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1 Materiali didattici: Corso a.a. 2010-2011 Storia della filosofia CDS Filosofia e Forme del Sapere (DM270) Prof. Giuliano Campioni La “logica della decadenza”. Alle origini del nichilismo di Nietzsche. 1. Profilo di Nietzsche 2. Torino, di Gottfried Benn 3. “Gut deutsch sein heisst sich entdeutschen... — Goethe hätte mir vielleicht Recht gegeben” Lo spirito libero e la vecchia Europa. 4. Fisiologia dell’arte e della decadenza (dal volume Sulla strada di Nietzsche, ets, Pisa

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Materiali didattici: Corso a.a. 2010-2011

Storia della filosofia CDS Filosofia e Forme del Sapere (DM270)

Prof. Giuliano Campioni

La “logica della decadenza”. Alle origini del nichilismo di Nietzsche.

1. Profilo di Nietzsche

2. Torino, di Gottfried Benn

3. “Gut deutsch sein heisst sich entdeutschen... — Goethe hätte mir vielleicht Recht gegeben” Lo

spirito libero e la vecchia Europa.

4. Fisiologia dell’arte e della decadenza (dal volume Sulla strada di Nietzsche, ets, Pisa

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1.PROFILO DI NIETZSCHE 1. CENNI BIOGRAFICI.

Friedrich Wilhelm Nietzsche nasce a Röcken, piccolo villaggio della Sassonia, il 15 ottobre del

1844. «Come pianta nacqui vicino al campo santo, come uomo in una canonica»1:, scrive Nietzsche, a

diciannove anni. Nel luglio del 1849 muore il padre Karl Ludwig, pastore protestante, «un essere

delicato, amabile e morboso, destinato solo a un'apparizione fugace in questo mondo». Questo il

ritratto tracciato in Ecce homo, l’estrema autobiografia in cui Nietzsche avvicina la personale esperienza

della decadenza e della malattia a quella paterna. Nel 1850, lasciata la canonica, con la madre Franziska

Oehler (anche lei figlia di un pastore), e la sorella Elisabeth (1846-1936), si trasferisce nella vicina

cittadina di Naumburg. Dopo aver compiuto gli studi ginnasiali nella “veneranda” scuola di Pforta, in

cui era curata particolarmente la formazione classica, dall’ottobre del 1864 Nietzsche frequenta per

due semestri l’Università di Bonn per trasferirsi poi a Lipsia. Iscritto a teologia, per compiacere le

aspettative della madre che desiderava che il figlio continuasse la lunga tradizione familiare

diventando pastore, optò poi decisamente per gli studi filologici. La validità dei suoi lavori indusse il

suo maestro Friedrich Ritschl, a procurargli una cattedra di filologia classica all’Università di Basilea

dove tenne la sua prolusione su Omero e la filologia classica il 28 maggio del 1869. A Basilea strinse

fecondi rapporti, tra gli altri, con lo storico Jacob Burckhardt e con il teologo Franz Overbeck, che gli

restò amico sino alla fine.

Le sue condizioni di salute si mostrarono ben presto preoccupanti. Nausea e forti emicranie, una

quasi cecità, gli impedivano spesso di leggere e lavorare, tanto che, nel 1876, fu costretto a chiedere

un anno di congedo dall’Università e dalla sua concomitante attività di professore al Pädagogium per un

primo soggiorno in Italia. Le dimissioni diverranno definitive nella primavera del 1879: da allora,

vivendo con una modesta pensione, Nietzsche inizia la sua vita di “fugitivus errans”, soggiornando tra

Svizzera, Italia, e Francia (Nizza), all’inutile ricerca di luoghi che più si conciliassero con le sue

precarie condizioni fisiologiche e con la sua fragilità psicologica.

Nei primi giorni del 1889, a Torino, Nietzsche termina il suo percorso filosofico ed umano

sprofondando nella follia. Dopo un ricovero di diversi mesi nella clinica per malattie mentali di Jena,

Nietzsche, nel maggio 1890, fu ricondotto a Naumburg e affidato alle cure della madre. Alla morte di

questa, nel 1897, la sorella Elisabeth lo volle –– ridotto ormai a un corpo inerte e inconsapevole – a

Weimar, nella villa “am Silberblick”, nella quale aveva trasferito l’archivio da lei fondato con il

proposito di gestire il lascito letterario del fratello, ma anche di alimentarne il culto e la fama che nel

1 Opere I, I, 310

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frattempo si era impetuosamente diffusa in tutta Europa. A Weimar Nietzsche morì il 25 agosto del

1900, al primo piano di quel Nietzsche-Archiv che contribuirà, in modo determinante, alla creazione

della sua fosca leggenda.

2. FORMAZIONE GIOVANILE-

Di Nietzsche è conosciuto, in grande misura, il materiale postumo relativo agli anni dell’infanzia e

della fanciullezza: disegni, abbozzi di drammi, poesie, poemi, composizioni musicali, riflessioni

autobiografiche e critiche sui più vari argomenti etc. C’è nel giovane la precoce volontà di non subire

le forti passioni del suo temperamento: la necessità di trasformarle, dominarle in consapevolezza

critica, volontà di sapere, scrittura. Di qui la continua assimilazione, quasi incorporazione, di letture in

una mobile riflessione intellettuale, in una continua sperimentazione di scrittura e di stili che

appartengono interamente alla volontaria costruzione di sé.

Il suo interesse giovanile incontra gli eroi della tradizione classica e delle saghe della mitologia

nordica e germanica con il forte fascino per le figure di eroi di primitiva e selvaggia grandezza,

caratterizzati da metafore che esprimono il loro vigore animale e, già, dal termine ‘sovrumano’ (un

esercizio poetico è dedicato alla morte di Sigfrido, un componimento scolastico alla caratterizzazione

della figura di Chrimhilde, numerosi gli abbozzi e gli appunti per un commento critico del

Nibelungenlied volto a individuarne gli aspetti genetici). Alla prima figura della storia germanica, il re

degli Ostrogoti Ermanarico, Nietzsche dedica un poema sinfonico, abbozzi di tragedie, versi cupi e

romantici: la sua passione si decanta infine in uno studio storico e nel primo lavoro di carattere

filologico (ottobre 1863).

Il tema dell’eroismo si connette, fin dall’inizio, con quello della morte di Dio: nella mitologia greca

la fine di Zeus conosciuta in precedenza da Prometeo, nelle saghe nordiche «il rogo del mondo, il

soffocante splendore del crepuscolo degli dèi»»2 «la più grandiosa invenzione che abbia mai escogitata

il genio di un uomo, insuperata nella letteratura di tutti i tempi, infinitamente ardita e terribile»3.

Gli impulsi verso la libertà dalla tradizione e dalla fede sono nutriti – all’interno del percorso degli

studi superiori affrontati nella rigorosa e militaresca scuola di Porta – da letture sotterranee e

personali dedicate a figure prometeiche e addirittura sataniche: dal Manfred di Byron ai Masnadieri di

Schiller, i cui personaggi gli appaiono «quasi sovrumani, sembra di assistere a una lotta di titani contro

la religione e la virtù»4. La liberazione, per il figlio del pastore, assume il carattere di una ribellione

radicale, che richiede una forza “sovrumana” per arrivare ad affermare la morte di Dio. Anche di

2 BAW, II, 32. 3 BAW, I: Ermanarich, Ostgothenkönig. Eine historische Skizze, 297. 4 BAW, I, p.137; La mia vita, cit., p. 65.

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Hölderlin, Nietzsche sottolinea l’elemento sovrumano, non solo l’impulso verso la Grecia ideale: «La

morte di Empedocle è una morte causata da un divino orgoglio, dal dispregio per gli uomini, dalla

nausea della terra, dal panteismo»5.

La crisi profonda della fede e la sfida nei confronti della tradizione, trovano altri strumenti di

conferma: dalla critica filologica ai Vangeli della scuola liberale (in particolare David Strauß), alla

filosofia di Feuerbach e, soprattutto, di Emerson. Infatti, con gli appunti e i saggi della primavera del

1862, dedicati alla libertà e al fato, in cui forte è la risonanza di temi emersoniani, il filosofo approda

all’affermazione di una piena immanenza. Nella fede cristiana, contro la forza degli antichi che

credevano nel fato, vede una scelta di debolezza, «una incapacità a plasmare da sé, con decisione, il

proprio destino». Citando da L’essenza del cristianesimo di Feuerbach, Nietzsche pone il cammino del

recupero dall’alienazione («Dio è diventato uomo»), come espressione di un nuovo eroismo:

«L’umanità acquista la sua virilità attraverso gravi perplessità e ardue battaglie; essa riconosce in sé

“l’inizio, il centro e la fine della religione”»

3. LA FILOLOGIA E LA FILOSOFIA

Il materiale autobiografico e le lettere che riguardano il periodo universitario di Bonn che va fino

all’agosto del 1865, mostrano un Nietzsche inquieto e insoddisfatto: il giovane uscito dalla “severa ma

giovevole” scuola di Pforta, cerca una sua via, rischiando, per la pluralità ed eterogeneità di interessi e

passioni (tra cui, centrale la musica), quella dispersione che avrebbe potuto diventare disgregazione e

impotenza. A questi pericoli un Nietzsche, “passionalmente severo”, contrappone la volontà

connaturata di “risalire fino alle radici più remote e profonde dei singoli argomenti”: la probità dello

specialismo, il metodo storico critico e le armi della filologia — a cui la scuola di Pforta preparava con

i suoi «eccellenti maestri» e le sue alte tradizioni.

La scelta per la filologia non è, nella coscienza del filosofo, espressione immediata di un ‘istinto’ o

vocazione: nasce invece dalla “educazione, riflessione, forse addirittura dalla rassegnazione”;

“Quando mi volgo a considerare come sono passato dall’arte alla filosofia, dalla filosofia alla scienza,

e in quest’ambito a interessi sempre più ristretti: la cosa ha quasi l’aria di una consapevole rinuncia”.

Sono annotazioni dell’inizio del 1869.

La pubblicazione nell’edizione critica Colli-Montinari degli scritti giovanili e delle lezioni di Basilea,

facilita una più accorta e autonoma valutazione del lavoro filologico di Nietzsche all'interno della

storia degli studi classici e permette di conoscere il complesso rapporto di interazione e conflittualità

tra un mestiere, praticato con crescente sicurezza, e il sorgere della sua identità filosofica. Nietzsche,

al di là di storiche pregiudiziali negative dovute per lo più all’allontanamento del filosofo dalla

5 F. Nietzsche, Brief an meinen Freund, in dem ich ihm meinen Lieblingsdichter zum Lesen empfehle, in BAW, II, p. 4; La mia vita, cit., p. 107.

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corporazione dei filologi, rimane nella storia degli studi classici con validi risultati su singoli argomenti

(Teognide, Diogene Laerzio, La Danae di Simonide etc.). Testi di rilievo sono i saggi, le recensioni, le

conferenze che consentono a Nietzsche di diventare professore a Basilea oltre che il materiale

preparatorio per la sua prolusione inaugurale Omero e la filologia classica e per altri lavori progettati, ma

non portati a termine (estese e significative le note sulla storia degli studi letterari e su Democrito). La

pratica filologica si accompagna alla parallela, profonda esperienza della filosofia di uno

Schopenhauer (la cui prima lettura risale all’autunno 1865) divenuto maestro di saggezza e di vita

mentre Nietzsche ne critica ben presto i fondamenti metafisici nella direzione di un radicale

fenomenismo neokantiano (decisiva l’influenza della lettura della Storia del materialismo di Friedrich

Albert Lange). La presenza di Schopenhauer nella riflessione nietzscheana di questo periodo è diffusa

e avvertibile: è evocato come il “filosofo più vero”, capace di “uno stile” espressione “di una

Germania rigenerata”, nemico della filosofia universitaria. Elementi schopenhaueriani si avvertono

sia nella polemica contrapposizione tra una considerazione estetica dell'antichità, patrimonio di pochi,

ed un approccio meramente storico, sia nella visione della storia come dominata dalla stupidità e

dall'inerzia delle masse mentre solo il singolo è capace di creatività. Il duro giudizio sugli studi

filologici della sua epoca, sulla loro confusione metodica, la loro angustia e la loro incapacità di

cogliere davvero lo spirito dell'antichità, torna spesso negli appunti come nelle lettere di questo

periodo. Il confronto tra il genio filosofico («datore di lavoro») e filologo («operaio di fabbrica») — la

metafora è direttamente derivata dai Parerga di Schopenhauer — torna più volte nelle riflessioni del

giovane Nietzsche6. Nietzsche Nietzsche può concludere la sua prolusione di Basilea – in cui

propone una pratica “inattuale” della filologia all’ombra della filosofia schopenhaueriana – , con la

professione di fede “philosophia facta est quae philologia fuit”. L'orgogliosa inversione del motto di Seneca

rappresenta un ottimistico programma per il futuro: il processo di maturazione di un'identità

filosofica sembra qui poter integrare la stessa attività filologica.

4. NIETZSCHE E WAGNER

Con La nascita della tragedia (1872) Nietzsche mette in pratica un diverso approccio alla grecità,

rinnovando la pratica filologica, e nello stesso tempo si schiera in un fronte comune con Richard

Wagner, per la rinascita della cultura tedesca. Questo scritto, attaccato violentemente dal giovane

filologo Ulrich von Wilamowitz, segna il distacco dal mondo ufficiale della filologia. La comprensione

6 F. Nietzsche, KGB, I, II, p. 316; Epistolario, I, p. 623. (Lettera a Paul Deussen del settembre 1868). Si veda anche BAW, III, p. 329 e p. 338; Appunti filosofici, p. 68 e p. 81; KGW, II, III, pp. 369-70; KGW, III, II, p. 162; Opere, p. 112 (Sull'avvenire delle nostre scuole). Per il riferimento a Schopenhauer cfr.: Parerga, II cap. 21, par. 254; trad. it. a cura di G. Colli, tomo I, Adelphi, Milano 1981, pp. 642-43.

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del dramma greco, influenzata in modo determinante dalla filosofia di Schopenhauer, era per

Nietzsche anche l’esito originale di una salda tradizione filologica e storica che, a partire dagli

Schlegel, in parte dallo stesso Ritschl, comprendeva i colleghi di Basilea Jacob Burckhardt e Johann

Jacob Bachofen.

