocchi, nel migliore dei casi un mosaico, in ogni caso qualcosa di ad­dizionato insieme, di inquieto, di stridente. I risultati peggiori li ottengono i Goncourt: essi non mettono insieme tre frasi che non siano semplicemen­te un'offesa per l'occhio, per l'occhio dello psicologo. — Valutata in senso artistico, la natura non è un modello. Essa esagera, distorce, lascia lacune. La natura è il caso. Lo studio «secondo la natura» mi sembra un brutto se­gno: tradisce sottomissione, debolezza, fatalismo, — questo prostrarsi nel­la polvere davanti a petits faits è indegno di un artista completo. Vedere che cos'è — si addice a un'altra specie di spiriti, quelli antiartistici, quelli reali. Si deve sapere chi si è...

8.

Sulla psicologia dell'artista. — Perché esista arte, perché esista un qual­siasi fare e contemplare artistico, è indispensabile un presupposto fisiologi­co: {'ebbrezza. L'ebbrezza deve prima aver accresciuto l'eccitabilità del­l'intera macchina: altrimenti non si giunge all'arte. Tutte le specie di eb­brezza, per quanto diversamente condizionate, possiedono la forza di far ciò: soprattutto l'ebbrezza dell'eccitazione sessuale, la più antica e origina­ria forma di ebbrezza. Ugualmente l'ebbrezza che sopraggiunge al seguito

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di tutte le grandi brame, di tutti i forti affetti; l'ebbrezza della festa, della gara, del pezzo di bravura, della vittoria, di ogni commozione estrema; l'ebbrezza della crudeltà; l'ebbrezza della distruzione; l'ebbrezza prodotta da determinati influssi meteorologici, per esempio l'ebbrezza della prima­vera; oppure dall'influsso dei narcotici; infine l'ebbrezza della volontà, di una volontà sovraccarica e turgida. — L'essenziale nell'ebbrezza è il senso dell'aumento di forza e della pienezza. Da questo si comunicano sentimen­ti alle cose, le si costringe a prendere da noi, le si violenta — questo proces­so vien detto idealizzare. Sbarazziamoci qui di un pregiudizio: l'idealizzare non consiste, come comunemente si crede, nel togliere o eliminare ciò che è piccolo, secondario. Quel che importa è piuttosto spìnger fuori, grandiosa­mente, i tratti principali in modo che gli altri scompaiano.

9.

In questa condizione si arricchisce tutto della propria pienezza: quel che si vede, quel che si vuole, lo si vede rigonfio, compresso, forte, sovraccari­co di forza. In questa condizione l'uomo trasforma le cose, sino a che non riflettano la sua potenza, — sino a che non divengano riflessi della sua per­fezione. Questo dover trasformare in qualcosa di perfetto è — arte. Anche tutto quello che egli non è, diviene tuttavia per lui piacere di sé; nell'arte l'uomo gode se stesso come perfezione. — Sarebbe lecito immaginarsi una condizione opposta, una specifica antiartisticità dell'istinto, — un modo di essere che impoverisca, assottigli, intisichisca tutte le cose. E in effetti la storia è ricca di simili antiartisti, di simili affamati della vita: che di neces­sità debbono ancora prendere le cose per come sono in sé, logorarle, ren­derle più misere. Questo è ad esempio il caso del vero cristiano, per esem­pio di Pascal: un cristiano che allo stesso tempo sia artista, non esiste... Non si sia puerili e non mi si obietti Raffaello o certi cristiani omeopatici del diciannovesimo secolo: Raffaello diceva Sì, Raffaello faceva Sì, di con­seguenza Raffaello non era un cristiano...

10.

Che cosa significano i concetti antitetici, da me introdotti nell'estetica, di apollineo e dionisiaco, ambedue intesi come specie dell'ebbrezza? — L'ebbrezza apollinea tiene soprattutto eccitato l'occhio, sicché esso riceve la forza della visione. Il pittore, lo scultore, l'epico sono visionari par ex-cellence. Nello stato dionisiaco viene invece eccitato e potenziato l'intero sistema degli affetti: sicché questo scarica in una volta tutti i suoi mezzi espressivi e allo stesso tempo fa venir fuori la forza del rappresentare, del riprodurre, del trasfigurare, del trasformare, ogni specie di mimica e di teatralità. L'essenziale rimane la facilità della metamorfosi, l'incapacità di non reagire (— come avviene per certi isterici, i quali a un cenno qualun­que entrano in qualunque ruolo). Per l'uomo dionisiaco è impossibile non capire una qualsiasi suggestione, egli non si lascia sfuggire alcun segno del­l'affetto, possiede nel grado più alto l'istinto di comprendere e indovinare, così come possiede, nel grado più alto, l'arte di comunicare. Egli entra in ogni pelle, in ogni affetto: si trasforma continuamente. — La musica, così come l'intendiamo noi oggi, è ugualmente un'eccitazione e una scarica to­tale degli affetti, tuttavia è solo il residuo di una sfera espressiva dell'affet­to molto più piena, un semplice residuum dell'istrionismo dionisiaco. Per rendere possibile la musica come arte particolare, si sono messi a tacere

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una quantità di sensi, soprattutto il senso muscolare (almeno relativamen­te: poiché in un certo grado ogni ritmo parla ancora ai nostri muscoli): sic­ché l'uomo non imita e non rappresenta più, subito con il proprio corpo, tutto ciò che sente. Tuttavia è questo il normale stato veramente dionisia­co, o comunque lo stato originario; la musica è la sua specificazione, lenta­mente raggiunta a spese delle facoltà più affini.

11. L'attore, il mimo, il danzatore, il musico, il lirico sono fondamental­

mente affini nei loro istinti e in sé sono una cosa sola, ma a poco a poco si sono specializzati e separati l'uno dall'altro — financo alla contraddizione. Il lirico rimase assai a lungo unito al musico; l'attore al danzatore. — L'ar­chitetto non rappresenta né uno stato dionisiaco né uno stato apollineo; ad aspirare all'arte è qui la grande volizione, la volontà che sposta le monta­gne, l'ebbrezza della grande volontà. Gli uomini più possenti hanno sem­pre ispirato gli architetti; l'architetto fu sempre sotto la suggestione della potenza. Nell'edificio deve rendersi visibile l'orgoglio, la vittoria sulla gra­vità, la volontà di potenza; l'architettura è una sorta di oratoria della po­tenza attraverso forme, ora suadente, persino lusinghiera, ora semplice­mente imperiosa. Il più alto senso di potenza e di sicurezza ottiene espres­sione in ciò che ha grande stile. La potenza che non ha più bisogno di esser dimostrata; che non si cura più di piacere; che difficilmente risponde; che non si sente circondata di testimoni; che vive senza coscienza del fatto che si dà contraddizione contro di lei; che riposa in sé, fatalisticamente, una legge tra leggi: questo parla di sé come grande stile. —

12.

Ho letto la vita di Thomas Carlyle, questa farsa inconsapevole e invo­lontaria, questa interpretazione eroico-morale di stati dispeptici. — Carly­le, un uomo dalle parole e dagli atteggiamenti forti, un retore per necessi­tà, continuamente tormentato dal desiderio di una solida fede e dal senti­mento di non esserne capace (— in ciò un tipico romantico!). Il desiderio di una solida fede non è la prova di una solida fede, ma piuttosto il contra­rio. Se la si possiede, ci si può permettere il bel lusso della scepsi: si è sicuri abbastanza, saldi abbastanza, vincolati abbastanza per ciò. Carlyle stordi­sce qualcosa in se stesso con il fortissimo della sua venerazione per uomini di solida fede e con il suo furore contro quelli meno ingenui: egli ha biso­gno di chiasso. Una costante, appassionata slealtà verso se stesso — questo è il suo proprium, grazie al quale egli è e resta interessante. — Certo, in In­ghilterra egli è ammirato proprio per la sua onestà... Ebbene, ciò è inglese; e considerando che gli Inglesi sono il popolo del perfetto cant, è persino giusto e non solo comprensibile. In fondo Carlyle è un ateo inglese, che si fa un punto d'onore nel non esserlo.

13.

Emerson. — Assai più illuminato, più errabondo, più complesso, più raffinato di Carlyle, soprattutto più felice... Uno che istintivamente si nu­tre solo d'ambrosia, e lascia da parte quel che nelle cose è indigesto. A pet­to di Carlyle, un uomo di gusto. — Carlyle, che pure lo amava molto, disse di lui: «non ci dà abbastanza da mordere»: il che può dirsi a ragione, ma

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non a svantaggio di Emerson. — Emerson possiede quella gaiezza bonaria e intelligente che scoraggia ogni serietà; non sa affatto quanto sia già vec­chio e quanto giovane sarà ancora, — di sé potrebbe dire, con una frase di Lope de Vega: «yo me sucedo a mi mismo». Il suo spirito trova sempre motivi per esser contento e perfino riconoscente; e sfiora talvolta la serena trascendenza di quel galantuomo che tornava da un convegno amoroso tamquam re bene gesta. «Ut desint vires», disse con riconoscenza, «tamen est laudando voluptas.» —

14.

Anti-Darwin. — Per quanto riguarda la famosa «lotta per la vita», per ora essa mi sembra più asserita che dimostrata. Avviene, ma come eccezio­ne; l'aspetto complessivo della vita non è lo stato di bisogno, lo stato di fa­me, bensì la ricchezza, l'opulenza, persino l'assurda dissipazione — dove si lotta, si lotta per la potenza... Non si deve scambiare Malthus con la natu­ra. — Ma posto che questa lotta esista — e in effetti, essa avviene —, essa ha purtroppo un esito contrario a quel che si augura la scuola di Darwin, a quel che forse sarebbe lecito augurarsi con essa: ossia a sfavore dei fjorti, dei privilegiati, delle felici eccezioni. Le specie non crescono nella perfezio­ne: i deboli hanno continuamente la meglio sui forti — ciò avviene perché essi sono in gran numero, sono anche più accorti... Darwin ha dimenticato lo spirito (— il che è inglese!), i deboli hanno più spirito... Si deve aver bi­sogno di spirito, per riceverne, — lo si perde quando non se ne ha più biso­gno. Chi ha la forza, fa a meno dello spirito (— «lascia correre!», si pensa oggi in Germania, — «tanto ci resterà il Reich»...). Per spirito intendo, co­me si vede, la prudenza, la pazienza, l'astuzia, la simulazione, la grande padronanza di sé e tutto quel che è mimicry (a quest'ultima attiene una gran parte della cosiddetta virtù).

15.

Casistica di psicologi. — Quello è un conoscitore di uomini: a che scopo in realtà egli studia gli uomini? Vuole arraffare piccoli vantaggi su di loro, o anche grandi, — è un politico!... Anche quell'altro è un conoscitore di uomini: e voi dite che non vuole nulla per sé, che è un grande «impersona­le». Guardate meglio! Forse vuole addirittura un vantaggio anche peggio­re: sentirsi superiore agli uomini, poterli guardare dall'alto, non confon­dersi più con loro. Questo «impersonale» è uno che disprezza gli uomini: e quel primo è la specie più umana, nonostante ogni apparenza. Egli almeno si mette alla pari, almeno ci si mette dentro...

16.

Il tatto psicologico dei Tedeschi mi sembra messo in questione da tutta una serie di casi, di cui la modestia mi impedisce di fornire l'elenco. In un solo caso non mi mancherà un valido motivo per giustificare la mia tesi: non perdono ai Tedeschi di essersi sbagliati su Kant e sulla sua «filosofia delle scappatoie», come io la chiamo, — questo non era il tipo dell'onestà intellettuale. — L'altra cosa che non posso sentire è una famigerata «e»: i Tedeschi dicono «Goethe e Schiller» — io temo che dicano «Schiller e Goethe»... Non lo si conosce ancora, questo Schiller? — Ci sono «e» an-

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che peggiori; ho udito con le mie orecchie, per quanto solo tra professori universitari, «Schopenhauer e Hartmann»...

17. Gli uomini più spirituali, premesso che siano i più coraggiosi, vivono an­

che le tragedie di gran lunga più dolorose: ma onorano la vita, appunto perché essa oppone loro la sua più forte ostilità.

18. Sulla «coscienza intellettuale». — Nulla oggi mi sembra più raro della

vera ipocrisia. Sospetto fortemente che a questa pianta non si confaccia l'aria mite della nostra civiltà. L'ipocrisia si addice a un'epoca di solida fe­de: nella quale, neppure essendo costretti a ostentare una fede diversa, ci si separava da quella che si aveva. Oggi ce ne separiamo; oppure, cosa ancor più consueta, ce ne addossiamo anche una seconda, — sinceri rimaniamo in ogni caso. Senza dubbio oggi è possibile avere un numero assai maggio­re di convinzioni che non una volta: possibile, vale a dire consentito, vale a dire non dannoso. Di qui nasce la tolleranza verso se stessi. — La tolleran­za verso se stessi consente di avere numerose convinzioni: esse convivono pacificamente l'una accanto all'altra, — evitano, come tutti oggi, di com­promettersi. Come ci si compromette oggi? Essendo coerenti. Andando dritti davanti a sé. Essendo meno che quintuplici. Essendo genuini... Temo assai che l'uomo moderno per alcuni vizi sia semplicemente troppo pigro: sicché questi vanno addirittura estinguendosi. Ogni cosa cattiva che sia condizionata da una forte volontà — e forse non esiste nulla di cattivo sen­za forza di. volontà — nella nostra aria tiepida degenera in virtù... I pochi ipocriti che ho conosciuto imitavano l'ipocrisia: erano, come oggi lo è qua­si un uomo su dieci, degli attori. —

19.

Bello e brutto. — Nulla è più condizionato, diciamo anche più limitato, del nostro senso del bello. Chi volesse pensarlo scevro del piacere che l'uo­mo prova per l'uomo, perderebbe subito il terreno sotto i piedi. Il «bello in sé» è soltanto una parola, non è neppure un concetto. Nel bello l'uomo si pone come misura di perfezione: in determinati casi egli vi adora se stesso. Una specie non può far altro che consentire in tal guisa soltanto a se stessa. Il suo istinto più basso, quello della conservazione e dell'accrescimento di sé, si irradia anche in queste sublimità. L'uomo crede il mondo stesso so­vraccarico di bellezza, — egli dimentica di esserne la causa. Lui soltanto gli ha fatto dono della bellezza, ah!, solo di una bellezza umana, troppo uma­na... In fondo l'uomo si specchia nelle cose, considera bello tutto ciò che gli rimanda la sua immagine: il giudizio di «bello» è la vanità della sua spe­cie... Un piccolo sospetto potrebbe infatti sussurrare all'orecchio dello scettico la domanda: il mondo è realmente abbellito dal fatto che l'uomo lo ritiene bello? Egli lo ha umanizzato: questo è tutto. Ma nulla, nulla af­fatto ci garantisce che proprio l'uomo rappresenti il modello della bellezza. Chissà che aspetto egli avrebbe agli occhi di un superiore giudice del gusto? forse temerario? forse persino divertente? forse un po' arbitrario?... «Dio­niso, divino, perché mi tiri le orecchie?», chiese una volta Arianna al suo filosofico amante durante uno di quei famosi dialoghi a Nasso. «Trovo

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nelle tue orecchie qualcosa di spiritoso, Arianna: perché non sono ancora più lunghe?»

20.

Nulla è bello, soltanto l'uomo è bello: su questa ingenuità si basa ogni estetica, essa è la sua prima verità. Aggiungiamoci subito anche la sua se­conda: nulla è brutto, tranne l'uomo che degenera, — così viene circoscrit­to l'ambito del giudizio estetico. — A una verifica fisiologica, ogni brut­tezza indebolisce e affligge l'uomo. Essa gli ricorda la decadenza, il perico­lo, l'impotenza; l'uomo ci perde realmente in forza. Si può misurare l'ef­fetto del brutto con il dinamometro. Quando l'uomo in genere viene avvili­to, allora fiuta la vicinanza di qualcosa di «brutto». 11 suo senso di poten­za, la sua volontà di potenza, il suo coraggio, il suo orgoglio — questo con il brutto cade, con il bello si potenzia... Nell'uno come nell'altro caso traiamo una conclusione: le sue premesse sono accumulate in enorme quantità nell'istinto. Il brutto viene inteso come segno e sintomo di dege­nerazione: quel che sia pure alla lontana ricorda la degenerazione, provoca in noi il giudizio di «brutto». Ogni segno di esaurimento, di pesantezza, di vecchiaia, di stanchezza, ogni specie di non libertà, come il crampo, la pa­ralisi, soprattutto l'odore, il colore, la forma del disfacimento, della putre­fazione, sia pure nella loro estrema rarefazione in simbolo — tutto ciò pro­voca un'identica reazione, il giudizio di valore «brutto». Un odio qui in­sorge: che cosa odia allora l'uomo? Ma non esiste dubbio: il tramonto del suo tipo. Egli qui odia dal più profondo istinto della specie; in questo odio c'è brivido, preveggenza, profondità, lungimiranza, — è l'odio più pro­fondo che esista. E a causa sua l'arte è profonda...

21.

Schopenhauer. — Schopenhauer, l'ultimo tedesco che vada preso in considerazione (— che sia un fatto europeo, come Goethe, come Hegel, come Heinrich Heine, e non semplicemente un fatto locale, «nazionale»), è per uno psicologo un caso di prim'ordine: ossia come tentativo perverso e geniale di chiamare in campo, a favore di una complessiva valutazione ni­chilistica della vita, proprio le istanze opposte, le grandi autoaffermazioni della «volontà di vita», le forme d'esuberanza della vita. Egli ha interpre­tato, nell'ordine, Varte, l'eroismo, il genio, la bellezza, la grande compas­sione, la conoscenza, la volontà di verità, la tragedia, come effetti della «negazione» o del bisogno di negazione del «volere» — la più grande falsi­ficazione psicologica che, a parte il cristianesimo, esista nella storia. A un'osservazione più attenta egli è in ciò semplicemente l'erede dell'inter­pretazione cristiana: solo che ha saputo approvare ancora in senso cristia­no, ossia nichilistico, anche quel che il cristianesimo aveva respinto, i gran­di fatti culturali dell'umanità (— ossia come vie per la «redenzione», come forme preliminari della «redenzione», come stimolanti del bisogno di «re­denzione»...).

22.

Prendo un caso particolare. Schopenhauer parla della bellezza con un ardore malinconico, — perché, in ultima analisi? Perché in essa egli vede un ponte sul quale ci si spinge avanti, oppure si è presi dalla sete di spinger-

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SCORRIBANDE DI UN INATTUALE 743

si più avanti... Essa è per lui la momentanea redenzione della «volontà» — essa invita alla redenzione eterna... In particolare egli la elogia come re­dentrice del «punto focale della volontà», della sessualità, — nella bellezza vede negato l'istinto della procreazione... Strano santo! Qualcuno ti con­traddice ed è, temo, la natura. A che scopo esiste in generale la bellezza nel suono, nel colore, nel profumo, nel ritmico movimento della natura? che cos'è a far spuntare la bellezza? — Per fortuna lo contraddice anche un fi­losofo. L'autorità, nientemeno, del divino Platone (— è Schopenhauer stesso a chiamarlo così), sostiene un altro principio: che ogni bellezza sti­mola alla procreazione, — che appunto questo è il proprium del suo effet­to, dai fatti più sensuali a quelli più spirituali...

23.

Platone va oltre. Dice, con un'innocenza per la quale bisogna esser Gre­ci e non «cristiani», che non esisterebbe filosofia platonica se ad Atene non ci fossero giovinetti così belli: basta la loro vista a trasportare in un'erotica ebbrezza l'anima del filosofo e a non darle pace sino a che essa non abbia fatto cadere il seme di tutte le cose elevate in un così bel terreno. Anche lui, uno strano santo! — non si crede alle proprie orecchie, anche ammesso che si creda a Platone. Per lo meno si indovina che in Atene si filosofava diver­samente, soprattutto pubblicamente. Nulla è meno greco della ragnatela concettuale intessuta da un eremita, amor intellectualis dei al modo di Spi­noza. La filosofia al modo di Platone andrebbe piuttosto definita come una competizione erotica, come un perfezionamento e una interiorizzazio­ne dell'antica ginnastica agonale e delle sue premesse... Che cosa crebbe, alla fine, da questo erotismo filosofico di Platone? Una nuova forma arti­stica dell'agone greco, la dialettica. — Ricordo ancora, contro Schopen­hauer e a onore di Platone, che anche tutta la più alta cultura e letteratura della Francia classica è cresciuta sul terreno dell'interesse sessuale. In essa si può cercare ovunque la galanteria, i sensi, la competizione tra i sessi, «la donna», — non si cercherà mai invano...

24.