Il tema della tragedia è quasi travolto da una più generale prospettiva metafisica e dall’urgenza del

progetto culturale. Il principale nemico del tragico è l’ottimismo socratico, che ha affermato il valore

dell’illusione fenomenica ed ha portato la riflessione del singolo, distruttiva, nella bella comunità

greca, retta dagli istinti vitali e dal fondamento mitico. Sullo sfondo di questa impostazione c’è la

concezione schopenhaueriana di una contraddizione tra l’unità metafisica originaria e la colpevole

individuazione fenomenica (l’apparenza). Questa colpa che coinvolge l’esistenza, ha bisogno, secondo

La nascita della tragedia, di una redenzione estetica. La contraddizione originaria si riflette

nell’opposizione di Dioniso e di Apollo all’interno della natura. Apollo divinizza il principio di

individuazione, della forma, della bella apparenza, del sogno e in questo modo libera dalla sofferenza.

Dioniso è invece l’espressione immediata della forza primitiva che abbatte l’individuo e lo riassorbe

nell’unità originaria. Egli riproduce continuamente la contraddizione come dolore dell’individuazione,

ma la risolve in un piacere superiore in quanto l’individuo stesso partecipa della sovrabbondanza dell’

Ur-Ein. Questo è il principio, già presente in Schopenhauer, della “consolazione metafisica”: «in realtà

noi per brevi momenti siamo esso stesso l’essere primordiale, e ne sentiamo l’indomito desiderio e

piacere di esistere»7.

Lo schema seguito da Nietzsche nell’esporre i principi di “apollineo” e “dionisiaco” è solo a

prima vista lineare (i termini che li definiscono sono antitetici e danno vita alle opposizioni in cui si

articolano i fenomeni estetici: scultura e musica, lirica ed epica). In realtà Dioniso e Apollo non sono

gli estremi di una contraddizione: tutta la cultura apollinea si presenta come una maschera per

sopportare la tragicità dell’esistenza, come un grande tentativo di velare, attraverso la costruzione di

forme stabili e rassicuranti, il fondo dionisiaco. Le due dimensioni si richiamano l’una all’altra, perché

proprio la paura degli aspetti più orribili dell’esistenza è la fonte dell’illusione apollinea. Il puro

“dionisiaco” è barbarie distruttiva o pura letargia.

Ne La nascita della tragedia è presente una sorta di filosofia della storia giocata sui due principi che

cercano l’unità. A questo proposito Nietzsche parlerà di «un ripugnante odore hegeliano... un’idea —

l’opposizione di apollineo e dionisiaco — tradotta in metafisica; la storia stessa vista come lo sviluppo

di questa idea»8. La struttura metafisica di fondo rende l’arte necessaria non solo per l’individuo ma

per la stessa natura. L’eterno soggetto creatore trova nell’arte la sua consolazione e la sua necessità,

l’artista (il genio) è a sua volta “opera d’arte” per la natura, la realizzazione più alta, la sua

giustificazione. La creazione artistica nasce dall’inconscia identità con l’uno originario che, come

unico creatore e spettatore della commedia artistica, trae da essa, per sé, un eterno godimento.

La prospettiva culturale, vissuta dalla società greca in maniera istintiva, consiste nel lavoro per la

produzione del genio. Egli emerge dalla collettività, ne è il rappresentante più alto, capace di dare un 7 F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, in KGW, III, I , p. 105; Opere, p.111. 8 F. Nietzsche, Ecce homo, in KGW, VI, III , p. 308; Opere, p. 319.

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significato superiore al flusso storico, di per sé privo di senso. Nell’epoca attuale dominata

dall’astrazione, il genio si separa dalla collettività divenuta massa ed è costretto a una solitaria

produzione (e fruizione) del valore. La massa impedisce lo sviluppo delle forze culturali distorcendo

per fini egoistici e materiali ogni tentativo superiore. Nel genio si realizza con pienezza l’essenza

«generica» dell’uomo: egli diventa, con la sua umanità vera e più alta, il rappresentante delegato della

specie.

La bella totalità greca presuppone la divisione del lavoro: c’è innanzitutto la violenza esercitata

sulla casta di schiavi, una realtà «che non lascia alcun dubbio sul valore assoluto dell’esistenza. Tale

verità è l’avvoltoio che divora il fegato al fautore prometeico della cultura»9. Da questa verità l'uomo

moderno rifugge nascondendo, attraverso la mistificazione ottimistica della dignità dell'uomo e del

lavoro, la generale schiavitù senza senso del mondo che lo circonda. Nietzsche riprende, in più luoghi,

le pagine in cui Schopenhauer attacca la “dignità dell'uomo” come vacua formula che nasconde

l'assenza del concetto. La concezione metafisica di Nietzsche, che vede come finalità ultima della

realtà la produzione del genio, propone un'altra concezione, più dura ed eroica, della dignità: «ogni

uomo, con tutta la sua attività, acquista una dignità solo in quanto sia, coscientemente o

incoscientemente, uno strumento del genio [...] solo come essere pienamente determinato, al servizio

di scopi ignoti, l'uomo può giustificare la propria esistenza» 10. Il postulato dell’impossibilità pratica

della negazione della vita, della noluntas, comporta l'accettazione di meccanismi di illusione (Wahn)

funzionalizzati alla costruzione di una civiltà superiore. Nell'istinto si esprime direttamente una

volontà che sottomette con l'inganno l'individuo. L'istinto è illusione che perpetua la volontà di

vivere, è l'inganno da parte del «genio della specie» a spese dell'individuo. L'arte e il mito sono

l'immagine illusoria più alta di seduzione alla vita: «correggere il mondo — ecco la religione o l'arte.

»11. La scelta della Grecità è lontana dal puro dionisiaco (letargico) come dal «nefando ottimismo»

alessandrino del mondo moderno: la civiltà greca è una costruzione piramidale che ha al suo culmine

la realtà del genio, ed è saldamente vincolata alla vitalità dell'istinto. In tal modo essa mantiene un

rapporto non distruttivo con il fondo tragico che nel genio soddisfa in modo potenziato la sua

capacità artistico-rappresentativa. L'adeguarsi all'inconscia teleologia della natura significa subordinarsi

in modo assoluto al genio. Ed ora, il genio, capace di dare un nuovo senso alla civiltà è Richard

Wagner con cui Nietzsche aveva stretto rapporti di amicizia e la cui elaborazione teorica sul dramma

musicale (in particolare nel Beethoven del 1870) gli appariva “la filosofia della musica”.

Nella prefazione all’edizione del 1886 de La nascita della tragedia, Nietzsche indicherà nella

compromissione con le categorie estetiche wagneriane e schopenhaueriane un motivo di

offuscamento della scoperta dell’elemento dionisiaco nel mondo greco.

Ma, pur nella durezza autocritica verso un libro da lui definito ‘arrogante’ e ‘impossibile’, incapace

di esprimere appieno la realtà del nuovo Dio Dioniso, il filosofo riconoscerà sempre ne La nascita della

tragedia la massima concentrazione dei problemi (il rapporto arte-scienza, arte-vita, il pessimismo

9 F. Nietzsche, Der griechische Staat, in KGW, III, II, p.261; Opere, pp. 226-67. 10 Ivi, in KGW, III, II, p.270; Opere, p. 236. 11 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente, in KGW, III, III, p.105; Opere, III, III/1, p. 99.

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della forza e decadenza, il “problema greco” etc) che tratterà per tutta la vita negli stessi termini,

anche se con risposte radicalmente diverse.

5. DALLA CRITICA DELLA CULTURA ALLA CRITICA DI WAGNER

Dopo l’esperienza traumatica della guerra e l’impressione destata dalla Comune di Parigi (“senso

dell’autunno della civiltà”), Nietzsche si impegna in una critica del mondo moderno e della

civilizzazione alla luce dei progetti culturali di Wagner, legati alla speranza di una “rinascita” dello

spirito tragico in Germania. Nietzsche manifesta addirittura, in qualche momento, la volontà di

abbandonare l’insegnamento per dedicarsi esclusivamente alla causa wagneriana. Se, con la Nascita della

tragedia, il filosofo ha proposto una «svolta dionisiaca» a Wagner, la via dell’affermazione tragica, la

diffidenza nei confronti del cristianesimo (mito «sbiadito» e ostile all’arte) segna il contrasto sotterraneo

quanto irriducibile con le posizioni del musicista. Per Wagner, infatti, la “rinascita” ha sempre più il

punto di riferimento centrale nel mito di un cristianesimo purificato: l’opposizione al Rinascimento da

parte di Wagner (all’inizio condivisa dal filosofo) è soprattutto opposizione al «paganesimo» di quella

cultura, al suo immanentismo.

Il materiale lasciato postumo per un progetatto, ampio, Philosophenbuch, mostra come Nietzsche non sia

chiuso entro nel cerchio magico del mondo wagneriano: audaci riflessioni filosofiche danno vita a

scritti, lasciati inediti, di importanza decisiva nello sviluppo del suo pensiero (La filosofia nell’epoca tragica

dei Greci e soprattutto Su verità e menzogna in senso extramorale).

L’artista cede il posto, in queste riflessioni, al filosofo come “medico della cultura” capace di superare la

letale antitesi di cultura e conoscenza.

La valutazione delle conseguenze dell’antico «pathos della verità» e la polemica contro il moderno

scientismo culminano nell’esortazione a «convincere il filosofo del carattere antropomorfico di ogni

conoscenza». Nasce in questo periodo la pratica dello smascheramento che caratterizzerà d’ora in poi la

sua filosofia: Nietzsche vuol portare alla luce i presupposti nascosti, pragmatici e morali, dell’impulso

alla conoscenza e alla verità. Ma è anche sulla natura intrinseca del processo conoscitivo che Nietzsche

cerca ora di venire in chiaro, in una ricerca che rivela un allargamento tematico dei suoi interessi e crea

le condizioni per un rilevante mutamento teoretico. Prioritario è l’intento di render conto del carattere

creativo, «artistico», della percezione e della conoscenza. La connessione di riflessione gnoseologica e

teoria dell’espressione artistica tramite la nozione di «metafora» si trova al centro del breve scritto

dell’estate1873 Su verità e menzogna in senso extramorale, precaria, abbagliante sintesi di più temi: il carattere

contingente dell’intelletto, la distinzione di una ‘verità’ socialmente valida di origine pragmatico-

contrattuale da una verità di cui, si afferma l’inaccessibilità, la consapevolezza che il pensiero è sempre,

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come dice un frammento, «preso nelle reti del linguaggio», la contrapposizione delle codificazioni

concettuali alla libertà dell’artista.

L’interesse di Nietzsche per i dibattiti scientifici e gnoseologici contemporanei, nato a metà degli anni

sessanta con la lettura di Lange, non doveva più venir meno, e nel periodo che va dall’estate 1872

all’inizio del 1873 esso raggiunge un primo significativo apice. I frammenti testimoniano tra l’altro della

lettura nietzscheana di Denken und Wirklichkeit di Afrikan Spir, di Über die Natur der Kometen di Johann

Carl Friedrich Zöllner, della Geschichte der Chemie di Hermann Kopp e, soprattutto, della Philosophia

Naturalis di Boscovich che resterà un testo significativo per l’approdo del filosofo ad una concezione

radicalmente dinamistica. Un esempio del tentativo di elaborare in modo originale queste letture è il

lungo frammento della primavera 1873 in cui Nietzsche sviluppa una «teoria degli atomi temporali» che

dovrebbe essere al tempo stesso una «teoria della percezione».

Ma intanto, tra la primavera del 1873 e l’inizio del 1874, Nietzsche rinuncia a portare a termine il suo

Philosophenbuch avendo compreso come ancora impraticabile una valida sintesi, e comincia a lavorare alla

sua prima Considerazione inattuale. Nietzsche si trova a combattere in David Strauss, colui che era

divenuto l’apologeta, con il fortunato libro L’antica e la nuova fede, di un progresso garantito dalle armate

prussiane :«Al posto del regno di Dio sembra sia subentrato il Reich». Strauss è l’espressione più

conseguente di quel compiaciuto «filisteismo culturale» che pretende di non dover più cercare, di avere

già i ‘classici’ come corazza dietro cui mal dissimulare la propria sostanziale miseria. Ai filistei Strauss ha

dato un nuovo «catechismo» che giustifica lo stato di fatto e divinizza il successo.

La metafisica dell’arte e la teleologia del «genio» sono ora sullo sfondo: a Nietzsche importa iniziare una

serrata battaglia contro abitudini mentali che soffocano ogni energia vitale e ogni speranza di rinascita.

Le Considerazioni Inattuali provano la decisa volontà di Nietzsche di agire criticamente sulla miseria

culturale della Germania a riprova di non avere la «testa tra le nuvole» e di avere, per il duello, «il polso

pericolosamente sciolto» (Ecce homo). Dopo aver affrontato con David Strauss il rappresentante

emblematico di una cultura «senza senso, senza sostanza, senza scopo», ridotta all’«opinione pubblica»

delle gazzette, l’“inattuale” Nietzsche allarga il suo progetto, che fu realizzato solo in piccola parte:

quattro delle Considerazioni invece delle tredici previste. Nelle Considerazioni inattuali Nietzsche voleva

liberarsi «di tutto quello che di negativo, di polemico, di carico d'odio» apparteneva alla sua natura; non

di rado la vena polemica lo spinge a semplificazioni e abbreviazioni che offuscano la pregnanza

filosofica di questi vivaci pamphlets. Nel caso della Considerazione inattuale su Schopenhauer, il cui titolo

doveva essere originariamente «Le angustie della filosofia», trovano ampiamente accesso le numerose

annotazioni, critiche ed apologetiche, sulla figura del “filosofo” nel suo pathos della verità, di contro agli

“eruditi” e ai filosofi delle università che vivevano della filosofia, non per la filosofia. Sull’utilità e il danno

della storia per la vita, che ha conosciuto una grande fortuna, è forse la più problematica tra le Inattuali:

presenta infatti un intreccio singolare di tematiche e argomentazioni eterogenee, dietro cui trapela la

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contradditorietà della posizione di Nietzsche in materia. Leggendo i frammenti postumi del periodo è

possibile seguire passo passo come Nietzsche, partendo dal piano originario di una considerazione inattuale

sul tema «verità», cominci, tramite la critica del concetto di «oggettività», con l'occuparsi della «malattia

storica», e solo in seguito tenti di definire, non senza contraddizioni e ripensamenti, quali atteggiamenti

rispetto al passato siano «utili alla vita». I rimedi che Nietzsche propone (quali la valorizzazione

dell’ideale e l’antistoricismo) saranno essi stessi indicati come sintomi della malattia moderna. In un

frammento del 1878, Nietzsche caratterizzerà negativamente l’atteggiamento presente nell’Inattuale

come un «tentativo di chiudere gli occhi alla conoscenza storica»12. Contro il flusso del divenire capace

di disgegare l’individuo, appare necessaria una terapeutica della vita attraverso l’elemento antistorico e

soprastorico: da una parte la forza dell’oblio e dell’orizzonte limitato, dall’altro il richiamo alle «potenze

che distolgono lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e

dell’immutabile, all’arte e alla religione»13.L’arte e la religione sono ancora i rimedi che Nietzsche

propone di fronte al nichilismo della conoscenza.