L'art pour l'art. — La lotta contro il fine nell'arte è sempre la lotta con­tro la tendenza moraleggiante dell'arte, contro la sua subordinazione alla morale. L'art pour l'art significa: «al diavolo la morale!». — Ma anche questa ostilità tradisce la supremazia del pregiudizio. Se dall'arte si è esclu­so il fine della predicazione morale e del miglioramento degli uomini, non ne consegue ancora che l'arte in genere sia priva di un fine, di una meta, di un senso, che sia insomma l'art pour l'art — un verme che si morde la co­da. «Meglio nessun fine di un fine morale!» — dice la nuda passione. Uno psicologo chiederà invece: che cosa fa ogni arte? non loda forse? non esal­ta forse? non sceglie? non dà risalto? Con tutto ciò essa rafforza o indebo­lisce determinate valutazioni... È questo solo un fatto secondario? un ca­so? qualcosa di cui l'istinto dell'artista non sarebbe per nulla partecipe? Oppure: non è il presupposto perché l'artista possa...? Il suo più profondo istinto si rivolge all'arte o non piuttosto al senso dell'arte, alla vita! a una vita quale si può desiderare? — L'arte è il grande stimolante alla vita: co­me la si potrebbe intendere priva di fine, di meta, come l'art pour l'art! — Resta però una questione: l'arte rende manifesti anche molti lati brutti, du­ri. problematici della vita, — non sembra con ciò detestare la vita? — E in

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effetti ci furono filosofi che le diedero questo senso: Schopenhauer inse­gnava che il «liberarsi dalla volontà» era l'intento complessivo dell'arte, e venerava il «disporre alla rassegnazione» come la grande utilità della trage­dia. — Ma questo — l'ho già fatto capire — è ottica da pessimisti e «ma­locchio» —: bisogna appellarsi agli artisti stessi. Che cosa comunica di sé l'artista tragico? Non è appunto la mancanza di paura davanti al terribile e al problematico, ciò che egli ci mostra? — Questo stato stesso è qualcosa di altamente desiderabile; chi lo conosce, gli tributa il massimo onore. Egli lo comunica, lo deve comunicare, posto che sia un artista, un genio della co­municazione. Il coraggio e la libertà del sentimento di fronte a un possente nemico, a una sublime avversità, a un problema che suscita orrore — que­sto è lo stato vittorioso che l'artista tragico sceglie ed esalta. Davanti alla tragedia il lato guerriero della nostra anima celebra i suoi saturnali; chi è avvezzo al dolore, chi va in cerca del dolore, l'uomo eroico, con la tragedia celebra la sua esistenza, — a lui solo l'artista tragico mesce un sorso di questa dolcissima crudeltà. —

25.

Accontentarsi degli uomini, tener aperta la casa del proprio cuore, è li­berale, ma è soltanto liberale. I cuori capaci di una nobile ospitalità li si ri­conosce dalle molte finestre con le tende abbassate e le imposte chiuse: essi tengono vuote le loro stanze migliori. Perché? — Perché aspettano ospiti dei quali non ci si «accontenti»...

26.

Non ci stimiamo più abbastanza quando apriamo il nostro cuore. Le no­stre vere e proprie esperienze vissute non sono affatto loquaci. Non po­trebbero comunicare se stesse neppure se volessero. Questo perché manca loro la parola. Le cose per le quali troviamo parole, sono anche quelle che abbiamo già superato. In ogni discorso c'è un granello di disprezzo. La lin­gua, a quanto sembra, è stata inventata soltanto per ciò che è mediocre, medio, comunicabile. Con il linguaggio, chi parla già si volgarizza. — Da una morale per sordomuti e altri filosofi.

27.

«Questo ritratto è incantevolmente bello!»... La donna letterata, insod­disfatta, eccitata, vuota nel cuore e nelle viscere, la quale ad ogni momento tende, con dolorosa curiosità, l'orecchio all'imperativo che dalle profondi­tà della sua organizzazione sussurra «aut liberi aut libri»: la donna lettera­ta, colta abbastanza per comprendere la voce della natura anche quando parla in latino, e d'altra parte vanitosa e oca abbastanza per parlare tra sé in segreto ancora in francese «je me verrai, je me tirai, je m'extasierai etje dirai: Possible, quej'aje eu tant d'esprit?»...

28.

Prendono la parola gli «impersonali». — «Nulla ci riesce più facile che l'esser saggi, pazienti, superiori. Noi grondiamo dell'unguento della tolle­ranza e della simpatia, siamo giusti in modo assurdo, perdoniamo tutto. Appunto per questo dovremmo comportarci in maniera un po' più rigoro-

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SCORRIBANDE DI UN INATTUALE 745

sa; appunto per questo dovremmo di tanto in tanto allevarci una piccola passione, un piccolo vizio di passione. Ciò potrà riuscirci duro; e tra noi ri­deremo forse dell'aspetto che allora assumeremo. Ma a che serve! Non ci resta altro modo per superare noi stessi: è questo il nostro ascetismo, il no­stro modo di espiare...» Diventar personali — la virtù degli «impersona­li»...

29. Da un esame di laurea. — «Qual è il compito di ogni istruzione superio­

re?» — Fare dell'uomo una macchina. — «Qual è il mezzo per raggiungere questo scopo?» — Egli deve imparare ad annoiarsi. — «Come si ottiene ciò?» — Con il concetto di dovere. — «Qual è il suo modello a tale propo­sito?» — Il filologo: egli insegna a sgobbare. — «Qual è l'uomo perfetto?» — Il funzionario statale. — «Quale filosofia ci dà la formula suprema del funzionario statale?» — Quella di Kant: il funzionario statale come cosa in sé posto a giudice del funzionario statale come fenomeno. —

30.

// diritto alla stupidità. — Il lavoratore stanco, dal respiro lento, dallo sguardo bonario, che lascia che le cose vadano come vogliono andare: que­sto tipico personaggio che oggi, nell'epoca del lavoro (e del «Reich»! —) s'incontra in tutte le classi sociali, avanza oggi diritti proprio sull'arte, compreso il libro, soprattutto il giornale — e tanto più sulla bella natura, sull'Italia... L'uomo della sera, dai «selvaggi istinti dolcemente sopiti», di cui parla Faust, ha bisogno della frescura estiva, dei bagni di mare, del ghiacciaio, di Bayreuth... In tali epoche l'arte ha diritto alla pura scioc­chezza — come una specie di vacanza per lo spirito, l'arguzia e il sentimen­to. Wagner lo ha capito. La pura sciocchezza fa ristabilire...

31.

Ancora un problema di dieta. — I mezzi con cui Giulio Cesare si difen­deva dagli acciacchi e dal mal di testa: marce lunghissime, tenore di vita semplicissimo, ininterrotto soggiorno all'aria aperta, continui strapazzi — queste sono, all'incirca, le misure per conservare e difendere in generale, dalla sua estrema vulnerabilità, quel meccanismo delicato, funzionante ad un'altissima pressione, che si chiama genio. —

32.

Parla l'ìmmoralista. — Nulla è più contrario al gusto di un filosofo, del­l'uomo quando desidera... Se egli vede l'uomo soltanto nel suo agire, se vede questo animale tanto valoroso, tanto astuto, tanto resistente, perduto pure in labirintici frangenti, quanto degno di ammirazione gli appare l'uo­mo! Lo incoraggia persino... Ma il filosofo disprezza l'uomo che desidera, e anche l'uomo «desiderabile» — e in genere tutte le cose che l'uomo può desiderare, tutti i suoi ideali. Se un filosofo potesse essere nichilista, lo sa­rebbe perché dietro tutti gli ideali dell'uomo trova il nulla. Oppure nean­che il nulla — ma soltanto ciò che è indegno, assurdo, malato, vile, stanco, ogni sorta di feccia della svuotata coppa della sua vita... Come mai l'uo­mo, così degno di venerazione come realtà, non merita rispetto alcuno

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quando desidera? Deve forse scontare il fatto di esser così valente come realtà? Deve compensare il suo agire, la tensione della mente e della volon­tà in ogni agire, distendendo le membra nell'immaginario e nell'assurdo? — La storia dei suoi desideri è stata sinora la partie honteuse dell'uomo: ci si guardi dal leggere troppo a lungo in essa. Quel che giustifica l'uomo è la sua realtà, — essa lo giustificherà in eterno. Quanto più prezioso è l'uomo reale a fronte di un qualsiasi uomo semplicemente desiderato, sognato, mendacemente inventato! a paragone di un qualsiasi uomo ideale!... E sol­tanto l'uomo ideale è contrario al gusto di un filosofo.

33.

Valore naturale dell'egoismo. — L'egoismo ha tanto valore quanto ne ha, fisiologicamente, colui che lo possiede: può valere moltissimo, può es­sere di nessun valore e spregevole. In base a ciò si può giudicare, di ogni in­dividuo, se egli rappresenti la linea ascendente o discendente della vita. Una volta stabilito questo, si ha anche un canone di quel che vale il suo egoismo. Se egli rappresenta l'ascendere della linea, il suo valore è real­mente straordinario, — e per amore della vita nella sua totalità, che con lui compie un passo avanti, dovrà essere estrema la cura per mantenere o per­sino creare il suo optimum di condizioni. Il singolo, l'«individuo», come sinora lo hanno inteso popoli e filosofi, è anzi un errore: di per sé non è nulla, non un atomo, non un «anello della catena», nulla di semplicemente ereditato da prima, — egli è l'intera Unica Linea Uomo sino a lui stesso... Se rappresenta lo sviluppo discendente, la decadenza, la degenerazione cronica, la malattia (— le malattie sono, in complesso, già conseguenze e non cause della decadenza) non gli spetta molto valore, e la più ovvia equi­tà vuole che porti via il meno possibile ai ben riusciti. È semplicemente il loro parassita...

34.

Cristiano e anarchico. — Quando l'anarchico, come portavoce di strati sociali in declino, reclama con bella indignazione «diritto», «giustizia», «parità di diritti», egli si trova soltanto sotto il peso della sua incultura, che non sa comprendere perché egli in realtà soffra, — di che cosa sia po­vero, di vita... Lo domina un impulso di causalità: qualcuno deve aver col­pa del fatto che egli si trovi male... La «bella indignazione» gli fa inoltre anche bene, per tutti i poveri diavoli brontolare è un piacere — fa provare una piccola ebbrezza di potere. Già la lamentela, il lagnarsi possono confe­rire alla vita un fascino grazie al quale la si sopporta: in ogni lamentela c'è una sottile dose di vendetta-, il proprio star male, a volte persino la propria malvagità, li si rinfaccia a coloro che sono diversi, come un'ingiustizia, un inammissibile privilegio. «Se io sono una canaglia, anche tu dovresti esser­lo»: la rivoluzione si fa in base a questa logica. — In nessun caso il lagnarsi approda a qualcosa: esso proviene dalla debolezza. Che si ascriva il pro­prio star male agli altri o a se stessi — la prima cosa la fa il socialista, la se­conda, per esempio, il cristiano —, non costituisce una vera e propria dif­ferenza. L'elemento comune, diciamo anche l'indegno in ciò, è che qualcu­no debba essere colpevole del fatto che si soffra — insomma che colui che soffre si prescriva, contro la propria sofferenza, il miele della vendetta. Gli oggetti di questo bisogno di vendetta, che è come un bisogno di piacere, so­no cause occasionali: il sofferente trova ovunque cause per dare sfogo alla

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sua piccola vendetta, — se è cristiano, ripetiamo, le trova in se stesso... Il cristiano e l' anarchico — ambedue sono décadents. — Ma anche quando il cristiano condanna, diffama, insozza il «mondo», lo fa per Io stesso istinto per cui il lavoratore socialista condanna, diffama, insozza la società: il «giudizio universale» stesso è ancora il dolce conforto della vendetta — la rivoluzione come se l'aspetta anche il lavoratore socialista, solo pensata un po' più lontana... L'«al di là» stesso — a che servirebbe un al di là se non fosse un mezzo per insozzare l'ai di qua?...

35. Critica della morale della décadence. — Una morale «altruistica», una

morale in cui l'egoismo languisca —, resta in ogni caso un brutto segno. Ciò vale per il singolo, ciò vale soprattutto per i popoli. Viene a mancare il meglio, quando comincia a mancare l'egoismo. Scegliere istintivamente ciò che è dannoso per noi, essere allettati da motivi «disinteressati» fornisce quasi la formula della décadence. «Non cercare il proprio vantaggio» — è semplicemente la foglia di fico per uno stato di fatto ben diverso, ossia fi­siologico: «non so più trovare il mio vantaggio»... Disgregazione degli istinti! — Quando diventa altruista, l'uomo è finito. — Invece di dire inge­nuamente «io non valgo più nulla», la menzogna della morale sulla bocca del décadent dice: «Nulla ha valore, — la vita non vale nulla»... Un tale giudizio resta infine un grave pericolo, ha un effetto contagioso, — su tut­to il fradicio terreno della società esso non tarda a lussureggiare in una tro­picale vegetazione di concetti, ora come religione (cristianesimo), ora come filosofia (schopenhauerismo). Talvolta questa vegetazione di tossicoden-dri, cresciuta dalla putrefazione, avvelena con i suoi miasmi la vita, lunga­mente, per millenni...

36.

Morale per medici. — Il malato è un parassita della società. In certe con­dizioni non è decoroso vivere più a lungo. Continuare a vegetare in una im­belle dipendenza dai medici e dalle pratiche mediche, dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita, dovrebbe suscitare nella so­cietà un profondo disprezzo. I medici dal canto loro dovrebbero essere i portatori di questo disprezzo, — non ricette, ma ogni giorno una nuova dose di disgusto per il loro paziente... Creare una nuova responsabilità, quella del medico, per tutti quei casi in cui l'interesse supremo della vita, della vita che ascende, esiga il reprimere e lo spinger da parte, senza alcun riguardo, la vita che degenera — responsabilità, ad esempio, per il diritto alla procreazione, per il diritto di nascere, per il diritto di vivere... Morire con fierezza, quando non è più possibile vivere con fierezza. La morte scel­ta spontaneamente, la morte eseguita al tempo giusto, con chiarezza e leti­zia, in mezzo a figli e a testimoni: in modo che sia ancora possibile prender realmente congedo, quando sia ancora presente colui che si congeda, come pure una reale valutazione di quanto abbiamo raggiunto e voluto, una somma della vita — tutto ciò in antitesi a quella miserevole e orrenda com­media che il cristianesimo ha fatto dell'ora della morte. Non si dovrà mai perdonare al cristianesimo di aver abusato della debolezza del morente per violentarne la coscienza, e del modo stesso in cui si muore per dar giudizi di valore sull'uomo e sul suo passato! — Qui si tratta di stabilire, a dispet­to di ogni viltà del pregiudizio, soprattutto l'apprezzamento giusto, vale a

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dire fisiologico, della cosiddetta morte naturale: che in ultima analisi è an­ch'essa una morte «innaturale», un suicidio. Non si perisce mai a causa d'altro se non di se stessi. Solo che la morte nelle condizioni più spregevoli è una morte non libera, una morte a tempo indebito, una morte da pusilla­nimi. Si dovrebbe, per amore della vita —, desiderare una morte diversa, libera, consapevole, senza imprevisti, senza sorprese... Infine un consiglio per i signori pessimisti e gli altri décadents. Non è in nostro potere evitare di venire al mondo: ma noi possiamo riparare a quest'errore — giacché tal­volta è un errore. Se ci si sopprime si fa la cosa più degna di rispetto che esista: in tal modo si merita quasi di vivere... La società, che dico!, la vita stessa trae più vantaggio da questo che da una qualsiasi «vita» trascorsa nella rinuncia, nell'anemia e in altre virtù —, abbiamo liberato gli altri dal­la nostra presenza e la vita da un'obiezione... Il pessimismo, pur, vert, si dimostra soltanto mediante l'autoconfutazione dei signori pessimisti: biso­gna procedere ancora d'un passo nella sua logica, non negare semplice­mente la vita con la «volontà e rappresentazione», come ha fatto Schopen­hauer —, bisogna innanzitutto negare Schopenhauer... Detto tra parente­si, il pessimismo, per quanto contagioso possa essere, tuttavia non aumen­ta nel complesso la morbosità di un'epoca, di una generazione: ne è l'e­spressione. Si cade vittime di esso così come si cade vittime del colera: si deve già essere sufficientemente predisposti alla malattia. Il pessimismo stesso non produce neppure un décadent in più; ricordo i risultati della sta­tistica, secondo i quali gli anni in cui infuria il colera non si distinguono dagli altri per quanto riguarda l'ammontare complessivo delle mortalità.

37.

Siamo diventati più morali? — Contro il mio concetto di «al di là del be­ne e del male» è scesa in campo, come c'era da aspettarsi, tutta la ferocia dell'instupidimento morale che in Germania, com'è noto, passa per essere la morale stessa: a tale proposito avrei da raccontare graziose storielle. Mi si diede soprattutto da considerare l'«innegabile superiorità» della nostra epoca nel giudizio morale, il progresso qui realmente compiuto: paragona­to a noi, un Cesare Borgia non sarebbe affatto da presentare come un «uo­mo superiore», come una specie di superuomo, come faccio io... Un redat­tore svizzero, del «Bund», non senza esprimere il suo rispetto per tanta au­dacia, si è spinto tanto in là da comprendere il senso della mia opera nel suo proporre la eliminazione di tutti i nobili sentimenti. Obbligatissimo! — come risposta, mi permetto di sollevare la questione se noi siamo realmen­te diventati più morali. Il fatto che tutti lo credano è già un'obiezione... Noi uomini moderni, molto sensibili, vulnerabili, che usiamo e pretendia­mo cento riguardi, ci figuriamo in effetti che questa delicata umanità che rappresentiamo, questa raggiunta unanimità nell'indulgenza, nella soccor-revolezza, nella reciproca fiducia, sia un progresso positivo, grazie al quale saremmo molto al di sopra degli uòmini del Rinascimento. Ma ogni epoca pensa così, deve pensare così. Certo è che non potremmo calarci, e neppu­re pensarci, nelle condizioni del Rinascimento: i nostri nervi non reggereb­bero quella realtà, per non parlare dei nostri muscoli. Ma questa incapaci­tà non è affatto prova di un progresso, bensì soltanto di un'indole diversa, più tarda, di un'indole più debole, più delicata, più vulnerabile, dalla qua­le necessariamente si produce una morale ricca di riguardi. Ma se pensassi­mo la nostra delicatezza e tardività, il nostro invecchiamento fisiologico come non esistenti, anche la nostra morale dell'«umanizzazione» perde-

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rebbe subito il suo valore — nessuna morale ha valore in sé —: essa ispire­rebbe disprezzo a noi stessi. D'altra parte, non dubitiamo che noi moderni, con la nostra umanità spessamente ovattata, che non vuole urtare nemme­no contro una pietra, ai contemporanei di Cesare Borgia offriremmo una commedia da morir dal ridere. In realtà siamo involontariamente oltremo­do spassosi, con le nostre moderne «virtù»... II decadimento degli istinti ostili e suscitatori di diffidenza — e questo sarebbe il nostro «progresso» — rappresenta soltanto una delle conseguenze del generale decadimento della vitalità: costa cento volte più fatica, più attenzione far valere un'esi­stenza così condizionata, così tarda. Allora ci si aiuta a vicenda e ciascuno è, sino a un certo grado, ammalato e infermiere. Questo allora si chiama «virtù» —: tra uomini che ancora conobbero una vita diversa, più piena, più prodiga, più traboccante, lo si sarebbe chiamato diversamente, «viltà» forse, «miserevolezza», «morale da vecchie donnette»... Il nostro ingenti­limento dei costumi — questo è il mio principio, questa è, se si vuole, la mia innovazione — è un effetto della decadenza; la durezza e la terribilità dei costumi può al contrario essere effetto della sovrabbondanza di vita: in tal caso infatti si può anche arrischiare molto, sfidare molto, e anche dissi­pare molto. Quello che una volta era il sale della vita, per noi sarebbe vele­no... Per l'indifferenza — anche questa è una forma di forza — siamo ugualmente troppo vecchi, troppo tardivi: la nostra morale della compas­sione, dalla quale io per primo ho messo in guardia, quello che si potrebbe chiamare l'impressionisme moral, è un'espressione in più della sovreccita­bilità fisiologica che è propria di tutto ciò che è décadent. Quel movimento che con la morale schopenhaueriana della compassione ha tentato di darsi una presentazione scientifica — un tentativo assai infelice! —, è il vero movimento di décadence nella morale e, come tale, profondamente affine alla morale cristiana. Le epoche forti, le culture nobili vedono nella com­passione, nelP«amore del prossimo», nella mancanza di sé e del sentimen­to di sé qualcosa di spregevole. — Le epoche vanno misurate in base alle loro forze positive — e quell'epoca così prodiga e ricca di destino, che è il Rinascimento, si configura allora come l'ultima grande epoca, e noi, noi moderni, con la nostra angosciosa cura di noi e il nostro amore del prossi­mo, con le nostre virtù di laboriosità, di modestia, di probità, di scientifici­tà — accumulatori, economici, meccanici — come un'epoca debole... Le nostre virtù sono condizionate, sono provocate dalla nostra debolezza... L'«uguaglianza», una certa effettiva equiparazione che si esprime unica­mente nella teoria della «parità di diritti», appartiene per sua natura alla decadenza: l'abisso tra uomo e uomo, classe sociale e classe sociale, la molteplicità dei tipi, la volontà di essere se stessi, di risaltare —, ciò che io chiamo pathos della distanza, è proprio di ogni epoca forte. La tensione, la distanza tra gli estremi diventano oggi sempre più piccole, — gli estremi stessi si cancellano sino a somigliarsi... Tutte le nostre teorie politiche e co­stituzioni statali, non escluso affatto il «Deutsches Reich», sono conse­guenze, necessarie conseguenze della decadenza; l'inconsapevole effetto della décadence si è impadronito sinanche degli ideali di singole scienze. La mia obiezione a tutta quanta la sociologia di Francia e Inghilterra resta che essa conosce per esperienza solo gli aspetti decadenti della società, e in pie­na innocenza considera i propri istinti di decadenza come norma del giudi­zio sociologico di valore. La vita che decade, la perdita di ogni forza orga­nizzatrice, vale a dire di ogni forza che separi, che spalanchi abissi, che su­bordini e sovrordini, diventa nella sociologia di oggi la formula dell'afe»-'«... I nostri socialisti sono décadents, ma anche il signor Herbert Spencer è

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un décadent, — egli vede nella vittoria dell'altruismo qualcosa di auspica­bile!...