I frammenti mostrano bene gli obbiettivi polemici di questa inattuale quali ad esempio Eduard von

Hartmann che esprime, nella sua forte teleologia storica (che comporta l’«abbandonarsi al processo del

mondo»), un atteggiamento antitetico all’agonismo di Nietzsche.

Si avverte in questo periodo, determinante anche se raramente esplicitata, la presenza di Burckhardt,

che agisce su Nietzsche come contrappeso critico all'ideologia germanica di Wagner: i due professori di

Basilea hanno visto nella guerra franco-prussiana una lotta “zoologica” tra nazioni, un minaccioso

pericolo per la cultura. «Il più delle volte, il vincitore diventa stupido, il vinto diventa malvagio. La

guerra semplifica [...] È un letargo invernale della civiltà» – scrive Nietzsche. Attraverso lo storico di

Basilea, Nietzsche delinea i tratti dell’individualità libera che si afferma soprattutto contro il peso del

nazionalismo germanico, trionfante dopo la vittoria prussiana. Il modello, progressivamente, assume i

caratteri dell’«uomo del Rinascimento», capace di incorporare e trasformare in nuova forma di vita il

passato.

Anche la valorizzazione da parte di Burckhardt della società greca come caratterizzata dall’agone e dalla

pluralità di individui superiori diventa per Nietzsche motivo di critica alla posizione tirannica del

“genio” wagneriano che si afferma come esclusivo.

Richard Wagner a Bayreuth, la quarta e ultima Considerazione inattuale portata a termine, uscì solo nell'estate

del 1876. Già all'inizio del 1874 Nietzsche aveva però cominciato a lavorare a un'Inattuale sul musicista; i

relativi appunti, contengono una critica a Wagner che contrasta in modo a tratti clamoroso con la

posizione che il Nietzsche di questo periodo continua ufficialmente ad avere, nei confronti del maestro

di Bayreuth.

12 Ivi, p. 275. 13 Ivi, pp. 351-52.

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Nietzsche utilizza per Wagner la connotazione burckhardtiana di “cesarismo” legata alla forza di

“semplificazione”, alla falsa capacità ordinatrice del caos. Utilizzando le stesse parole di Burckhardt,

Nietzsche non esita ad avvicinare il musicista, al “tiranno” descritto ne La civiltà del Rinascimento in Italia:

«Il tiranno non permette che si affermino altre individualità, oltre alla propria e a quella dei suoi intimi».

Ma la critica di Nietzsche va al cuore della teoria del dramma musicale («Shakespeare e Beethoven,

l'uno accanto all'altro – il pensiero più ardito e più folle») e investe le capacità artistiche di Wagner: «La

musica non ha molto valore, la poesia neppure, e neanche il dramma, e l'arte teatrale si riduce spesso a

retorica». La vocazione originaria di Wagner non è né quella di musicista né quella di poeta, bensì quella

di attore, le sue opere, con la loro ricerca dell'effetto e la predilezione per «lo sfarzoso, l'inebriante, lo

sconvolgente», vanno intese come le creazioni di un «attore mancato». Nonostante Nietzsche presenti

le sue critiche spesso impietose come indicazioni dei «pericoli» che minacciano la grandezza di Wagner,

non meraviglia che egli decida di rinunciare per il momento all'opera progettata. Sorte non migliore

avrà il tentativo di stesura dell'estate del 1875: solo il confronto di questo materiale postumo permette

un'analisi fondata del trapasso, ancora oggi spesso frainteso, di Nietzsche dal “wagnerismo”

all'“antiwagnerismo”. Il distacco da Wagner non mette fine solo a un equivoco connubio che rischiava

di paralizzare l'ulteriore sviluppo intellettuale di Nietzsche; criticando una figura a cui si era sentito così

vicino, egli è evidentemente alle prese anche con se stesso. L’inattuale su Wagner, più che un’ apologia

per il musicista vittorioso, mettendo radicalmente in crisi la metafisica dell’arte (l’arte costituisce solo

una consolazione momentanea: « Perché l’arco non si spezzi perciò esiste l’arte»)14 rappresenta un

definitivo congedo dalle illusioni metafisiche giovanili.

6. LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO LIBERO

Umano, troppo umano, pubblicato nel maggio del 1878, rappresenta l’evento decisivo della “grande

separazione” da tutto ciò che era stato venerato e l’inizio della sperimentazione di nuove possibilità di

vita. Nella prima edizione, consacrata alla memoria di Voltaire per celebrarne l’anniversario della

morte, in luogo di una prefazione si trova un brano dalla terza parte del Discorso sul metodo di Cartesio.

Già questa citazione rivela il nuovo atteggiamento di Nietzsche: contro le pretese intuizioni

immediate del genio metafisico si impone la necessità di un cammino verso la conoscenza. I frutti

sono ricavati da un “metodo”, dalla continuità del lavoro, mentre il genio li vuole come caduti in

grembo improvvisamente, per “ispirazione”. Essa sottolinea soprattutto la “gioia” legata alla passione

della conoscenza: «la mia anima finalmente divenne così piena di gioia, che tutte le altre cose non

potevano più offenderla in alcun modo»15. Ma la “gioia” per la conoscenza è ancora un desideratum

14 FP, IV, 1, p. 242 sgg. 15 F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches : (An Stelle einer Vorrede), in KGW, IV, II, p. 3; Opere, p. 489. Per il brano citato cfr.: R. Descartes, Dissertatio de Methodo, traduz. latina di Etienne de Courcelles, in Oeuvres de Descartes, ediz. C. Adam e P. Tannery, Paris 1897-1910, VI p. 555.

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più che una realtà: Umano, troppo umano è infatti caratterizzato dal gelo e dal disincanto della terapia

antiromantica. Nel 1882 Nietzsche troverà in Spinoza un “predecessore” delle sue posizioni: « questo

pensatore, il più singolare e il più isolato, è quello più vicino a me proprio in queste cose: egli nega il

libero arbitrio, i fini, l’ordine morale dell’universo, il disinteresse, il male»16. La considerazione di

Spinoza, sub specie aeternitatis , è comunque per Nietzsche l’espressione tipica della «mancanza di senso

storico» dei filosofi, della loro diffidenza verso il divenire. Nietzsche ritiene necessaria la «filosofia

storica» (non separabile dalle scienze naturali) e con essa la «virtù della modestia»: non vi sono realtà

eterne né verità assolute, tutto è in divenire. La storia è necessaria anche contro la falsa immediatezza

dell’introspezione per ricostruire la complessità dell’io: « giacché il passato continua a scorrere in noi

in cento onde»17. La storia, riportando alla genesi e al percorso, illumina la complessità che sta dietro

la menzogna della metafisica, va contro l'opinione di «un’origine miracolosa» per le cose stimate

superiori «che scaturirebbero immediatamente dal nocciolo e dall'essenza della “cosa in sé”». Per

questo è necessaria «una chimica delle idee e dei sentimenti morali, religiosi, estetici» che mostri come

«i colori più magnifici si ottengono da materiali bassi e persino spregiati»18. In questi anni Nietzsche

è vicino a Paul Rée la cui filosofia appare una summa di temi diffusi nella cultura positivistica

congiunti ad altri di derivazione schopenhueriana. La posizione pessimistica di Rée si richiama al

realismo sulla natura umana dei moralisti francesi (in particolare La Rochefoucauld) e si esprime nella

volontà di riportare a bassi moventi ciò che finora era stato considerato nobile e alto. Nietzsche

condivide in parte questo atteggiamento demitizzante, ma lo piega a un progetto culturale più vasto.

Egli propone un progresso realistico: la luce deve tener conto dell’ombra «che tutte le cose mostrano

quando il sole della conoscenza cade su di esse»19. Attraverso il «rischiaramento» delle limitate forze

positive con cui l’uomo può costruire, si perde il fascino estetico dell’onnipotenza del fondo vitale.

Nietzsche afferma pacatamente e anche, in certi momenti, con grigiore disincantato il valore della

conoscenza scientifica. La disumanizzazione della natura sembra comportare all’inizio una povertà

desolata. La scienza ha come disseccato le cose privandole della linfa magica che l’uomo vi aveva

immesso. In tal modo ha dato però un potere effettivo: l’uomo è diventato il «dio delle macchine», ha

reso praticabile la natura accontentandosi degli schemi e delle astrazioni del meccanicismo. La scienza

deve avvicinarci alle cose prossime, la saggezza antica, invece, volava verso gli dèi impoverendo gli

uomini. Dopo l’ubriacatura degli ideali romantici, Nietzsche constata la perdita della «gioia festiva»

propria dell’antichità: la sua spiegazione del fenomeno va a favore dei tempi moderni che cercano non

un palliativo al dolore (la «festa») ma la modificazione delle cause della sofferenza attraverso

l’invenzione di macchine e la soluzione di problemi scientifici. In Umano, troppo umano si apre una

dialettica tra lo “spirito libero” e il progresso della totalità. Il “progredire intellettuale” di una

comunità è legato non alla forza e all’energia di un “eroe” che ne confermi o potenzi i valori, ma agli

«individui più liberi, molto più insicuri e moralmente più deboli», i malati, le «nature degeneranti» che

16 Lettera a Franz Overbeck del 30 luglio 1881 in KGB, III, II, p. 111. 17 F. Nietzsche,Vermischte Meinungen und Sprüche, (223) in KGW, IV, III, p.113; Opere, p. 87. 18 F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches, (1), in KGW, IV, II, p.19-20; Opere, p. 15. 19 F. Nietzsche, Der Wanderer und sein Schatten, in KGW, IV, III, pp. 176; Opere, p. 134.

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«ammolliscono l’elemento stabile di una comunità» e attraverso le ferite inoculano qualcosa di

nuovo20 . Il malato, rispetto a una società “sana” — cioè certa di se stessa e dei suoi valori —

rappresenta la possibilità del movimento. La comunità forte è quella tollerante, che non esclude e che

riesce a sopportare questa inoculazione senza dissolversi. Lo Stato tende alla durata: il rafforzamento

del costume, la stabilità, che ignora il nuovo, si accompagna progressivamente alla stupidità. Il mito

assicurava la saldezza della tradizione e del costume, ma era ostile a ogni progresso.

La scienza e la ragione critica sostengono una battaglia liberatrice contro la precedente scelta

antivitale della metafisica dell’artista, contro la pericolosa superstizione del genio. L’arte appare l’erede

delle religioni tradizionali e spinge verso il passato di cui è risonanza: gli artisti sono «gli esaltatori

degli errori religiosi e filosofici dell’umanità»21. Questa critica radicale alle posizioni di Wagner (per

quanto mai esplicitamente nominato) comportò il definitivo distacco dalla cerchia di Bayreuth.

Wagner, nello scritto Pubblico e popolarità, accuserà Nietzsche di aridità professorale e, in sostanza, di

filisteismo culturale: a coloro che avevano apprezzato La nascita della tragedia, egli appare un nuovo

Socrate che distrugge le fonti della vita: la rete di illusioni su cui è possibile costruire una società e una

cultura.

Per Nietzsche il carattere demistificante della scienza e della storia, è, in questo periodo, in primo

piano: si tratta di riportare in basso ciò che era stato indebitamente posto in alto. La via della

negazione e della critica non viene però intrapresa fino in fondo: l’orizzonte dell’umanità e dei suoi

vantaggi costituisce il limite entro cui deve svolgersi il processo scientifico, legato al sorgere di nuove

aurore22. Non c’è alcuna armonia prestabilita tra il progresso della verità e il bene dell’uomo.

Si tratta di essere «buoni vicini delle cose prossime», fare a meno dei dogmi ideali, delle religioni

che hanno bloccato e impedito, sulla base di menzogne antivitali, lo sviluppo sociale e umano. Alla

lunga il rovesciamento del mondo, il privilegiamento dell’aldilà comporta una completa e radicale

svalutazione dell’unico mondo reale: del flusso di forze in divenire da seguire nei suoi sviluppi

«storici». La ragione e la scienza sono, in questa prospettiva, le forze umane «più alte di tutte»23, che

non conoscono compromessi col mito religioso, «vivono su pianeti diversi». Questa posizione

intellettualistica si riflette anche su altre concezioni: la scelta per la scienza appare una scelta per la

comunicazione e quindi, in senso relativo, per una costruzione sociale «ragionevole». La prospettiva

ecumenica (già avvertita come esigenza nelle figure dei presocratici in lotta contro il mito) appare

efficace per la liberazione dell’individuo dalle ristrettezze della stirpe, della nazione, dello Stato. Nella

loro forza gregaria questi organismi si fanno eredi degli elementi di costrizione della comunità

primitiva. La tradizione diventa incorporazione di costumi etici che spingono il singolo nella direzione

del gregge.

Il tema della critica alla morale e alla religione viene sviluppato soprattutto in Aurora (1881). La

ricerca psicologica confuta definitivamente la religione e la morale mostrandone la genesi nei bisogni 20 Ivi, (224), in KGW, IV, II, pp. 191-93; Opere, pp. 161-62. 21 Ivi, (220), in KGW, IV, II, p. 182; Opere, p. 152. 22 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente (1876-1878), in KGW, IV, II, pp. 528-29; Opere, p. 447. 23 Ivi, KGW, IV, II, p. 530; Opere, p. 448.

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e negli istinti. A partire dalla lettura de Il valore della vita di Eugen Dühring, Nietzsche combatte l’ascesi

intesa come «vendetta contro di sé, nell’atto violento del disgusto e dell’odio», sintomo di impotenza di

vita. Il giudizio sul «valore della vita» non può essere affidato al santo-asceta; si può approdare anche

alla negazione, ma questo atto deve essere legato alla conoscenza e alla giustizia. La rivalutazione del

«corpo» e la fedeltà alla terra sono certamente in polemica con l’ideale ascetico, che esige la «volontà

del nulla» e che domina nascostamente molte forme di vita. Nietzsche combatte la sua guerra santa

contro questo ideale nella Genealogia della morale, dove il nichilismo è seguito in tutte le sue maschere

moderne e dove viene mostrato il peso dominante che esso ha avuto nella storia umana. Le tre

dissertazioni, scritte tra il 10 e il 30 luglio del 1887, raccolgono e sistematizzano, per molti aspetti, il

lavoro “storico” iniziato con Umano troppo umano. Il termine “genealogia” presuppone la frattura

operata dalla scienza darwiniana: la ricerca dell’origine della morale percorre il positivismo. Nietzsche,

tuttavia, critica radicalmente le cattive «ipotesi genealogiche» del contemporaneo positivismo che

ammette comunque una “fondazione” della morale ancora sotto il dominio dei valori dati. Si tratta

invece, per Nietzsche, di indagare proprio ciò che, generalmente, viene utilizzato come spiegazione,

come dato primitivo e “naturale”. Nella Genealogia della morale Nietzsche critica, in nome di un radicale

senso storico, ogni riduzionismo della pluralità a un fattore dato: sia esso lo spirito, sia esso la “razza”

avendo presente anche la torbida filosofia della storia dell’ultimo Wagner. In queste tre dissertazioni

Nietzsche ha visto solo un preludio ad una più generale resa dei conti con la morale.

L’indagine genealogica non si esaurisce certo con l’analisi delle due tipologie morali contrapposte:

la morale signorile che nasce dall’affermazione di sé e quella servile che nasce invece dal risentimento

e dalla negazione dell’altro e del suo valore. La Genealogia tiene conto dell’importanza centrale della

malattia, dell’interiorizzazione degli istinti aggressivi che non si scaricano più all’esterno e che creano,

attraverso il dolore, inedite profondità nell’uomo e, infine, la coscienza. Nietzsche ha scavato nei

meccanismi nascosti che conducono l’uomo alla «civiltà» attraverso la separazione dal suo passato

animale, ha avvertito con dolore la perdita dell’innocenza di «questi semianimali felicemente adattati

allo stato selvaggio, alla guerra, al vagabondaggio, all’avventura». L’animale ora «dà di cozzo alle

sbarre della cella fino a coprirsi di piaghe»24: il filosofo avverte tutto il disagio dell’attuale civiltà, ma

anche le prodigiose possibilità di sviluppo per l’individuo superiore, che essa contiene. Nessuna

nostalgia per quella lontana felicità animale, per quel nomadismo. La regressione verso la “bionda

bestia” primitiva non è né possibile né desiderabile.

In Aurora, come nella Genealogia della morale, e in altri scritti della maturità, Nietzsche critica la

morale eroica, anch’essa espressione dell’ideale ascetico in cui l'entusiasmo della vittima nasce dal

sentirsi una sola cosa con «il potente essere, sia esso un Dio o un uomo» a cui è consacrata25. Non a

caso la prefazione del 1886 ad Aurora termina con l’elogio della filologia: lo spirito diventato libero

scioglie definitivamente il rapporto di subordinazione del filologo-educatore nei confronti del “genio”

per meglio valorizzare «l'arte di leggere bene» propria della filologia. Gli ultimi studi intrapresi da

Nietzsche prima di abbandonare definitivamente la cattedra (1879) per diventare filosofo e fugitivus 24 F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral (II, 16); in KGW, VI, II, p. 338-39; Opere, pp. 283-84. 25 F. Nietzsche, Morgenröthe, (215) in KGW, V, I, p. 193; Opere, p. 160.

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errans, tendono a rinnovare la pratica della filologia attraverso l’uso dell'etnologia e della sociologia

dell'epoca.26 Nietzsche abbandona anche il falso rapporto “idealistico” e romantico tra la Grecità e il

germanesimo: piuttosto «la natura del francese è molto più affine a quella greca che non la natura del

tedesco»27. Del resto a Voltaire Nietzsche deve la metafora del “danzare in catene”28: la leggerezza

degli artisti greci che nasce dal lungo esercizio di vincoli posti a frenare la libertà immediata degli

impulsi.

Nell'ultimo periodo Nietzsche propone la solidarietà di intenti critici tra filologia, fisiologia,

genealogia, contro le interpretazioni predeterminate che rifiutano il lavoro paziente. Si tratta di leggere

le intenzioni e le forze che attraversano il testo, che lo costituiscono. Una «volontà di sapere», di

leggere i segni e sciogliere i geroglifici del reale senza prevaricarne il senso con distorsioni

pregiudiziali.

7. ZARATHUSTRA MAESTRO DELL’ETERNO RITORNO

Nell’estate del 1881 Nietzsche soggiorna per la prima volta a Sils-Maria, in alta Engadina. Tra le

sue letture legate alle ricerche sulla morale, egli si imbatte nel volume La connessione di tutte le cose di

Otto Caspari. In particolare lo colpisce un brano in cui Caspari si oppone all’idea, all’epoca assai

diffusa, di una definitiva cessazione del movimento dell’universo, sia nella forma fisica della morte

termica, sia in quella metafisica di uno stato finale del processo del mondo. Si tratta del dibattito sulla

morte termica dell’universo e sulla dissipazione dell’energia collegato alla scoperta dei due principi

della termodinamica.

Nelle pagine di Caspari Nietzsche trovava anche una critica del processo cosmico tracciato da

Eduard von Hartmann nella sua Filosofia dell’inconscio.

Inserendosi in questa discussione Nietzsche elabora la dottrina dell’eterno ritorno: la complessa

presentazione di questo pensiero è consegnata a un quaderno dell’estate 1881, pubblicato in maniera

integrale soltanto di recente, nell’edizione critica Colli-Montinari. Secondo Nietzsche, se il mondo è

composto da un numero finito di elementi o centri di forza, deve in un tempo infinito ripetere le

medesime combinazioni per un numero infinito di volte: «Quale che sia lo stato che questo mondo

può raggiungere, deve averlo già raggiunto, e non una ma infinite volte. Così questo attimo: esso era

già qui una volta e molte volte e parimenti ritornerà, tutte le forze distribuite esattamente come ora; lo

stesso avviene per l’attimo che ha generato questo e per quello che sarà il figlio dell’attimo attuale.

Uomo! la tua vita intera, come una clessidra, sarà di nuovo capovolta, e sempre di nuovo si svuoterà

26 Su questi studi di Nietzsche, sulla loro importanza e vastità si veda il volume di A. Orsucci, Orient — Okzident. Nietzsches Versuch einer Loslösung vom europäischen Weltbild, de Gruyter, Berlin 1996. 27 F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches, (221) in KGW, IV,II, p. 184; Opere, p. 154. 28 F. Nietzsche, Der Wanderer und sein Schatten, (140) in KGW, IV,III, p. 140; Opere, p. 194. Scrive Voltaire in una lettera del 24/1/1761: «Voi danzate in libertà; noi danziamo con le nostre catene».

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— un grande minuto di tempo frammezzo, finché tutte le condizioni dalle quali tu sei divenuto, nel

corso circolare cosmico, si verificano di nuovo. E allora troverai di nuovo ogni dolore e ogni piacere e

ogni amico e nemico e ogni speranza e ogni errore e ogni filo d’erba e ogni raggio di sole, la

connessione totale di tutte le cose »29. Questa concezione rappresenta il compimento del nichilismo,

perché vanifica ogni possibilità teologica o teleologica: «l’esistenza, così com’è, senza senso e scopo,

ma inevitabilmente ritornante, senza un finale nel nulla: “l’eterno ritorno”»30. Non è più possibile dare

un senso etico o di qualsiasi altro genere alla storia, e in generale alla vicenda dell’uomo su questa

terra.

Ma come comunicare questa nuova dottrina, come fare in modo che essa penetri in profondità

nella vita degli uomini e li trasformi, come ha fatto, con conseguenze antivitali, il dogma cristiano? A

questo compito Nietzsche associa una nuova forma di comunicazione e un nuovo scritto: Così parlò

Zarathustra. I concetti che troviamo in questo libro non differiscono molto da quelli che compaiono

nei precedenti volumi di aforismi, tanto che Nietzsche, in una lettera, afferma di aver scritto «il

commento prima del testo»; del resto i manoscritti documentano che le parabole di Zarathustra

risultano assai spesso dalla condensazione di numerosi aforismi che Nietzsche aveva elaborato negli

anni precedenti. In particolare c’è un rapporto stretto con lo spirito di guarigione e la nuova

affermazione della vita presente ne La gaia scienza. Nel quarto libro (Sanctus Januarius) i due ultimi

aforismi presentano l’ipotesi dell’eterno ritorno in forma di parabola (Il peso più grande) e annunciano

l’avvento di Zarathustra (Incipit tragoedia). L’arte non è più un residuo del passato, una sopravvivenza

di stati d’animo primitivi, ma si lega piuttosto alla scienza precorrendone o sviluppandone i risultati.

Dopo aver pensato l’eterno ritorno, Nietzsche ritiene di dover ricorrere a una diversa arte della

comunicazione che dia espressione e forza di persuasione a un’ipotesi scientifica. L’eterno ritorno,

secondo Nietzsche, è la più scientifica delle ipotesi della fisica. Ma finché resta una mera ipotesi della

scienza, l’eterno ritorno non interviene modificando la vita degli uomini, non permette di cambiare il

senso comune avendo meno forza dei dogmi cristiani, che, seppur fondati su una serie di errori

grossolani e falsificazioni morali, sono ormai stati assimilati e costituiscono l’orizzonte all’interno del

quale l’umanità dà senso alla sua storia. E’ necessario che la teoria sia “incorporata”: « intere

generazioni debbono lavorare a essa e divenire fertili per essa — affinché diventi un grande albero

che proietti la sua ombra su tutta l’umanità avvenire»31.

Lo Zarathustra cerca di superare la difficoltà di esposizione di questa dottrina, vuol trovare nuovi

interlocutori superando il linguaggio tecnico della filosofia. Così parlò Zarathustra — le cui prime tre

parti furono pubblicate tra il 1883 e il 1884 — rappresenta per Nietzsche il «coronamento di sei anni

di esercizio della libertà dello spirito» anche se la composizione delle singole parti richiese solo pochi

giorni. Alcuni appunti sulla «teoria dello stile» che risalgono all’estate del 1882, mostrano la

consapevolezza della necessità di «sedurre i sensi» perché sia colta la verità più astratta, l’attenzione di

Nietzsche per il destinatario della comunicazione, per la forza del “gesto” che esprime la “ricchezza

29 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente (1881-1882), in KGW, V, II, p.396: Opere, p. 384 30 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente (1885-1887), in KGW, VIII, I, p.217; Opere, p. 201. 31 Ivi, KGW, V, II, p.401; Opere, p. 389.

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di vita”. Zarathustra porta alle estreme conseguenze il linguaggio simbolico, la volontà di far agire

figure come personaggi concettuali. Questo tratto non era stato mai assente nelle precedenti opere di

Nietzsche: alcuni momenti delle conferenze di Basilea e alcuni aforismi assumevano la forma

dell’apologo, e nei frammenti postumi vi sono abbozzi di drammi — in particolare quello su

Empedocle del 1871-72 — e di versi ditirambici. Al di là del giudizio sul valore letterario di

quest’opera, certamente il ruolo eccezionale che Nietzsche le ha attribuito e il tono di esaltazione con

cui ne ha parlato in Ecce homo hanno contribuito alla creazione del mito di un testo che pur voleva

essere distante da ogni “fede o mito.

Zarathustra torna tra gli uomini per sciogliere la vita all’innocenza attraverso il pensiero

dell’eterno ritorno. La parodia giullaresca dei valori cristiani (e quindi anche dell’ideale ascetico) si

accompagna alla proposta di un nuovo ascetismo visto non come valore in sé ma come uno

strumento necessario di potenziamento e arricchimento. La stessa parabola Delle tre metamorfosi

presenta come necessaria una ascesa per tre gradi nettamente separati: dall’accettazione di ogni peso

gravoso come esperimento e prova di una forza che isola (il cammello che corre nel deserto) alla lotta

per la libertà contro il costume rigido della comunità e i valori millenari (l’io voglio del leone lotta contro

il tu devi) e, infine, alla «innocenza e oblio» del fanciullo. La durezza, il ghiaccio, le alture, la solitudine,

l’ascensione, la spelonca caratterizzano il cammino del creatore. La bella libertà è possibile per chi ha

educato gli istinti: la ricchezza di energie non è più distruttiva, il gioco delle forze ha il suo ritmo e la

distruzione del fanciullo è nel movimento per la ricomposizione. La lezione di Schiller permane

sotterranea nella riproposizione di questa comunità estetica di uomini liberi.

Zarathustra inizialmente predica alla folla sul mercato. Si accorge che non sono queste le orecchie

sensibili all’eterno ritorno. La folla del mercato vuole l’“ultimo uomo”, l’uomo della massa, schiavo

del benessere, delle piccole virtù e della grande mediocrità che danno una buona coscienza e un buon

sonno. Ma chi è l’ultimo uomo? Nel tratteggiare questa figura Nietzsche si riferisce a una corrente

della riflessione morale del positivismo che aveva fondato l’etica sugli affetti simpatetici, sulla

compassione e sull’amore del prossimo (John Stuart Mill, Auguste Comte, Alfred Fouillée, Jean-Marie

Guyau) e che si congiungeva alle ricerche di etnologi e sociologi come Herbert Spencer e Alfred

Espinas, secondo cui il singolo deve trovare la propria realizzazione «nel sentirsi un utile membro e

strumento della totalità». Questa tendenza è tipica di una società mercantile, che per favorire lo

sviluppo del commercio cerca di eliminare dalla vita ogni pericolosità. Il risultato non può essere che

l’appiattimento generale, la formazione di un unico grande organismo omogeneo che raggiungerebbe

quella fissità di istinti che caratterizza le maggior parte delle specie animali.