38.

// mìo concetto di libertà. — Talvolta il valore di una cosa non sta in ciò che con essa si ottiene, ma in ciò che per essa si paga — in quello che ci co­sta. Faccio un esempio. Le istituzioni liberali cessano di esser liberali non appena le si è ottenute: non esistono allora istituzioni che, più di quelle li­berali, danneggino così radicalmente la libertà. Si sa quello che esse porta­no: minano la volontà di potenza, sono il livellamento, elevato a morale, di montagne e valli, rendono piccoli, vili e gaudenti — con esse trionfa ogni volta l'animale da gregge. Liberalismo: in tedesco, trasformazione in bestie da gregge... Sinché ancora si lotta per ottenerle, queste stesse istitu­zioni producono effetti completamente diversi; allora promuovono davve­ro, possentemente, la libertà. A meglio osservare, è la guerra che produce questi effetti, la guerra per le istituzioni liberali, la quale, in quanto guerra, fa perdurare gli istinti illiberali. E la guerra educa alla libertà. Che cos'è in­fatti libertà? Possedere la volontà di essere autoresponsabili. Mantenere la distanza che ci separa. Diventare più indifferenti alle difficoltà, alle avver­sità, alla privazione, e anche alla vita. Essere pronti a sacrificare degli uo­mini alla propria causa, senza escludere se stessi. Libertà significa che gli istinti virili, lieti di guerra e di vittoria, prevalgono su altri istinti, per esem­pio su quelli della «felicità». L'uomo diventato libero, e tanto più lo spiri' to diventato libero, calpesta la spregevole specie di benessere di cui sogna­no i bottegai, i cristiani, le mucche, le femmine, gli Inglesi e gli altri demo­cratici. L'uomo libero è guerriero. — In base a che si misura la libertà, ne­gli individui e nei popoli? In base alla resistenza che dev'esser superata, al­la fatica che costa rimanere in alto. Il tipo supremo di uomo libero lo si do­vrebbe cercare là dove continuamente viene superata la massima resisten­za: a cinque passi dalla tirannide, proprio sulla soglia del pericolo della schiavitù. Ciò è vero psicologicamente, se qui per «tiranni» si intendono istinti implacabili e terribili, che verso di sé esigono il massimo di autorità e disciplina — il tipo più bello: Giulio Cesare —; ciò è vero anche politica­mente, basta seguire il suo corso attraverso la storia. I popoli che avevano qualche valore, che diventarono di qualche valore, non lo diventarono mai sotto istituzioni liberali: il grande pericolo fece di essi qualcosa che merita rispetto, il pericolo che solo ci fa conoscere le nostre risorse, le nostre vir­tù, le nostre difese e le nostre armi, il nostro spirito, — che ci costringe a esser forti... Primo principio: occorre aver bisogno di esser forti: altrimen­ti non lo si diverrà mai. — Quelle grandi serre per la forte, la più forte spe­cie di uomini mai esistita, le comunità aristocratiche sul tipo di Roma e Ve­nezia, intendevano la libertà esattamente nel senso in cui io intendo la pa­rola libertà: come qualcosa che si ha e non si ha, che si vuole, che si con­quista...

39.

Critica della modernità. — Le nostre istituzioni non servono più a nulla: su questo si è tutti d'accordo. Ma ciò non dipende da esse, dipende da noi. Una volta venutici meno tutti gli istinti dai quali nascono le istituzioni, ci vengono meno le istituzioni in genere, perché noi non serviamo più a esse.

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Il democratismo è sempre stato la forma di decadimento della forza orga­nizzatrice: ho già caratterizzato in Umano, troppo umano (i, 318) la demo­crazia moderna, con le sue mezze misure quali il «Deutsches Reich», come la forma di decadenza dello Stato. Perché esistano istituzioni, deve esistere una specie di volontà, di istinto, di imperativo, antiliberale sino alla malva­gità: la volontà di tradizione, di autorità, di responsabilità estesa sui secoli, di solidarietà nelle catene di generazioni, in avanti e all'indietro, in infini-tum. Se questa volontà esiste, allora si fonda qualcosa come Vimperium Romanum: oppure come la Russia, Vunica potenza che oggi abbia durata nel suo corpo, che sia in grado di attendere, che ancora possa promettere qualcosa, — la Russia, il concetto opposto ai miseri Staterelli e alla nervo­sità europea, entrati in una situazione critica con la fondazione del Reich tedesco... L'intero Occidente non possiede più quegli istinti dai quali cre­scono le istituzioni, dai quali cresce il futuro: al suo «spirito moderno» nulla riesce forse altrettanto inviso. Si vive per l'oggi, si vive assai veloce­mente — si vive assai irresponsabilmente: e a questo si dà appunto il nome di «libertà». Ciò che rende tali le istituzioni è disprezzato, odiato, respinto: anche solo a sentire la parola «autorità», ci si crede in pericolo di una nuo­va schiavitù. A tanto arriva la décadence nell'istinto di valore dei nostri politici, dei nostri partiti politici: essi preferiscono istintivamente ciò che dissolve, che accelera la fine... Lo attesta il matrimonio moderno. Al ma­trimonio moderno è venuta visibilmente meno ogni ragione: ciò non costi­tuisce però un'obiezione contro il matrimonio, bensì contro la modernità. La ragione del matrimonio — consisteva nell'esclusiva responsabilità giuri­dica dell'uomo: in tal modo il matrimonio aveva un equilibrio, mentre og­gi zoppica con tutte e due le gambe. La ragione del matrimonio — consi­steva nella sua indissolubilità di principio: in tal modo esso riceveva un ac­cento che sapeva farsi udire di fronte agli imprevisti del sentimento, della passione e dell'istante. Consisteva altresì nella responsabilità delle famiglie per la scelta degli sposi. Con la crescente indulgenza per il matrimonio d'a­more si è eliminato addirittura il fondamento del matrimonio, l'unica cosa che faceva di esso un'istituzione. Un'istituzione mai e poi mai si fonda su una idiosincrasia, il matrimonio, come abbiamo detto, non lo si fonda sul-l'«amore», — lo si fonda sull'istinto sessuale, sull'istinto di possesso (mo­glie e figli come proprietà), sull'istinto di dominio, che continua ad orga­nizzare per sé la più piccola struttura del dominio, la famiglia, che ha biso­gno di figli e di eredi per tener salda, anche fisiologicamente, la misura di potere, di influenza, di ricchezza che è stata raggiunta, per preparare lun­ghi compiti, una solidarietà di istinti tra i secoli. Il matrimonio come istitu­zione già implica il consenso della forma di organizzazione più grande e duratura: se la società stessa nella sua totalità non può rendersi garante di sé fino alle più remote generazioni, allora il matrimonio non ha alcun sen­so. — Il matrimonio moderno ha perso il suo senso — di conseguenza lo si abolisce.

40.

La questione operaia. — La stupidità, in fondo la degenerazione degli istinti che è causa di ogni stupidità, sta nel fatto che esista una questione operaia. Di certe cose non si fa questione: primo imperativo dell'istinto. — Non riesco assolutamente a prevedere cosa si voglia fare dell'operaio euro­peo, dopo aver fatto di lui un problema. Egli si trova troppo bene per non

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chiedere via via sempre di più, con sempre maggiore impudenza. Egli ha infine, a suo vantaggio il grande numero. Non esiste più alcuna speranza che una specie di uomo umile e modesta, sul tipo cinese, si sviluppi qui in classe sociale: e questo sarebbe stato ragionevole, questo sarebbe stato ad­dirittura una necessità. Che cosa si è fatto invece? — Si è fatto di tutto per distruggere in germe ogni premessa del genere, — con la più irresponsabile spensieratezza si sono completamente distrutti gli istinti in virtù dei quali un operaio diventa possibile come classe, diventa possibile a se stesso. Si è fatto l'operaio abile alla leva, gli si è dato il diritto di associazione, il dirit­to di voto: perché stupirsi se l'operaio già oggi sente la sua esistenza come uno stato di bisogno (in termini morali, come una ingiustizia —)? Ma che cosa si vuole? torniamo a chiedere. Se si vuole uno scopo, allora bisogna volere anche i mezzi: se si vogliono degli schiavi, si è pazzi a educarli da pa­droni. —

41.

«Libertà che io non ritengo tale...» — In epoche come quella di oggi, abbandonarsi agli istinti è una sciagura in più. Questi istinti si contraddico­no, si disturbano, si distruggono a vicenda: ho già definito il moderno co­me un'autocontraddizione fisiologica. La ragione dell'educazione vorreb­be che almeno uno di questi sistemi di istinti venisse paralizzato sotto una ferrea pressione, per consentire a un altro sistema di irrobustirsi, di raffor­zarsi, di dominare. Oggi si dovrebbe rendere possibile l'individuo innanzi­tutto potandolo: possibile, vale a dire completo... Accade il contrario: le rivendicazioni di autonomia, di libero sviluppo, di laisser aller vengono avanzate col maggior calore proprio da quelli per i quali nessuna briglia sa­rebbe troppo stretta — ciò vale in politicis, ciò vale nell'arte. Ma questo è un sintomo della décadence: il nostro moderno concetto di «libertà» è una prova ulteriore della degenerazione dell'istinto. —

42.

Dove c'è bisogno di fede. — Tra i moralisti e i santi nulla è più raro del­l'onestà; forse essi dicono il contrario, forse persino lo credono. Se infatti una fede è più utile, più efficace, più convincente di una ipocrisia consape­vole, l'ipocrisia diventa subito, per istinto, innocenza: primo principio per comprendere i grandi santi. Anche tra i filosofi, santi di un'altra specie, l'intero mestiere implica che essi ammettano soltanto determinate verità: quelle, cioè, per le quali il loro mestiere ha la pubblica sanzione — kantia­namente parlando, verità della ragion pratica. Essi sanno quello che deb­bono dimostrare, in ciò sono pratici — si riconoscono l'un l'altro dal fatto di concordare sulle «verità». — «Non devi mentire» — in tedesco: si guar­di, signor filosofo, dal dire la verità...