Nietzsche si pone in contrasto con le teorie morali a lui contemporanee elaborando un rapporto

individuo-società che privilegia la formazione di individui autonomi attraverso la trasformazione e la

dissoluzione di organismi comunitari. Si prospettano quindi due movimenti opposti: uno di

progressiva mediocrizzazione verso l’ultimo uomo, l’altro di ascesa verso il superuomo. Le nature

superiori devono distaccarsi progressivamente dai valori gregari iniziando il percorso ascetico di

creazione di sé. Zarathustra cessa di insegnare alla folla, parla ai propri discepoli per spingerli

decisamente sulla via dell’autonomia. Pur essendo «il maestro dell’eterno ritorno», Zarathustra deve

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predicare il superuomo, colui che è capace di “assimilare” l’eterno ritorno, la cui forza di affermazione

tragica riesce a convivere con l’ipotesi più estrema del nichilismo e della mancanza di senso del

mondo.

«Dio è morto!» L'annuncio fatto dall'"uomo folle" ne La gaia scienza irrompe drammaticamente

per svelare la genesi del disordine, del caos. Vi era un alto e un basso, un centro e una periferia, un

sole, un orizzonte determinato, una gerarchia e un senso dati: tutto ciò non è più. L'avvenimento ha

come sfondo la vicenda cosmica: comporta l'oscuramento, lo sciogliersi della Terra dal vincolo di

gravità, il suo raffreddarsi progressivo «via da tutti i soli»32. La conseguenza è il senso di una fine

assoluta: l'allusione va alle teorie cosmologiche che ponevano la morte termica dell'universo come

necessaria, per progressiva degradazione dell'energia. Nietzsche vede e combatte in queste teorie il

residuo di Dio.

Neppure gli “uomini superiori”, che provano disgusto nei confronti dei valori delle masse (e

proprio questo sentimento li contraddistingue in quanto uomini superiori) riescono a fare a meno di

un nuovo dio, cioè di un nuovo senso che sostituisca l’ideale cristiano. L'“ombra di Dio” permane

anche dopo la sua morte e costituisce il pericolo più insidioso per l'uomo superiore: nuove religioni

senza Dio sostituiscono le vecchie religioni dogmatiche mantenendo la centralità dei valori dati. La

nuova innocenza deve vincere anche queste ombre.

La morte di Dio e l'uomo superiore sono tra loro strettamente legati, come del resto l'eterno

ritorno e il superuomo: l'uomo superiore — la sua sofferenza, il suo infrangersi, il suo spezzarsi — è

un aspetto della grande crisi. L'uomo superiore non è la risposta adeguata: solo la sua sofferenza

significa una resistenza contro l'“ultimo uomo”. Egli è condizionato fino in fondo dai vecchi valori

(anche nell'estremo rifiuto o nel tentativo di capovolgimento) e soffre quindi per la loro crisi: in

questo è un decadente.

Nietzsche analizza e combatte le multiformi espressioni di una decadenza storicamente definita

che ha le sue manifestazioni nell’esotismo, nel cosmopolitismo, nel culto del primitivo e

dell'innocente, nella religione della sofferenza, nel tolstoismo, nel wagnerismo e che esprime disagio e

rifiuto nei confronti dell’uomo “medio” e del suo progressivo “rimpicciolimento”. Molte maschere

della decadenza si trovano rappresentate nelle figure simboliche e allegoriche dell’uomo superiore

nella quarta parte dello Zarathustra. Tra questi troviamo il “mago” Wagner che rappresenta per

Nietzsche la forma più completa e perciò più interessante di décadence. Più di Baudelaire e dei

Goncourt, Wagner è una lente di ingrandimento che permette al filosofo di conoscere i processi di

disgregazione in atto (non solo nell’arte). Ne Il caso Wagner (1888) Nietzsche leggerà in chiave

fisiologica la decadenza del musicista prendendo come modello i fortunati Saggi di psicologia

contemporanea, (1883) di Paul Bourget. Il “Cagliostro” Wagner viene posto tra gli uomini superiori per

la sincerità del suo naufragio, del suo spezzarsi.

Agli uomini superiori, a questi singoli sofferenti, Zarathustra deve rivolgere il suo messaggio. Per

alcuni aspetti rappresentano frammenti verso una sintesi più completa, per altri aspetti sono stazioni

32 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft (125) in KGW, V, II, p. 158-60; Opere, p. 150-52.

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precedenti dello stesso percorso di Nietzsche. Nietzsche ha dietro di sé e dentro di sé questo percorso

fatto del superamento delle unilateralità. Il tenersi lontano dalla piazza del mercato, dall'istrionismo

dei gesti, è comunque il presupposto comune: la sincerità verso se stessi e la propria sofferenza deve

diventare sofferenza per l'uomo fino a desiderarne la fine. L'educazione degli uomini superiori

culmina nel loro confronto con il “pensiero più grave”, la dottrina dell'eterno ritorno che ha, per

Nietzsche, una funzione selettiva opposta a quella del darwinismo, che vede la vittoria del mediocre

come più adatto alla vita. La capacità di assimilare il pensiero dell’eterno ritorno senza andare in

rovina comporta la profonda e radicale trasformazione dell’uomo “superiore” nella direzione del

“superuomo”.

8. NIETZSCHE: LA VOLONTÀ DI POTENZA E IL RITORNO DI DIONISO

Nietzsche approda negli anni Ottanta a una concezione energetistica attraverso un attento

confronto con le contemporanee controversie sul materialismo e con le teorie critiche del

meccanicismo. Autori come Mach confermarono Nietzsche nella direzione nettamente

antimaterialistica ereditata da Schopenhauer e Lange. Importante in questa direzione era stata la

lettura, già nel periodo di Basilea, della Philosophiae naturalis Theoria di Ruggero Giuseppe Boscovich

(1759) la cui concezione dei punti-forza era stata recuperata tra gli altri da Augustin-Louis Cauchy e

Michael Faraday. La considerazione dinamica del tutto vuole essere la base per una critica distruttiva

di ogni residuo dogmatico-metafisico. I centri di forza in perpetuo movimento pongono in crisi anche

ogni dualizzazione della realtà che portava a conseguenze antivitali di condanna del mondo dei sensi,

dell’aldiqua. E poiché 1’essenza di ogni forza sta nel suo manifestarsi, al di là della forza non esiste

una sostanza sede di questa forza, avente la capacità di esprimerla come di non esprimerla: «tutto è

forza».

Già a livello inorganico è possibile cogliere l’origine del prospettivismo nella conoscenza: «ogni

centro di forza — e non soltanto l’uomo — costruisce partendo da sé tutto il resto del mondo, ossia lo

misura, lo tasta, lo foggia secondo la propria forza»33. Il rapporto conoscitivo è un’espressione

particolare di questa azione-reazione delle forze. Per l’essere organico la relazione con le forze passa

attraverso la mediazione del corpo, che interpreta in funzione dei bisogni. L’essenza della forza è

sconosciuta: la realtà del flusso in sé, inassimilabile per l’essere organico, può essere dominata e deve

essere dominata solo attraverso l’errore: la vita organica presuppone l’errore.

La “volontà di potenza” è l’espressione che Nietzsche usa, a partire da Zarathustra, per designare

un’interpretazione alternativa della realtà capace di creare nuovi valori, solidale con l’affermazione del

superuomo e col pensiero dell’eterno ritorno. La “volontà di potenza” rivela il carattere

33 F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente (1888-1889), in KGW, VIII, 3; p. 165; Opere, p. 162.

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fondamentalmente prospettico di tutta la realtà: «La vita è essenzialmente appropriazione, offesa,

sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione di forme

proprie, un incorporare o per lo meno, nel più temperato dei casi, uno sfruttare»34.

A livello gnoseologico essa si presenta come imposizione di una prospettiva. «L’appropriazione e

l’assimilazione è anzitutto un voler sopraffare, un formare, un modellare e rimodellare, finché il vinto

sia passato interamente sotto il potere dell’aggressore accrescendolo»35.

Superare la prospettiva ristretta dell’ego non significa acquistare una impossibile impersonalità, una

fredda “oggettività”: la conoscenza è comunque implicata nei processi vitali, è legata al gioco degli

istinti. L'ampiezza della prospettiva, la capacità di vedere con più occhi, rimarrà una costante dei gradi

più alti della volontà di potenza. L'immagine dei molti occhi tornerà più volte. Ancora nella Genealogia

della morale l'uomo della conoscenza è colui che «sa utilizzare, per la conoscenza, la diversità delle

prospettive e delle interpretazioni affettive» non un occhio puro, privo di forze interpretative ma una

pluralità di occhi: « quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi,

differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro

“concetto” di essa, la nostra “obiettività” »36.

A partire dal modello del corpo, Nietzsche tende a valorizzare più che il singolo punto di forza,

un sistema vitale più vasto. Prendere il corpo per filo conduttore significa rinunciare alle lusinghe

dell’immediatezza e della semplicità: il corpo si svela sempre più come una pluralità, un insieme di

centri vitali in lotta tra loro. Il corpo è una sintesi di molteplicità in lotta e in movimento e perciò «una

formazione di dominio che significa un’unità, ma non è una cosa sola»37. Il momento primario della

potenza è l’esercizio del dominio su un caos da plasmare, una forma da dare attraverso

gerarchizzazioni e funzionalizzazioni.

Nei suoi gradi più alti, l’impulso alla potenza, significa un allontanamento dalla prospettiva

ristretta e violenta, legata al singolo punto di forza. Di contro alle promesse di una forma superiore e

diversa di uomo, Nietzsche vede qua e là, nella storia, la realizzazione casuale di individui capaci di

arrivare alla “giustizia”. Tra i modelli più vicini che Nietzsche propone, vi è quello della natura

«dionisiaca» di Goethe: «l’uomo più vasto possibile, ma non perciò caotico», che rappresenta il ritorno a una

specie d’uomo del Rinascimento. Il superuomo è colui che supera la parzialità di ogni prospettiva

vitale, non negandola ma incorporandola in una forma piena, colui che ha la forza di assimilare se

stesso a tutta la realtà, e tutta la realtà a se stesso, attraverso l’affermazione del ciclo eterno.

L’amor fati è l’espressione più alta e più ricca della volontà di potenza: l’identificazione attiva con la

totalità nel suo divenire. All’eroismo della lotta e della fine, che ancora caratterizza l’“uomo superiore”

nella direzione del superuomo, Nietzsche contrappone la nuova libertà: «un tale spirito divenuto libero

sta al centro del tutto con un fatalismo gioioso e fiducioso, nella fede che soltanto sia biasimevole quel

34 F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse, (259) in KGW, VI, II, p. 218; Opere, pp. 177-78. 35F. Nietzsche, Nachgelassene Fragmente (1887-1888), in KGW, VIII, II, p.88; Opere, p. 77. 36 F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral, (III, 12) in KGW, VI, II, p. 382-83; Opere, p.323. 37 Ivi, KGW, Vlll, I, p. 102; Opere, p. 92.

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che se ne sta separato, che ogni cosa si redima e si affermi nel tutto — egli non nega più. Ma una fede

siffatta è la più alta di tutte le fedi possibili: l’ho battezzata col nome di Dioniso»38.

Nei primi giorni del 1889 Nietzsche termina il suo percorso filosofico ed umano sprofondando

nella follia, in cui sopravviverà, sempre più corpo inerte e inconsapevole, fino all' estate del 1900. In

Ecce homo, scritto negli ultimi mesi del 1888 e pubblicata con irreparabili censure solo nel 1908, il

filosofo consegna alla posterità la propria vicenda — ai suoi occhi conclusa (“perfetta”) — per

«distruggere alla radice ogni mito» possibile sulla propria persona. Da una parte una esposizione di sé

“antieroica”: Heine e Offenbach più che Carlyle e Wagner, i riferimenti. Dall’altra, talvolta, l’uso di

una oratoria adeguata all’altezza epocale della “trasvalutazione di tutti i valori”.

Il rovesciamento dei valori cristiani e la conquista di una “nuova innocenza” che afferma la piena

liberazione della sessualità dalla maledizione del risentimento, sembra essersi attuata con le

considerazioni de L’anticristo che termina appunto con una Legge contro il cristianesimo datata «nel giorno

della salvezza, nel primo giorno dell’anno uno (— il 30 settembre 1888 della falsa cronologia)». Gli

ultimi scritti assumono il senso di una accelerazione del pathos e dell’euforia che precedono la

catastrofe.

Eppure in Ecce homo Nietzsche racconta se stesso attraverso la quotidianità fatta di «piccole cose,

secondo il giudizio comune» in cui alla malattia, più che allo splendore della salute della “bionda

bestia” va la gratitudine del filosofo. La malattia ha liberato il suo spirito, gli ha dato «la capacità

psicologica di “vedere dietro l'angolo”», alla malattia Nietzsche deve la profondità e le nuances: «le devo

la mia filosofia»39.

38 F. Nietzsche, Götzen-Dämmerung in KGW, VI, III, p. 146; Opere, p.151 39 F. Nietzsche, Nietzsche contra Wagner , in KGW, VI, III, p. 434; Opere, p. 411.

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2. Gottfried Benn, Torino

« Cammino con le scarpe rotte», scrisse questo genio universale nella sua ultima lettera - poi

lo portano a Jena - psichiatria.

Non posso comprarmi i libri, li leggo nelle librerie:

appunti - poi a prender l'affettato: - questi sono i giorni di Torino.

Mentre la nobile muffa d'Europa di Pau, Bayreuth ed Epsom si nutriva,

lui abbracciava due ronzini, finché il padrone non lo trasse a casa.

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3. “Gut deutsch sein heisst sich entdeutschen... — Goethe hätte mir vielleicht Recht gegeben”

Lo spirito libero e la vecchia Europa.

Nella lettera del 22 luglio 1888 al vecchio amico Deussen, dopo aver affermato di allontanarsi

sempre più dal proprio tempo «per principio e non senza successo» e avere espresso le sue

preoccupazioni per la «recrudescenza delle antiche sofferenze» con la sensazione «di essere in

qualche modo incurabile», e la conseguente necessità – per ottenere «un certo grado di stabilità» –

di «cento precauzioni e accorgimenti» e «di circostanze favorevoli, ad es. tempo sereno e asciutto»,

Nietsche, nel commiato affettuoso, per definire se stesso rimanda a Goethe: «Serbami il tuo affetto

e credi nell’amore di un vecchio Unmensch [“essere disumano”, mostro] e Unbehaust [“senza

dimora” sradicato], per dirla con Goethe». Il riferimento è ai versi dell’ Urfaust: «Non sono io il

reietto, il senza dimora,/ l’essere disumano senza meta né pace, /che come una cascata balza di

roccia in roccia, /furiosamente attratta dall’abisso?» (vv. 3348-3351).

Nietzsche fin dai suoi anni giovanili si è confrontato in più modi e costantemente con Goethe: dal

ribelle prometeico dell’inno giovanile del 1773 ripreso nel breve dramma in un atto dedicato al titano

(1859), all’erede più degno, con Leopardi, dei poeti-filologi dell’Umanesimo italiano nei frammenti

per l’inattuale Noi filologi. Dei poeti-filologi Goethe raccoglie soprattutto l’elemento ‘agonistico’

del confronto con l’antichità. La sua comprensione della grandezza degli antichi nasce dalla sua

geniale grandezza. A lui doveva far riferimento il giovane allievo della disciplina filologica per la

propria formazione: partire dalla modernità, la più grande, per un confronto agonistico con

l’antichità classica. Goethe appare solo nel primo periodo espressione di un germanesimo ideale,

lontano e ostile al presente dominato dal filisteo della cultura, un germanesimo ideale capace di

indirizzare il giovane verso una cultura superiore.

Goethe – mutata radicalmente la prospettiva rispetto al mondo neolatino – appare l’erede del Rinascimento: “Goethe – non un avvenimento tedesco, ma europeo: un grandioso tentativo per superare il XVIII secolo con un ritorno alla natura, con uno spingersi in alto, alla naturalità del Rinascimento, una specie di autosuperamento da parte di questo secolo” (GD Scorribande di un inattuale, 49). Goethe non si caratterizza certo per la violenza bensì per la complessità che domina e la totalità che afferma: “concepisce un uomo di alta formazione, che si tiene a freno, rispettoso di se stesso, che può osare di concedersi l’intera ricchezza dell’anima e della naturalità (fino al

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burlesco e al buffonesco) perché è abbastanza forte per ciò; l’uomo della tolleranza non per debolezza ma per forza, perché sa usare a proprio vantaggio ciò che rovina la natura media, l’uomo più vasto possibile, ma non perciò caotico” (9[179] autunno 1887). Una prefigurazione del superuomo: colui che supera la parzialità di ogni prospettiva vitale, non negandola ma incorporandola in una forma piena, colui che ha la forza di assimilare se stesso a tutta la realtà, e tutta la realtà a se stesso, attraverso l’affermazione del ciclo eterno. L’amor fati è l’espressione più alta e più ricca della volontà di potenza: l’identificazione attiva con la totalità nel suo divenire. All’ eroismo della lotta che caratterizza il frammento di uomo nella direzione del superuomo, Nietzsche contrappone la nuova ultima libertà: “un tale spirito divenuto libero sta al centro del tutto con un fatalismo gioioso e fiducioso, nella fede che soltanto sia biasimevole quel che se ne sta separato, che ogni cosa si redima e si affermi nel tutto — egli non nega più. Ma una fede siffatta è la più alta di tutte le fedi possibili: l’ho battezzata col nome di Dioniso” (GD Scorribande ... 49).

Goethe, quale natura dionisiaca e ‘uomo del Rinascimento’, assume per Nietzsche una forte valenza simbolica contro i Tedeschi (“non apparterrà loro mai”, VM 170) e contro l’ultimo Wagner (“che cosa avrebbe pensato Goethe di Wagner? [...] La sua risposta è: “soffocare ruminando assurdità etiche e religiose””, WA, 3).

In Taine troviamo una piena consonanza con le posizioni di Nietzsche: Goethe rappresenta una superiore salute ed un equilibrio classico rispetto alla malattia dell’ “homme moderne” fatta di “exagèration de la sensibilité”, di “disproportion” fra i suoi désirs et la sua potenza, di dilacerazione e contrasto insanabile tra le sue facoltà. “Pour s’affiner, il s’est détraquè; il a opposé le surnaturel à la nature, et l’épuration de la conscience humaine au développement de l’animal humain”. La virtù non è più, per l’uomo moderno, l’espressione de “l’instinct libre”. Il divorzio tra “les délicatesses de l’âme” e la salute del corpo è profondo: “après les grands artistes de la Renaissance, un seul poète, Goethe, l’a rètabli dans les temps modernes”40. Nell’Ifigenia di Goethe, Taine vede realizzati i valori da lui posti in alto: la Grecia e la Renaissance vivono ancora in una esperienza dall’equilibrio fragile e miracoloso. Solo l’enorme potenza creativa, l’ampiezza e la pazienza del genio di Goethe è capace di dare una forma superiore alla massa di idee, impulsi, nozioni confluiti nel cuore del mondo moderno da tutte le direzioni dello spazio e del tempo. Le espressioni di Taine che caratterizzano l’uomo che oggi abita la grande città (il modello simbolico è Parigi) sono molto vicine a quelle usate da Nietzsche: “multiple et cosmopolite comme il est, il peut s’interésser à toutes les formes de l’art, à tous les moments du passé, à tous les étages de la vie, goûter les résurrections des styles étrangers et anciens, les scènes de moeurs rustiques, populacièrs ou barbares, les paysages exotiques et lointains, tout ce qui est un aliment pour la curiosité, un document pour l’hstoire, un sujet d’émotion ou d’instruction”41. Anche per il filosofo

40 Hippolyte Taine, Sainte-Odile et Iphigénie en Tauride (1863) in Derniers essais de critique et d’histoire, cit, p. 88.Ma si veda anche H. TAINE, Notes sur Paris. Vie et opinions de M. Frédéric-Thomas Graindorge, Paris 1867, p. 84-85: “Goethe nous disait: Traitez votre âme comme un insecte; il est amusant de compter ses instincts, de prévoir ses soubreauts et ses démarches. — J’aime mieux dire: Traitez votre âme comme un violon, et donnez-lui des motifs surt lesquels elle trouvera des airs” 41Hippolyte Taine, Philosophie de l’art, Paris,Fayard 1985, p. 324.

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tedesco, la mescolanza caratterizza le “anime moderne”:“gli istinti corrono ormai a ristroso in tutte le direzioni e noi stessi siamo una specie di ‘caos’” (JGB 224); l’ uomo europeo è ‘ibrido’, la storia è il suo guardaroba (JGB 223). Goethe ha avuto la forza di dire sì alla totalità e di ordinare il caos accogliendo la pluralità mobile e contraddittoria in una forma superiore e tollerante: “i contrasti sono domati, ciò che è il più alto segno della potenza, rispetto alla contraddizione, e fra l’altro senza tensione” (7 [3] 18).

Nella lettera citata all’inizio Nietzsche assimila a sè stesso lo Streben faustiano. Tale motivo è presente nell’immagine dell’ uomo di Goethe di Sch come educatore: «il liberatore del mondo Faust diventa quasi soltanto uno che viaggia per il mondo. Tutti i campi della vita e della natura, tutte le epoche passate, le arti, le mitologie, tutte le scienze vedono volare davanti a sé l’insaziabile contemplatore»(SE 4). Come ha messo bene in luce il compianto Sandro Barbera, qui indubbiamente Nietzsche prefigura in questo modo la caratteristica di «viaggiatore» e «viandante» propria più tardi dello spirito libero e del suo stile di vita. Questo è confermato anche dal confronto con Wagner nella quarta inattuale: «Goethe, che appare, come discente e sapiente, simile a una ramificatissima rete fluviale, che però non porta tutta la sua forza al mare, e ne perde e sparge invece nelle sue vie e nelle sue incurvature almeno tanta, quanta ne porta con sé alla foce. Una natura come quella di Goethe ha e fa più piacere, intorno a lui aleggia qualcosa di nobilmente prodigo, mentre la violenza del corso e della corrente di Wagner può forse spaventare e respingere» (WB 4).

L’ atteggiamento contemplativo in grande stile dell’uomo di Goethe, caratterizza gli inizi

del processo dello “spirito libero”, quando il disincanto del procedere del viandante, che raccoglie e fa esperienza, si lega al “nomadismo intellettuale”ancora lontano dalla consapevolezza nichilistica che emerge successivamente come compagna del cammino nel gelo e nel deserto. Il riferimento ai versi del Faust: l’Unbehaust il senza dimora, l’ Unmensch, «l’essere disumano senza meta né pace, /che come una cascata balza di roccia in roccia, /furiosamente attratta dall’abisso» rimanda piuttosto che al viandante di SE, a colui che sereno viaggia per il mondo, alla figura caratterizzata in un singolare componimento che ha attirato più volte l’attenzione di Gottfried Benn: un frammento poetico del 1884 che porta il titolo Der Freigeist e più di altri unisce il tema dello spirito libero a quello del nichilismo, del gelo.

Lo spirito libero

Commiato

«Gracchiano le cornacchie

e si volgono con volo fremente sulla città: presto nevicherà –

buon per colui che ancor oggi – ha patria.

Ora te ne stai irrigidito, già da un bel pezzo, ahimè!, guardi all'indietro,

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perché dinanzi all’inverno, tu pazzo, sei scappato – nel mondo?

Il mondo – una grande porta

su mille deserti, muta e fredda! Chi ha perduto

quel che tu hai perduto, mai fa sosta.

Ora te ne stai pallido, con la maledizione di peregrinare in inverno,

simile al fumo, che sempre cerca cieli più freddi.

Vola uccello, fa’ stridere la tua canzone con l'accento di un uccello del deserto! –

nascondi, o pazzo, il tuo cuore sanguinante nel ghiaccio e nello scherno!

Gracchiano le cornacchie

e si volgono con volo fremente sulla città: presto nevicherà, guai a colui che non ha patria! ».

Risposta

Misericordia! Lui crede che io bramassi di ritornare

nel caldo tedesco, nella felicità intanfita delle stanze tedesche!

Amico mio, ciò che qui

m’impedisce e trattiene è il tuo intelletto, la compassione di te!

la compassione dello storto intelletto tedesco!

[trad. italiana di Giorgio Colli]

Il componimento si presenta in forma di dialogo: da una parte la durezza del cammino

intrapreso: («Il mondo – una grande porta /su mille deserti, muta e fredda!») l’essere senza

patria, la solitudine, il deserto… Lo sguardo di compassione – che è un commiato definitivo

– proviene dallo spirito radicato nella comunità: «buon per colui che ancor oggi – ha patria/

guai a colui che non ha patria!» Ma la risposta alle parole di congedo è il deciso rifiuto

motivato dalla compassione verso chi se ne rimane «nel caldo tedesco,/ nella felicità intanfita

delle stanze tedesche!». Keine Stubenkultur – si legge in un frammento giovanile (32[73], ksa

7, 780) e il Stuben-Glück appartiene del tutto allo Stubengelehrte [dotto da tavolino]: nessuna

durezza o solitudine gelata può fare tornare indietro lo spirito libero.

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Le cornacchie gracidano nel gelo: il gelo simbolo mitico-psicologico di un rifiuto di

investimento affettivo sul mondo torna a caratterizzare nei Lieder romantici il cammino del

viandante nella sua solitudine e nell’abbandono: basti pensare al ciclo Winterreise di

Schubert, che Nietzsche ha certamente presente, dove torna più volte il tema delle cornacchie:

Hab' mich an jeden Stein gestoßen, Ho inciampato su ogni pietra, So eilt' ich zu der Stadt hinaus; tanto m’affrettavo a scappare dalla città; Die Krähen warfen Bäll' und Schloßen le cornacchie mi tiravano neve e grandine Auf meinen Hut von jedem Haus. sul cappello da ogni casa.

(Lieder: VIII. Rückblick - Sguardo indietro)

Nel quindicesimo Lied (La cornacchia) si trova il tema, ricorrente nel ciclo, della morte come

rifugio: la cornacchia segue il viandante svolazzando sopra il suo capo, attendendo di nutrirsi

della sua spoglia: «Certo, non durerà ancora a lungo il cammino/ mio e del mio bastone./Cornacchia, lasciami infine vedere/ fedeltà fino alla tomba!» [Nun, es wird nicht weit mehr geh'n / An dem Wanderstabe. /Krähe, laß mich endlich seh'n, / Treue bis zum Grabe!]

Il binomio gelo-nichilismo ritorna – con le cornacchie – nella GM:

«qui è neve, la vita qui è ammutolita; le ultime cornacchie che fanno udire qui il loro verso,

dicono: “a che scopo?” “Invano!” “Nada!” - qui non cresce e non fruttifica più niente, al

massimo metapolitica pietroburghese o «compassione» tolstoiana».

Nietzsche riecheggia da vicino la caratterizzazione che Bourget fa del nichilismo di Flaubert:

«come lo scheletro del dipinto di Goya solleva la pietra della sua tomba, e con il suo dito

bianco scrive «Nada...– non c’è niente...»42: i morti delle civiltà antiche si drizzano davanti

agli occhi evocatori del poeta e gli giurano che uno stesso nulla era al fondo della felicità di

allora, che uno stesso sgomento e una stessa angoscia erano alla fine di ogni sforzo e che,

barbaro o civilizzato, l’uomo non ha mai saputo né ridurre il mondo a misura del suo cuore,

né adattare il cuore a misura dei suoi desideri!»