43.

Detto all'orecchio dei conservatori. — Quel che prima non si sapeva, quel che oggi si sa, si potrebbe sapere —, una regressione, un ritorno, in qualsiasi senso e grado, non è affatto possibile. Noi fisiologi almeno lo sappiamo. Ma tutti i preti e i moralisti vi hanno creduto, — essi volevano riportare l'umanità a una anteriore misura di virtù, riavvitarla all'indietro.

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La morale è sempre stata un letto di Procuste. Persino i politici hanno imi­tato in questo i predicatori di virtù: esistono tuttora partiti che sognano, come loro meta, che tutte le cose camminino al modo dei gamberi. Ma nes­suno è libero di essere gambero. Non c'è niente da fare: si deve camminare in avanti, voglio dire camminare passo dopo passo avanti nella décadence (— è questa la mia definizione del «progresso» moderno...)- Si può ostaco­lare questo sviluppo e, con l'ostacolarlo, arrestare, accumulare e rendere più veemente e improvvisa la degenerazione stessa: di più non si può. —

44.

Il mio concetto di genio. — I grandi uomini sono, come le grandi epo­che, materiali esplosivi nei quali è accumulata una forza immane; il loro presupposto, fisiologico e storico, è sempre che a lungo si sia raccolto, ac­cumulato, risparmiato e conservato per essi — che a lungo non sia avvenu­ta nessuna esplosione. Quando la tensione nella massa si è fatta troppo grande, basta lo stimolo più accidentale per chiamare al mondo il «genio», l''«azione», il grande destino. Che importa allora l'ambiente, l'epoca, lo «spirito del tempo», l'«opinione pubblica»! — Si prenda il caso di Napo­leone. La Francia della Rivoluzione, e ancor più la Francia prerivoluziona­ria, avrebbe prodotto il tipo opposto a quello di Napoleone: e lo ha anche prodotto. E poiché Napoleone era diverso, erede di una civiltà più forte, più lunga, più antica di quella che in Francia andava volatilizzandosi e frantumandosi, egli qui divenne signore, egli solo/u signore. I grandi uo­mini sono necessari, l'epoca in cui compaiono è fortuita; che essi ne diven­gano quasi sempre signori dipende solo dal fatto che sono più forti, che so­no più antichi, che più a lungo è stato accumulato perché si producessero. Tra un genio e la sua epoca esiste un rapporto come tra forte e debole, e anche come tra vecchio e giovane: l'epoca è sempre relativamente molto più giovane, più esile, più minorenne, più insicura, più infantile. — Che oggi in Francia si pensi a tal riguardo assai diversamente (anche in Germa­nia: ma questo ha poca importanza), che là sia diventata sacrosanta e quasi scientifica la teoria del milieu, una vera teoria da nevrotici, e che questo trovi credito persino tra i fisiologi, non «fa prevedere nulla di buono», fa venire tristi pensieri. — Anche in Inghilterra non si pensa diversamente, ma, certo, nessuno si turberà per questo. Per l'Inglese solo due strade sono aperte per accordarsi con il genio e il «grand'uomo»: la strada democrati­ca, al modo di Buckle, oppure quella religiosa, al modo di Carlyle. — Il pericolo insito nei grandi uomini e nelle grandi epoche è straordinario; ogni sorta di esaurimento, la sterilità, li seguono a ruota. Il grande uomo è una fine; la grande epoca, per esempio il Rinascimento, è una fine. Il genio — nelle opere, nelle azioni — è necessariamente un dissipatore: nello spen­dersi sta la sua grandezza... L'istinto di autoconservazione è per così dire sospeso; la violentissima pressione delle forze prorompenti gli impedisce qualsiasi riguardo e cautela. Questo vien detto «abnegazione»; in questo si esalta il suo «eroismo», la sua indifferenza al proprio benessere, la sua de­dizione a un'idea, a una grande causa, a una patria: tutti equivoci... Egli prorompe, straripa, si consuma, non si risparmia, — con fatalità, inelutta­bilmente, involontariamente, come è involontario lo straripare di un fiu­me. Ma poiché molto si deve a tali esplosivi, si è anche loro dato molto in cambio, per esempio una specie di morale superiore... È questa, anzi, la specie della umana gratitudine: essa fraintende i suoi benefattori. —

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45.

Il delinquente e ciò che gli è affine. — Il tipo del delinquente è il tipo del­l'uomo forte in condizioni avverse, un uomo forte reso malato. Gli manca­no i luoghi selvaggi, una certa natura e una forma di esistenza più libera e pericolosa, in cui sia legittimo tutto ciò che nell'istinto dell'uomo forte è arma e difesa. Le sue virtù sono messe al bando dalla società; gli impulsi più vivi che egli ha ancora con sé, presto si deformano a contatto di affetti deprimenti, del sospetto, del timore, del disonore. Ma questa è press'a po­co la ricetta della degenerazione fisiologica. Chi deve fare di nascosto, con lunga tensione, cautela, astuzia, le cose che sa far meglio, le cose che fareb­be più volentieri, diventa anemico; e poiché dai suoi istinti egli miete solo pericolo, persecuzione, sciagura, anche il suo sentimento verso questi istin­ti si stravolge — li sente come una fatalità. È la società, la nostra società mansuefatta, mediocre, castrata, il luogo in cui un uomo genuino, che pro­viene dai monti o dalle avventure sul mare, necessariamente degenera in criminale. O quasi necessariamente, perché ci sono casi in cui un uomo si­mile si dimostra più forte della società: il corso Napoleone è il caso più fa­moso. Per il problema che qui si presenta, è significativa la testimonianza di Dostoevskij — Dostoevskij, l'unico psicologo, tra l'altro, dal quale ho imparato qualcosa: lo annovero tra i più bei casi fortunati della mia vita, ancor più della scoperta di Stendhal. Quest'uomo profondo, che ebbe dieci volte ragione a disprezzare la superficialità dei Tedeschi, ha percepito in modo assai diverso da quanto egli stesso si aspettava i deportati siberiani, in mezzo ai quali visse a lungo, tutti criminali incalliti per i quali non esi­steva più alcuna via di ritorno nella società — li ha percepiti quasi fossero intagliati nel legno, nel legno migliore, più duro e pregiato che cresca in terra russa. Generalizziamo il caso del delinquente: immaginiamo nature alle quali, per un qualche motivo, manchi il comune consenso, le quali sap­piano di non esser ritenute benefiche, utili, — quel sentimento-ciandala di non esser considerate come uguali, ma come reiette, indegne, contamina-trici. Tutte le nature di questo genere hanno nei loro pensieri e nelle loro azioni il colore del sottosuolo; in esse tutto diventa più smorto che in colo­ro sulla cui esistenza si posa la luce del giorno. Ma quasi tutte le forme di esistenza che noi oggi elogiamo hanno vissuto una volta in questa aria se­misepolcrale: lo scienziato, l'artista, il genio, lo spirito libero, l'attore, il commerciante, il grande scopritore... Finché il prete fu considerato il tipo supremo, fu screditata ogni preziosa specie umana... Verrà — Io prometto — l'epoca in cui egli sarà considerato il tipo infimo, il nostro Ciandala, la specie d'uomo più mendace, più indecorosa... Richiamo l'attenzione sul fatto che ancor oggi, sotto il più mite regime etico che abbia mai dominato sulla terra, almeno in Europa, ogni deroga alla norma, ogni stare a lungo, troppo a lungo, in basso, ogni forma di esistenza inconsueta e oscura av­vicina a quel tipo che il criminale porta a compimento. Tutti gli innovatori dello spirito hanno per un certo tempo sulla fronte lo scialbo e fatalistico segno del Ciandala: non perché siano ritenuti tali, ma perché essi stessi sen­tono il tremendo abisso che li separa da tutto ciò che è sancito dall'uso e che viene onorato. Quasi ogni genio conosce, come una delle sue evoluzio­ni, l'«esistenza catilinaria», un sentimento di odio, di vendetta e di rivolta contro tutto ciò che già è, che non diviene più... Catilina — la forma di preesistenza di ogni Cesare. —

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46. Qui la vista è libera. — Può essere elevatezza d'animo se un filosofo ta­

ce; può essere amore, quando si contraddice; può essere una cortesia del­l'uomo che conosce, il mentire. È stato detto, non senza finezza: il est indi-gne des grands coeurs de répandre le trouble qu'ils ressentent: si deve ag­giungere soltanto che non temere quanto v'è di più indegno può parimenti essere grandezza d'animo. Una donna che ama, sacrifica il suo onore; un essere conoscente che «ama», sacrifica forse la sua umanità; un dio che amava, divenne ebreo...

47.

La bellezza non è un caso. — Anche la bellezza di una razza o di una fa­miglia, la grazia e la bontà di ogni suo gesto è frutto di un lavoro: essa è, come il genio, il risultato finale di un lavoro accumulato da generazioni. Bisogna aver molto sacrificato al buon gusto, aver fatto molto per amor suo, e molto tralasciato — il diciassettesimo secolo in Francia è mirabile in ambedue le cose —, bisogna aver avuto in esso un principio di scelta ri­guardo alla società, al luogo, al vestiario, all'appagamento sessuale, aver preferito la bellezza al vantaggio, alla consuetudine, all'opinione, all'indo­lenza. Suprema regola: non bisogna «lasciarsi andare» neppure di fronte a se stessi. — Le cose buone sono oltremodo costose: ed è sempre valida la legge per cui chi le possiede è diverso da chi le consegue. Ogni cosa buona è eredità: quel che non è frutto di eredità è imperfetto, è inizio... In Atene, al tempo di Cicerone che in proposito manifesta la sua meraviglia, gli uo­mini e i giovinetti erano per bellezza di gran lunga superiori alle donne: ma quanto lavoro e fatica a servizio della bellezza si era imposto per secoli il sesso maschile! — Non ci si deve infatti ingannare sul metodo: una pura disciplina di sentimenti e pensieri equivale a zero (— qui sta il grande equi­voco dell'educazione tedesca, che è affatto illusoria): bisogna innanzitutto persuadere il corpo. Il rigoroso mantenimento di atteggiamenti significati­vi e scelti, un impegno a vivere soltanto tra persone che non si «lasciano andare», basta pienamente a diventare significativi e scelti: nel giro di due o tre generazioni tutto è già interiorizzato. È decisivo, per il destino dei po­poli e dell'umanità, che la cultura inizi al posto giusto — non dall'anima (il che fu la funesta superstizione dei preti e dei mezzi preti): il posto giusto è il corpo, l'atteggiamento, la dieta, la fisiologia: il resto segue... Perciò i Greci rimangono il primo avvenimento culturale della storia — sapevano quel che occorreva fare, lo facevano; il cristianesimo, che disprezza il cor­po, è stato sino ad ora, per l'umanità, la sciagura più grande. —

48.