Il tema del gelo torna con frequenza nei testi di N. Ad esempio: «Tutto è liscio e pericoloso

sul nostro cammino, e intanto il ghiaccio che ancora ci sostiene è diventato così sottile: noi

tutti sentiamo il caldo, sinistro respiro del vento australe — dove noi ancora camminiamo, ben

presto non potrà più camminare alcuno» (FP 1884, 25[9]), e la «verschneite Seele» «anima

coperta di neve» «cui fa coraggio il vento del disgelo» [der ein Thauwind zuredet 20[3]

autunno 1888]), e fino all’ultimo in un’abbozzo di lettera da Torino (29 nov. 1888) si legge:

42FranciscoJosédeGoya,EllodiráTitulo:Nada(1810‐14),MuseodelGrabadodeGoya.

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«vengo da mille abissi, su cui non ha mai osato affacciarsi nessuno sguardo, conosco altezze dove nessun uccello ha mai volato, ho vissuto sul ghiaccio – sono stato bruciato da mille nevi: mi sembra che caldo e freddo nella mia bocca siano un’altra cosa». Cfr. anche NF-1888, 16[32]. Il tema trova il suo sviluppo nel testo poetico Der Freigeist. La metafora del ghiaccio ricorre nell’Ottocento ad indicare l’incrinatura tenacemente aperta

anche nei momenti di massima efficacia ed espansione delle filosofie del progresso. Per la

cultura francese a cui Nietzsche fa riferimento si può menzionare una traccia continua che va

dalla futura «âge glacée» di Le Peuple di Michelet, alla notte eterna popolata dalla

«procession funèbre» dei pianeti spenti, «cadavres sideraux» di L’éternité par les astres di

Blanqui, al ghiaccio come manifestazione fisica della morte della civiltà in Renan, fino a quel

curioso opuscolo di Gabriel Tarde (Fragments d’histoire future, 1896) dove il progressivo

raffreddarsi della crosta terrestre per una “anemia solare”, costringe i pochi sopravvissuti

guidati da un salvatore – un Milziade che non ha disperato dell’Umanità – a ricercare nelle

viscere del pianeta il calore necessario alla sopravvivenza.

Gelo e nichilismo: Nietzsche dolorosamente è colpito dall’accusa da parte wagneriana (il

musicologo Schuré) di «nihilisme ecœurante» per le sue nuove posizioni filosofiche – dopo la

pubblicazione di Umano, troppo umano. Emancipatosi dalla soffocante tirannia del

wagnerismo, Nietzsche si sente volto verso nuovi e aperti orizzonti, e per la prima volta,

nell’autunno del 1881, fa suo il termine “nichilismo”:

«In che misura ogni orizzonte intellettuale più limpido appare come nichilismo». Il nichilismo

si lega alla ricerca di orizzonti intellettuali più limpidi, allo sperimentare del viandante, alla

durezza del suo cammino solitario.

Nella prefazione del 1886 ad MA I, la durezza iniziale si lega all’ «evento decisivo di una

grande separazione», che interviene improvviso, come uno scoppio di energia, per uno spirito

saldamente legato:

«Per gli uomini di specie alta ed eletta saranno i doveri: quel rispetto che è proprio della gioventù, quella soggezione e delicatezza di fronte a tutto ciò che è degno e venerato dall'antichità, quella riconoscenza per il suolo sul quale crebbero, per la mano che li guidò, per il santuario dove impararono a pregare, - i loro stessi più elevati momenti li legheranno nel modo più saldo, li obbligheranno nel modo più durevole.» Il sentirsi a casa nel calore della comunità rafforzata dal costume e dalla buona cocienza: tutto

quello che la “giovane anima” aveva per sé:

«Piuttosto morire che vivere qui», così parla la voce imperiosa della seduzione: e questo «qui», questo «a casa» è tutto ciò che fino ad allora la giovane anima aveva amato! Un subitaneo orrore e sospetto verso ciò che amava, un lampo di disprezzo verso ciò che per essa significava «dovere», una smania ribelle, capricciosa, vulcanicamente impetuosa, di peregrinare, espatriare, estraniarsi, raffreddarsi, disincantarsi, gelarsi, un odio per

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l'amore, forse uno sguardo e un gesto sacrileghi all'indietro, là dove aveva finora pregato e amato, forse un rossore di vergogna per ciò che ha appena fatto, e nello stesso tempo un'esultanza per averlo fatto, un ebbro, profondo, esultante brivido, in cui si rivela una vittoria - una vittoria? su che? su chi? una vittoria enigmatica, piena di interrogativi, problematica, ma comunque la prima vittoria: - simili cose tristi e dolorose appartengono alla storia della grande separazione».

La “libertà dello spirito” non si presenta come facile e gaia leggerezza e caduta improvvisa di

pesi: presuppone per lungo tempo un “morboso isolamento” di chi si distacca dalle certezze

incorporate, diventate istinti, diventate morale: l’«essere sempre in cammino, inquieto e senza

meta come in un deserto», con pensieri ed esperimenti inquietanti, pericolosi, che «lo

seducono e lo conducono sempre più lontano, sempre più lontano. La solitudine lo circonda e

lo stringe, sempre più minacciosa, soffocante, attanagliante quella terribile dea, e mater saeva

cupidinum - ma chi sa oggi che cosa sia la solitudine?».

N. cita qui Orazio, (Carmina liber I 19): significativamente e in modo ambiguo la solitudine si

identifica per il filosofo con «Venere, terribile, cruda madre degli amori».

La figura del Wanderer, l’ombra di Zarathustra, il buon Europeo della quarta parte dello

Zarathustra fa parte degli “uomini superiori”, che non si rassegnano, disperano, esprimono

sofferenza e disagio e si oppongono al processo di Verkleinerung:

"in verità, io vi amo, uomini superiori, perché oggi non sapete vivere! Così, infatti, voi, vivete —

nel modo migliore!" (Za, , VI/1, p. 350). Sono figure della decadenza che sperimentano con

pericolo nuove forme di vita, gli estremi prodotti di un'epoca di transizione, ancora incapaci di

signoreggiare e ordinare i molti istinti contraddittorii di cui sono costituiti come figli della

modernità. La figura dell' ombra, “viandante sempre in cammino ma senza una meta”, la

cui irrequietezza infrange ogni cosa venerata ("nulla è vero, tutto è permesso")43 e rovescia

"le pietre di confine", per stanchezza, al termine di un faticoso percorso sperimentale, può

cercare alla sera il primo punto di riposo rimanendo prigioniero di "una fede ristretta, di una

severa e dura illusione" (Za IV, L’ombra). Sono anche figure delle stazioni di Nietzsche: nel

percorso dello spirito libero tracciato mirabilmente nella Introduzione a MA, prima di arrivare

alla pienezza di energia della grande salute, rimane «il pericolo che lo spirito si perda e per

così dire si innamori delle sue stesse vie e resti fisso, inebriato, in un punto qualsiasi» (MA

Vorrede 4)

Oppure sogna la Heimat, il suo calore, la impossibile regressione. Nietzsche comprende come la debolezza del romanticismo non sia capace di fare a meno del dio cristiano, comunque 43 Za, VI/1, p. 332. Il motto dell'ordine degli Assassini (GM, 3, 24, VI/2, p. 355) compare accanto agli appunti per la figura dell'uomo superiore (primavera 1884). Cfr. almeno: 25 [304],[322] (VII/2, p. 77 e p. 83).

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trasfigurato e trasmutato, e vede presenti e forti “les nostalgies de la croix” (GM II, 7). Con questa espressione Nietzsche riprende una poesia di Bourget che drammatizza lo stato d'animo di tensione, di insoddisfazione, ma anche la voluptas dolendi e il raffinato "piacere della crudeltà", che si accompagnano alla privazione della religione tradizionale. Necessaria la terapia antiromantica e il gelo: le chiare affermazioni di Ecce homo esprimono la coerenza di un atteggiamento teorizzato a partire da Umano, troppo umano dove, accanto al «genio» e al «santo», congela «l'eroe». «È la guerra, ma una guerra senza polvere da sparo e senza fumo, senza pose guerresche, senza pathos né membra contorte; tutto questo sarebbe ancora «idealismo». Un errore dopo l’altro viene tranquillamente messo sul ghiaccio, l’ideale non viene confutato, congela (EH, MA 1). Attraverso il “rischiaramento” delle forze positive, a disposizione dell’uomo, si perde il

fascino estetico del fondo vitale. Nietzsche afferma pacatamente e anche, in certi momenti,

con grigiore disincantato, il valore della conoscenza scientifica.

La disumanizzazione della natura (il completo riportare all’uomo la forza artistica già

attribuita al fondo vitale) sembra comportare all’inizio una povertà desolata. La scienza ha

come disseccato le cose privandole della linfa magica che l’uomo vi aveva immesso. In tal

modo ha dato però un potere effettivo: l’uomo è diventato il «dio delle macchine», ha reso

praticabile la natura accontentandosi degli schemi e delle astrazioni del meccanicismo. La

scienza ci deve avvicinare alle cose prossime: la saggezza antica volava verso gli dèi

impoverendo gli uomini.

C’è la scelta costretta dello spirito libero verso le piccole cose dopo l’ubriacatura degli ideali

romantici di una ricchezza debordante. Nietzsche constata la perdita del talento per la “gioia

festiva” propria dell’antichità: la sua spiegazione del fenomeno va a favore dei tempi moderni

che cercano non un palliativo al dolore (la festa) ma la modificazione delle cause della

sofferenza attraverso l’invenzione di macchine e la soluzione di problemi scientifici.

Ma già attraverso la fedeltà superiore allo “Schopenhauer educatore” si rifugge dalla

consolazione metafisica e dall’illusione.

Da Schopenhauer procede sia la “vivisezione” dell'illusione, sia il sonno metafisico più

profondo del genio wagneriano. Il nucleo del ritratto che Nietzsche fa del filosofo assume

però, sempre più, i caratteri della «veracità eroica». Lo Schopenhauer inattuale conduce

«nella più sottile e pura, gelida aria alpina, per far sì che possiamo decifrare i geroglifici di

granito della natura». Esige la prova di forza:«Chi non resiste lassù torni pure giù in fretta a

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rifugiarsi nella mollezza della sua cultura trasfiguratrice»44. Le metafore del gelo di montagna

e l'espressione «spirito libero» (con quella di «distruttore che libera» [befreiender Zerstörer])

caratterizzano, negli appunti della primavera-estate 1874, la figura del filosofo pessimista.

Questo Schopenhauer, già «volterriano», nonostante il pathos della verità e il travestimento

emersoniano, apre a Nietzsche la via della liberazione, al pieno recupero di se stesso.

Nietzsche, sin dal motto dal Discorso sul metodo di Umano, troppo umano, sottolinea, l’aspetto che Descartes legava alla ricerca: la ‘gioia’ che si esprimeva come passione della conoscenza:

“la mia anima finalmente divenne così piena di gioia, che tutte le altre cose non potevano più offenderla in alcun modo”45.

E, tuttavia, per il filosofo tedesco, la ‘gioia’ per la conoscenza è solo un desideratum più che una realtà: in Umano, troppo umano è prevalente il ‘gelo’ e il ‘disincanto’ di una terapia antiromantica volta a frenare qualsiasi entusiasmo e ubriacatura romantica. “Un errore dopo l’altro viene tranquillamente messo sul ghiaccio, l’ideale non viene confutato — congela”46. Se la scienza “toglie gioia” per i risultati che gettano sospetto sulle consolazioni, come la religione, la metafisica e l’arte, essa è invece fonte di piacere per chi lavora e ricerca (MA I, 251).

L’estrema ‘beatitudine’ del conoscere caratterizza “l’attività di un intelletto bene esercitato, che sa rinvenire e inventare”. “Similmente giudicavano Cartesio e Spinoza: come devono averla goduta la conoscenza tutti costoro!” . Il ‘rapimento’ nasce già “al più piccolo, sicuro, definitivo passo e progresso della conoscenza” anche se “non viene creduto da tutti coloro che si sono abituati a cadere in estasi soltanto quando abbandonano la realtà e balzano negli abissi dell’apparenza”. Il procedere metodico va contro l’intuizione dei teologi e filosofi tedeschi, contro la visione dei mistici (M. 550). ma anche contro l’attività degli uomini pratici, che “rotolano come rotola la pietra, con la stupidità del meccanismo” (MA, 283). Col conoscere “si acquista coscienza della propria forza” superando le vecchie idee e i loro esponenti e sentendoci in tal modo “elevati al di sopra di tutti” (MA I, 252).

La solitudine di Zarathustra, la sua distanza dalla grande città, è una scelta per il «gelo

della conoscenza» contro il calore del piccolo uomo e delle sue menzogne, un volontario esercizio di autodisciplina che segna il «cammino del creatore». A partire da Umano troppo umano la solitudine diviene per Nietzsche necessaria per l’esercizio della critica, contro l’attività macchinale della professione e del ruolo sociale e la bugiarderia dell’idealismo che questi producono come narcotico. La «fortezza» di Nietzsche è presupposto di un

44 KGW, III, IV, p. 416; Opere, III, III/2, p. 409.

45 F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches : (An Stelle einer Vorrede), in KGW, IV, II, p. 3; Opere, p. 489. Per il brano citato cfr.: R. Descartes, Dissertatio de Methodo, traduz. latina di Etienne de Courcelles, in Oeuvres de Descartes, ediz. C. Adam e P. Tannery, Paris 1897-1910, VI p. 555. 46 EH, VI, 3, pp. 331-332.

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«contromovimento» rispetto al moderno e il suo atteggiamento si definisce e si precisa nel confronto a fondo con le antitetiche espressioni della città, della décadence. E se il percorso di Nietzsche può precisare il suo senso solo nello sfondo storico, la dissezione dei fenomeni del moderno serve a illuminarne il significato.

Il tema del “gelo” è mirabilmente recuperato – in senso diverso da Musil e da Mann. In Musil: il «tipo cerebrale dell’avvenire», la crudeltà dell’esperimento

(caratterizzato col termine nietzscheano di «vivisezione»), la morale matematica, il gelo intellettualistico che smonta analiticamente le macchine che sostengono l’immediatezza dell’effetto.