Progresso nel senso mio. — Anch'io parlo di «ritorno alla natura», ben­ché ciò sia propriamente non un regredire, bensì un arrivare in alto — in alto nella natura e nella naturalità elevata, libera, persino terribile, che gio­ca, può giocare, con grandi compiti... Per dirlo con un paragone: Napo­leone fu un frammento di «ritorno alla natura» come l'intendo io (per esempio in rebus tacticis, e ancor più, come sanno i militari, nella strate­gia). — Ma Rousseau — a che cosa voleva tornare, lui"! Rousseau, questo primo uomo moderno, idealista e canaglia in una sola persona; al quale era

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necessaria la «dignità» morale per sopportare il suo stesso aspetto; malato di una sfrenata vanità e di uno sfrenato disprezzo di sé. Anche questo aborto, accampato sulla soglia dell'epoca moderna, voleva un «ritorno al­la natura» — ma, chiediamo ancora, a che cosa voleva tornare Rousseau? — Odio Rousseau anche nella rivoluzione: essa è l'espressione storico-mondiale di questa duplicità di idealismo e canaglieria. La farsa sanguino­sa in cui si svolse questa rivoluzione, la sua «immoralità», poco mi interes­sano: quello che odio è il suo moralismo rousseauiano — le cosiddette «ve­rità» della rivoluzione, con le quali essa continua ad agire e a convincere tutto ciò che è piatto e mediocre. La dottrina dell'uguaglianza!... Ma non esiste veleno più pericoloso: essa infatti sembra predicata dalla giustizia stessa, mentre è la fine della giustizia... «Uguaglianza agli uguali, disugua­glianza ai disuguali» — questo dovrebbe essere il vero discorso della giusti­zia: e, come ne consegue, «mai rendere uguale ciò che è disuguale». — Il fatto che per questa dottrina dell'uguaglianza si sia agito così atrocemente e sanguinosamente, ha conferito a questa «idea moderna» par excellence una sorta di aureola di gloria e di fiamma, sicché la rivoluzione come spet­tacolo ha sedotto anche gli spiriti più nobili. Ciò infine non è un motivo per apprezzarla di più. — Vedo soltanto un uomo che la sentì come doveva esser sentita, con ribrezzo — Goethe...

49.

Goethe — un fatto non tedesco ma europeo: un grandioso tentativo di superare il diciottesimo secolo con un ritorno alla natura, con un ascendere alla naturalità del Rinascimento, una specie di autosuperamento da parte di questo secolo. — Egli ne portava in sé gli istinti più forti: la sentimenta­lità, l'idolatria per la natura, il senso antistorico, quello idealistico, quello non realistico e quello rivoluzionario (— quest'ultimo è soltanto una for­ma del senso non realistico). Egli chiamò in aiuto la storia, le scienze natu­rali, l'antichità, anche Spinoza e soprattutto l'attività pratica; si circondò soltanto di orizzonti chiusi; non si astrasse dalla vita, ma si immise in essa; non fu pusillanime e prese su di sé, sopra di sé e dentro di sé quante più co­se era possibile. Quel che voleva, era totalità; egli combatté la separazione di ragione, sensibilità, sentimento, volontà (— predicata nella più scorag­giante scolastica da Kant, agli antipodi di Goethe); si disciplinò per la tota­lità, creò se stesso... In un'epoca non orientata al realismo, Goethe fu un realista convinto: disse sì a tutto ciò che in essa gli fosse affine, — la sua più grande esperienza fu appunto quel!' ens realissimum chiamato Napo­leone. Goethe concepiva un uomo forte, di elevata cultura, versato in tutte le attività fisiche, capace di tenersi a freno, rispettoso di sé, che potesse osare di concedersi tutto l'ambito e la ricchezza della naturalità e che fosse abbastanza forte per questa libertà; l'uomo della tolleranza non per debo­lezza ma per la propria forza, perché capace di impiegare a proprio vantag­gio anche ciò di cui una natura mediocre sarebbe perita; l'uomo per il qua­le non esiste più nulla di proibito, tranne la debolezza, si chiami essa vizio o virtù... Un tale spirito divenuto libero sta con gioioso e fidente fatalismo in mezzo al tutto, nella fede che solo ciò che è isolato è riprovevole, e che ogni cosa si redime e si afferma nel tutto — egli non nega più... Ma una fe­de come questa è la più alta delle fedi possibili: l'ho battezzata dal nome di Dioniso. —

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50. Si potrebbe dire che, in un certo senso, il diciannovesimo secolo abbia

anch'esso perseguito tutto ciò cui Goethe aspirava come persona: una uni­versalità nell'intendere, nell'approvare, un lasciar-giungere-a-sé ogni cosa, un ardito realismo, un profondo rispetto per ogni realtà. Come accade che il risultato complessivo non sia un Goethe, ma un caos, un sospirare nichi­listico, un non-saper-che-fare, un istinto di affaticamento, che in praxi in­vita continuamente a riandare al diciottesimo secolo (— per esempio, come romanticismo del sentimento, come altruismo e ipersensibilità, come fem­minismo nel gusto, come socialismo nella politica)? Il diciannovesimo se­colo non è forse, soprattutto verso la fine, semplicemente un diciottesimo secolo potenziato, divenuto più rozzo, vale a dire un secolo di décadencel Sicché Goethe, non solo per la Germania ma per tutta l'Europa, sarebbe stato semplicemente un episodio, una bella gratuità? — Ma si fraintendo­no i grandi uomini, se li si guarda sotto la meschina prospettiva di una pubblica utilità. Che non si sappia trarre da loro alcun vantaggio, attiene anch 'esso, forse, alla grandezza...

51.

Goethe è l'ultimo Tedesco per il quale io nutra un profondo rispetto: egli avrebbe sentito tre cose che sento anch'io — inoltre ci intendiamo pure riguardo alla «croce»... Mi si domanda spesso perché io scriva in tedesco: da nessun'altra parte sarei letto peggio che in patria. Ma in fondo chissà se io poi desidero di essere letto, oggi? — Creare cose sulle quali il tempo pro­vi invano i suoi denti; sforzarsi, nella forma e nella sostanza, di ottenere una piccola immortalità — non sono mai stato abbastanza modesto da pretendere da me stesso qualcosa di meno. L'aforisma, la sentenza, in cui per primo sono maestro tra i Tedeschi, sono le forme dell'«eternità»; la mia ambizione è dire in dieci frasi quello che chiunque altro dice in un li­bro, — quello che chiunque altro non dice in un libro...

Ho dato all'umanità il libro più profondo che essa possieda, il mio Za­rathustra: tra breve le darò il libro più indipendente. —

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Quel che debbo agli antichi

l.

Per finire, una parola su quel mondo per il quale ho cercato accessi, per il quale ho forse trovato un nuovo accesso — il mondo antico. Il mio gu­sto, che forse è l'opposto di un gusto tollerante, anche in questo caso è lon­tano dal dire sì in blocco: in genere non dice volentieri sì, preferisce dir no, e più ancora non dir nulla... Ciò vale per intere culture, ciò vale per i libri, — ciò vale anche per luoghi e paesaggi. In fondo, il numero di libri antichi che contano nella mia vita è assai limitato; e i più famosi non sono tra essi. Il mio senso per lo stile, per l'epigramma come stile si destò quasi all'im­provviso nell'accostarmi a Sallustio. Non ho dimenticato lo stupore del mio venerato maestro Corssen quando dovette dare il voto più alto al suo peggior latinista —, avevo finito in un lampo. Conciso, rigoroso, con il massimo possibile di sostanza alla base, con una fredda cattiveria verso la «bella parola», e anche verso il «bel sentimento» — in questo io indovinai me stesso. Si riconoscerà in me, sin dentro il mio Zarathustra, una ambi­zione assai seria di stile romano, per ciò che nello stile è «aere perennius». — Non altrimenti mi successe al mio primo contatto con Orazio. Sino ad ora non ho provato con nessun altro poeta lo stesso rapimento artistico che mi diede sin dall'inizio un'ode di Orazio. Ciò che essa raggiunge, in certe lingue non lo si può nemmeno volere. Questo mosaico di parole, in cui ogni parola espande la sua forza come suono, come posizione, come con­cetto, a destra e a sinistra e sopra il tutto, questo minimum nell'estensione e nel numero dei segni e questo maximum così ottenuto nell'energia dei se­gni — tutto ciò è romano e, se mi si vuol credere, aristocratico par excel-lence. Al suo confronto tutta l'altra poesia diventa qualcosa di troppo po­polare, — una mera loquacità del sentimento...

2.

Ai Greci non debbo assolutamente nessuna impressione altrettanto for­te; e, per parlar chiaro, essi non possono essere per noi quello che sono i Romani. Dai Greci non si impara — la loro natura è troppo estranea, e an­che troppo fluida, per avere un effetto imperativo, «classico». Chi avrebbe mai imparato a scrivere da un Greco! Chi lo avrebbe mai imparato, senza i Romani!... E non mi si obietti Platone. In confronto a Platone io sono uno scettico radicale e sono sempre stato incapace di unirmi al coro di am­mirazione, tradizionale fra i dotti, per l'artista Platone. Infine ho al mio fianco in ciò i più raffinati arbitri del gusto fra gli stessi antichi. Platone, a quanto mi sembra, mescola tutte le forme di stile, in questo egli è uno dei primi décadents dello stile: ha sulla coscienza qualcosa di simile a quello che avevano i cinici, che inventarono la satura menippea. Per sentirsi at­tratti dal dialogo platonico, questa specie di dialettica orribilmente com-

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piaciuta e infantile, occorre non aver mai letto dei buoni Francesi — per esempio Fontenelle. Platone è noioso. — Infine la mia diffidenza verso Platone va in profondità: lo trovo così aberrante da tutti gli istinti fonda­mentali degli Elleni, così moralizzato, così cristiano ante Iitteram — egli ha già il concetto di «bene» come concetto supremo —, che di fronte al feno­meno Platone adopererei piuttosto la dura espressione di «alto imbroglio» oppure quella di idealismo — come qualcun altro preferirebbe. Lo si è pa­gato caro, il fatto che questo Ateniese sia stato a scuola dagli Egiziani (— oppure dagli Ebrei d'Egitto?...). Nella grande sciagura del cristianesimo, Platone rappresenta quella ambiguità e quel fascino che rese possibile alle più nobili nature dell'antichità di fraintendere se stesse e di avviarsi su quel ponte che conduce alla «croce»... E quanto Platone c'è ancora nel concet­to di «chiesa», nell'organismo, nel sistema, nella prassi della chiesa! — Il mio riposo, la mia predilezione, la mia cura contro ogni platonismo è sem­pre stato Tucidide. Tucidide e, forse, il Principe di Machiavelli sono i più affini a me per l'assoluta volontà di non illudersi su di nulla e di vedere la ragione nella realtà, — non nella «ragione», e tanto meno nella «mora­le»... Contro quel penoso tentativo di abbellire i Greci nell'Ideale, che il giovinetto «dall'educazione classica» si porta dietro nella vita come premio per il suo ammaestramento liceale, nulla cura tanto radicalmente quanto Tucidide. Lo si deve rivoltare riga per riga, e leggere i suoi pensieri recon­diti così chiaramente come le sue parole: esistono pochi pensatori altrettan­to ricchi di pensieri nascosti. In lui giunge a perfetta espressione la cultura dei sofisti, voglio dire dei realisti: questo movimento inestimabile, in mez­zo alla truffa morale e ideale che con le scuole socratiche dilagava in ogni direzione. La filosofia greca come décadence dell'istinto greco; Tucidide come la grande somma, l'ultima rivelazione di quella robusta, rigorosa, dura oggettività che era nell'istinto dell'antico Elleno. Il coraggio di fronte alla realtà differenzia infine nature come quelle di Tucidide e di Platone: di fronte alla realtà Platone è un vile, — perciò si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di sé — perciò mantiene anche il dominio sulle cose...

3.

Dal fiutare nei Greci «anime belle», «auree mediocrità» e altre perfezio­ni, dall'ammirare in essi per esempio la calma nella grandezza, sentimenti tesi all'ideale, un'alta semplicità — da questa «alta semplicità», in ultima analisi una niaiserie allemande, fui preservato dallo psicologo che portavo in me. Io vidi il loro istinto più forte, la volontà di potenza, li vidi tremare di fronte all'incoercibile violenza di questo istinto, — vidi crescere tutte le loro istituzioni da misure preventive, per porsi reciprocamente al sicuro dalla loro interiore materia esplosiva. L'enorme tensione all'interno si sca­ricava allora in un'ostilità tremenda e spietata verso l'esterno: le comunità cittadine si dilaniavano a vicenda, affinché i membri di ciascuna di esse trovassero pace da se stessi. Era necessario esser forti: il pericolo era vicino —, era ovunque in agguato. La splendida e agile fisicità, l'ardito realismo e immoralismo che è proprio degli Elleni è stato una necessità, non una «natura». Esso venne dopo, come conseguenza, non esisteva sin dall'ini­zio. E con le feste e le arti altro non si voleva se non sentirsi al di sopra, mostrarsi al di sopra: sono mezzi per glorificare se stessi, e talvolta anche per incuter timore di sé... Giudicare i Greci al modo tedesco, dai loro filo­sofi, usare ad esempio il perbenismo delle scuole socratiche per spiegare che cosa in fondo sia greco!... I filosofi sono anzi i décadents della grecità,

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il movimento inverso rispetto al vecchio gusto, al gusto aristocratico (— al­l'istinto agonale, alla polis, al valore della razza, all'autorità della tradizio­ne). Le virtù socratiche vennero predicate perché i Greci non le possedeva­no più: tutti quanti eccitabili, paurosi, mutevoli, commedianti, avevano qualche motivo di troppo per farsi predicare la morale. Non che sia servito a qualcosa: ma le grandi parole e i grandi atteggiamenti si addicono tanto ai décadents...

4.

Sono stato il primo che, per comprendere l'antico istinto ellenico, ancor ricco e addirittura straripante, ho preso sul serio quel meraviglioso feno­meno che porta il nome di Dioniso: questo lo si può spiegare unicamente pensando a un sovrappiù di forza. Chi segue le tracce dei Greci, come il più profondo conoscitore della loro civiltà che oggi esista, Jacob Burck­hardt di Basilea, ha capito subito che con ciò era stato fatto qualcosa: Burckhardt ha aggiunto alla sua Civiltà dei Greci un apposito capitolo su questo fenomeno. Se si vuole un contrasto, si osservi la quasi esilarante po­vertà d'istinto dei filologi tedeschi, quando si accostano al dionisiaco. So­prattutto il famoso Lobeck che, con la dignitosa sicurezza di un verme rin­secchito tra i libri, si è intrufolato in questo mondo di misteriosi stati d'ani­mo e si è convinto di essere scientifico per il fatto di essere superficiale e in­fantile sino alla nausea, — Lobeck ha dato a intendere, con grande sfoggio di erudizione, che in realtà tutti questi fatti singolari non significano nulla. In effetti i sacerdoti potrebbero aver comunicato ai partecipanti a queste orgie qualcosa non privo di valore, come per esempio che il vino eccita al piacere, che in determinate circostanze l'uomo vive di frutti, che le piante fioriscono in primavera e appassiscono in autunno. Quanto alla così sor­prendente ricchezza di riti, simboli e miti di origine orgiastica, di cui il mondo antico è letteralmente pervaso, Lobeck trova in essa un motivo per diventare ancor più spiritoso. «I Greci», egli dice in Aglaophamus, i, 672, «quando non avevano altro da fare ridevano, saltavano, smaniavano, op­pure, dato che l'uomo talvolta ha voglia anche di questo, si sedevano, piangevano e si lamentavano. Altri in seguito sopraggiunsero e cercarono un motivo per questa stravagante condotta; nacquero così, per spiegare quegli usi, innumerevoli leggende celebrative e miti. D'altra parte si crede­va che quel farsesco tramenio che ormai aveva luogo nei giorni di festa, ap­partenesse necessariamente anch'esso alla celebrazione della festa, e lo si ritenne parte indispensabile del servizio divino». — Queste sono ignobili chiacchiere, e nemmeno per un istante si potrà prendere sul serio un Lo­beck. Ben altrimenti ci commuove l'esaminare il concetto di «greco» quale lo hanno elaborato Winckelmann e Goethe, e il trovarlo incompatibile con quell'elemento da cui si sviluppa l'arte dionisiaca — con l'orgiasmo. In realtà non dubito che Goethe abbia escluso per principio qualcosa di simile dalle possibilità dell'anima greca. Di conseguenza Goethe non comprese i Greci. Infatti solo nei misteri dionisiaci, nella psicologia dello stato dioni­siaco si esprime il fatto fondamentale dell'istinto ellenico — la sua «volon­tà di vita». Che cosa si garantiva l'uomo ellenico con questi misteri? La vi­ta eterna, l'eterno ritorno della vita; il futuro, promesso e consacrato nel passato; il sì trionfale alla vita, oltre la morte e il mutamento; la vera vita come totale continuazione di essa tramite la procreazione, tramite i misteri della sessualità. Per i Greci il simbolo sessuale era pertanto il simbolo vene­rabile in sé, il vero senso profondo all'interno di tutta l'antica pietas. Ogni

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QUEL CHE DEBBO AGLI ANTICHI 761

particolare nell'atto della procreazione, della gravidanza, della nascita de­stava i sentimenti più elevati e solenni. Nella dottrina dei misteri, il dolore è santificato: le «doglie della partoriente» santificano il dolore in genere, — ogni divenire e crescere, ogni cosa che garantisca il futuro reca con sé il dolore... Perché esista l'eterno piacere di creare, perché si affermi in eter­no la volontà di vita, deve eternamente esistere anche il «tormento della partoriente»... La parola Dioniso significa tutto questo: non conosco sim­bolismo più alto di questo simbolismo greco, di quello delle feste dionisia­che. In esse viene sentito religiosamente il più profondo istinto della vita, quello per il futuro della vita, per l'eternità della vita, — e la via stessa alla vita, la generazione, è sentita come la via sacra... Solo il cristianesimo, con il suo fondamentale ressentiment contro la vita, ha fatto della sessualità qualcosa di impuro: ha gettato fango sull'inizio, sul presupposto della no­stra vita...

5.

La psicologia dell'orgiasmo come psicologia di un prorompente senso di vita e di forza, all'interno del quale anche il dolore agisce come stimolo, mi fornì la chiave per comprendere il concetto di sentimento tragico, frainteso sia da Aristotele sia, in particolare, dai nostri pessimisti. La tragedia è tan­to lontana dal dimostrare qualcosa sul pessimismo dei Greci nel senso di Schopenhauer, che deve anzi essere intesa come il suo deciso rifiuto e la sua istanza contraria. L'assenso alla vita anche nei suoi più incogniti e duri problemi; la volontà di vita, che è lieta di sacrificare alla propria inesauri­bilità i suoi tipi più alti — questo io ho chiamato dionisiaco, questo io ho indovinato come il ponte verso la psicologia del poeta tragico. Non per li­berarsi dallo sgomento e dalla compassione, non per purificarsi da un af­fetto pericoloso mediante un veemente scaricarsi di esso — così lo intende­va Aristotele —: ma, oltre lo sgomento e la compassione, per essere noi stessi l'eterno piacere del divenire, — quel piacere che racchiude ancora in sé il piacere dell'annientamento... Torno così a toccare il punto da cui una volta sono partito — la «nascita della tragedia» fu la mia prima trasvaluta­zione di tutti i valori: mi rimetto così sul terreno dal quale cresce la mia vo­lontà, il mio potere — io, l'ultimo discepolo del filosofo Dioniso — io, il maestro dell'eterno ritorno...

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Parla il martello

Also sprach Zarathustra 3.901

«Perché così duro!» disse una volta il carbone da cucina al diamante «non siamo forse parenti prossimi?»

Perché così teneri? Questo, fratelli miei, chiedo io a voi: non siete forse — ; miei fratelli?

Perché così teneri, così cedevoli e remissivi? Perché tanto negare, tanto rinnegare nel vostro cuore? E così poco destino nel vostro sguardo?

E se non volete essere dei destini, se non volete essere inesorabili: come potete — vincere con me?

E se la vostra durezza non vuole lampeggiare e separare e tagliare a pez­zi: come potrete poi — creare con me?

Tutti i creatori infatti sono duri. E beatitudine deve apparirvi imprimere la vostra mano nei millenni come nella cera, —

— beatitudine di scrivere sulla volontà di millenni come sul bronzo, — più duri del bronzo, più nobili del bronzo.

Ma l'assoluta durezza è solo del più nobile. Questa nuova tavola fratelli, pongo sopra di voi: diventate duri! —

1 L'indicazione della pagina è riferita alla prima edizione dell'opera di Nietzsche. Nella tra­duzione italiana (in questo volume) la citazione si trova a p. 349 (N.d.T.).