Ed anche Mann: nel Doctor Faustus, nel romanzo di N-, nel suo Parsifal come

romanzo della fine e sua estrema “radicale confessione”, nel suo sofferto fare i conti col romanticismo wagneriano, sottolinea il gelo che circonda Leverkuhn; il suo duro ascetismo è pur lontano dalla barbara, cattiva socialità che lo circonda e che marcia, corre verso la catastrofe. L’ammirazione della forza e della “bella brutalità” della vita, del Rinascimento italiano come epoca “fumigante di sangue e bellezza”, caratterizza, per Mann, i circoli culturali prenazisti e viene messa in caricatura nel Doctor Faustus con la figura del dott. Helmut Institoris

La salvezza sta nell’operare, nell’ascetico operare quotidiano, nella metodica costruzione in cui

l’artista/artigiano perde la vita, si inaridisce (il gelo dell’artista sta nella costruzione dell’arte come

sostituto della vita fino al pericolo della “gelida misantropia”) (XXI Lettere) — ostile comunque,

fin dall’inizio alla “teatralità”, alla messa in scena, all’estetismo facile legato al culto

dell’immediatezza, “l’estetismo della scelleratezza e del Rinascimento, quel culto isterico della

forza, della bellezza e della vita di cui si compiacque per un certo tempo una certa poesia”. Oppure

basti ricordare il sarcasmo, nel Lesedrama Fiorenza, con cui Mann investe l’ "egregia masnada di

artisti, quella beata compagnia di parassiti e attaccabrighe, di spacconi e di buffoni, geniali, sensuali

e arcibalordi, la cui morale irresponsabiità allegramente incespica fra le sale e le aiuole di Careggi"

E, a proposito di Nietzsche, la storia del suo «evolversi spirituale» è quella di chi – anche attraverso la malattia – «è proiettato, per così dire, in alto, fuor di una sfera di splendida normalità, nelle sfere gelide e grottesche di una conoscenza che uccide, di una moralità che isola...»

Il dialogo del frammento poetico del 1884, mette in scena lo spirito libero contro lo spirito

vincolato, chiuso nello Stuben: questo è anche il duro confronto con Rohde a proposito del

significato della Gaia scienza. La compassione del dotto tedesco, chiuso nell’intanfito calore

della sua stanza di studio, verso il nomade sofferente senza patria, che ricerca nel gelo e nel

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deserto e, di contro, la “compassione” dello spirito libero per il dotto tedesco, per il suo

“storto intelletto tedesco”.

In un lungo appunto per la Prefazione (datata 1886) alla nuova edizione de La gaia

scienza, Nietzsche si lamenta del generale fraintendimento del senso dell’affermata

“serenità” che caratterizza il volume e del fatto che «di questa “gaia scienza” non si è certo

capito nulla, neppure il titolo, sul cui significato provenzale molti dotti --- ». La frase,

interrotta, viene chiarita da una successiva ripresa:

«A prescindere da alcuni dotti, la cui vanità venne urtata dalla parola “scienza” (mi

fecero intendere che si trattava forse di qualcosa di “gaio”, ma certo non di “scienza”), tutti

presero questo libro come un ritorno a “tutti”, e in grazia sua si mostrarono concilianti e

affettuosi nei miei confronti» (NF 2[156] autunno 1885-autunno 1886). Il riferimento

polemico di Nietzsche, che percorre altre parti dell’appunto, è rivolto verso il vecchio amico

e sodale negli studi filologici di Lipsia che da tempo si è da lui allontanato: «se ne sta a

Tubinga, immerso nei suoi libri e nel matrimonio, per me irraggiungibile sotto ogni

riguardo» (A Erwin Rohde, 24 marzo 1881), «non è in grado di imparare qualcosa da me –

non riesce a condividere la mia passione e le mie sofferenze» (A Franz Overbeck, 17 marzo

1882).

Il prudente realismo di Rohde nei confronti dei generosi e audaci progetti di Nietzsche,

che pure aveva in passato condiviso, si è progressivamente trasformato in un accidioso

malcontento di sé, in un microcosmo di personale filisteismo, nella solitudine di «un lavoro

sconfortante»: «non sento una vera e propria nostalgia, ma una malinconia sommessa,

quando torno così con la mente ai decenni passati, e penso a quanto poco o niente si sia

risolto» dice Rohde all’amico, concludendo: «ora spesso mi sento come uno stagno di

campagna che piano piano si ricopre di muffa» (8 aprile 1881). In una lunga lettera Rohde

(26 novembre 1882) esprime le sue opinioni sulla Gaia scienza:

Così, in vacanza, su una qualche panchina, e del tutto lontano dalla greppia del mio vecchio lavoro, mi sono goduto veramente di cuore e con i sensi sgombri il tuo libro. Esso mi appare di gran lunga più vivace e coraggioso dei tuoi precedenti: naturalmente questa gaia scienza non vuole ancora apparirmi una scienza, ma ora diventa davvero più libera e più gaia; ciò che dapprima mi sembrava, permetti che te lo confessi, caro amico, una risoluzione stravagante, voluta a denti stretti, strappata soltanto con la forza alla tua vera inclinazione, – questo nuovo modo di vedere, che si inebria entusiasticamente nella sobrietà, è divenuto ormai per te, almeno così lo sento, veramente un modo naturale di sentire; ed ora, si nota bene, esso serve effettivamente a renderti la vita più leggera, più chiara, piacevolmente fresca senza, a dir la verità, renderti più povero. Ciò che rende così preziosa per me quest’ultima conoscenza, è che si tratta essenzialmente di una vera e propria professione di fede: così ti senti; ed esprimi questo con incomparabile energia e chiarezza. Il dogmatico di questo modo di vedere si perde sempre più, e questo è bene […]. Quel che ho sentito così benefico è il tratto squisitamente personale dell’intero libro, come pure il

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soffio di un acquietamento dello spirito e di salutare rilassatezza dell’intero essere, ora non più soltanto spasmodicamente voluti ma ottenuti e tranquillamente mantenuti, che spira verso di me dalla maggior parte delle considerazioni. A meno che tu non sia un giocoliere nel dominio di te stesso, ormai devi aver veramente scalato la montagna e ritrovato la tua salute: lo attesta con mia grande gioia, ancor più della tua lettera, il tuo libro: e per questo esso fu per me una vera spedizione di gioia.

Indubbiamente Rohde coglie, anche fuorviato da alcune affermazioni di Nietzsche nella

lettera che accompagnava il volume, l’aspetto personale, la protezione che la “gaia scienza”

assicura e la cura di sé che ha portato all’affermata “guarigione”. Certamente il tema della

sofferenza e della solitudine, del loro significato, la forza di liberazione del “grande dolore”

che porta a porre domande “più profonde, più rigorose, più dure, più cattive, più silenziose”,

ad una crisi di fiducia nella vita che significa anche un diverso modo di amare ed anche “una

nuova felicità” percorre l’intera Prefazione della Gaia scienza. Il tema della solitudine è

centrale nelle lettere degli anni Ottanta, e declinato in molti modi. La solitudine è peso e

dolore, ma quando il filosofo cede al bisogno di rompere l’assoluto isolamento, una

momentanea euforia è spesso seguita da pentimento e accresciuta sofferenza. Lo stesso

Nietzsche coltiva la sua immagine di eremita: l’asceta «solitario di Sils-Maria», quasi

elemento del paesaggio, bisognoso di una maschera nel rapporto con gli altri, «ha la sua

caverna dentro di sé, e talvolta dietro questa caverna ce n'è un'altra e poi un'altra ancora» ( a

Resa von Schirnhofer, 30 marzo 1884). A caratterizzare quest’ insolita forma di vita si trova,

nelle lettere e nei frammenti, la metafora del «pesce volante»47, il quale sfiora appena, sulla

cresta delle onde, l’esistenza nella quale dovrebbe nuotare.

Per lungo tempo ha dominato una cruda sofferenza fisica, da «animale alla tortura»: Nietzsche

si sente ormai «un campo di battaglia più che un essere umano», sottoposto a una «tensione»

spaventosa, a cui si aggiunge la quasi cecità. Nietzsche avverte la necessità di una

«parsimonia» nella quotidianità, quasi di una «pignoleria» che faccia «da contrappeso a quelle

spinte molto generiche e molto ambiziose» da cui si sente dominato, e ciò comporta una

estrema durezza verso di sé, così come duro è il continuo combattimento ingaggiato con la

malattia per strapparle l’energia necessaria alla creazione della sua opera, portando così a

maturazione frutti che non dovranno recare traccia di questa durezza. «Grande liberatore», per

il filosofo, è il pensiero che «la vita potrebbe essere un esperimento di chi è volto alla

conoscenza» afferma nella Gaia scienza. E nelle lettere, nei frammenti e negli aforismi di

47 Si veda il frammento postumo 15[56] del’autunno del 1881: «Ormai sfioro appena il sommo delle onde – l’esistenza, nella quale dovrei nuotare, è come fuori di me; rabbrividisco nel sentirne la schiuma in superficie: son diventato un pesce volante?». Cfr. inoltre l’aforisma 256 de La gaia scienza: «Epidermicità. Tutti gli uomini degli abissi traggono la loro beatitudine dall’assomigliare per una volta ai pesci volanti e dal giocare in cima alle creste delle onde; quel che più apprezzano nelle cose – è il fatto di avere una superficie: la loro epidermicità – sit venia verbo» e la lettera a Heinrich Köselitz dell’8 dicembre 1881.

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questo periodo torna più volte l’esclamazione «che importa di me!»48, a sanzionare un destino

legato a un compito imperioso, dettato dall’inesorabile «tiranno che è in noi». E anche :

«Ma lasciamolo andare, il signor Nietzsche: che ce ne importa se il signor Nietzsche è tornato

in buona salute?» (FW Prefazione 2). A meno che questo non abbia significato una riflessione

più generale e radicale per lo “psicologo” sul rapporto tra conoscenza e salute fino a

comprendere la filosofia come «una spiegazione del corpo e un fraintendimento del corpo» e

abbia imposto nuovi compiti, una nuova posizione di valori, una rilettura della storia e della

vita. Per questo accoglie ben diversamente, tornando più volte sull’invito che gli è rivolto, le

righe che Jacob Burckhardt gli scrive rispondendo all’invio del volume (lettera a Nietzsche

del 13 settembre 1882). Burckhardt intravede – accanto al “Sanctus Januarius”! come «un

monumento tutto speciale che Ella ha innalzato a uno degli ultimi inverni nel sud!» –

l’apertura di Nietzsche ad una nuova, radicale concezione della storia:

Ma c’è una domanda che mi pongo sempre di bel nuovo: che cosa accadrebbe se Lei fosse docente di storia? In fondo Ella insegna sempre storia, e in questo libro ha aperto più di una prospettiva storica stupefacente; ma intendo dire: se Ella ex professo volesse illuminare la storia universale con il Suo tipo di lumi, e sotto gli angoli di illuminazione a Lei conformi? Quante cose ne risulterebbero bellamente capovolte, in contraddizione con l’odierno consensus populorum!

Della lettera di Rohde, Nietzsche accetta come veritiera e penetrante la definizione che

il vecchio amico dà di lui: «un giocoliere del dominio di sé» giacché solo una «seconda

natura», estorta con forza alle pericolose «libere» inclinazioni, ha permesso la realizzazione

del suo compito. Ma ne vede anche il limite: Rohde ha legato alla sua immagine di sofferente

che vuole vincere la sofferenza, all’elemento esclusivamente personale (“una vera e propria

professione di fede”, “il tratto squisitamente personale”) quello che è invece il compimento

di un percorso dello spirito libero e, con l’incipit tragedia dell’ultimo aforisma, l’apertura di

nuovi orizzonti. Nietzsche risponde laconicamente, con una lettera da Rapallo che non

nasconde la distanza ed il fastidio per l’interpretazione povera del “dotto” tedesco al cui tipo

ormai assimila Rohde. L’incipit contrappone significativamente il “Sud” al Nord:

Mio caro amico, eccomi dunque ancora una volta nel «Sud»: continuo a non

sopportare il cielo del Nord, la Germania e «le persone». In questo frattempo sono stato tanto malato e tanto melanconico. […] Quanto a me – amico carissimo, guarda di non cadere proprio ora in errore su di me. Bene, ho una «seconda natura», però non per distruggere la

48 Espressione frequente soprattutto a partire dagli appunti e dalle lettere dell’anno 1880. Si vedano gli aforismi 494 e. 547 di Aurora e i frammenti 7[45], [102], [126], [158], [181] della fine del 1880. Cfr. anche La gaia scienza af. 332; i frammenti 15[59] dell’autunno 1881, 29[55] dell’autunno 1884-inizio 1885 e 31[13] dell’inverno 1884-1885, 2[183] dell’autunno 1885-autunno 1886 e il frammento poetico 20[157] dell’autunno 1888. Cosí anche le lettere a Franz Overbeck del 31 ottobre e a Heinrich Köselitz del 7 novembre 1880.

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prima, bensì per reggere a questa. La mia «prima natura» mi avrebbe distrutto già da un pezzo – anzi mi aveva già quasi distrutto.

Quanto mi dici a proposito della «decisione stravagante», è assolutamente vero, del resto. Potrei dirti il luogo e la data. Ma – chi ha preso allora la risoluzione? – Sicuramente è stata la prima natura, amico diletto: ESSA voleva «vivere».

Fammi il favore di leggere il mio saggio su Schopenhauer: ci sono un paio di pagine che possono fornire la chiave49. Riguardo a questo saggio e all'ideale che vi ho espresso – finora ho mantenuto la parola.

Non sopporto assolutamente più chi si erge a moralista. Devi leggere le parole di quello scritto sotto una luce un poco diversa.

Ora ho davanti a me la cosa più importante. Quanto al titolo «Gaia scienza», ho avuto in mente soltanto la gaya scienza dei

troubadours – ecco la ragione delle poesiole. Di cuore il tuo vecchio amico Nietzsche. Cielo! Che solitudine

Nietzsche rivendica la coerenza di un percorso e come La gaia scienza sia il frutto

ultimo e più maturo della decisione –“stravagante” agli occhi degli amici – di abbandonare

l’illusione wagneriana e la metafisica dell’arte (simbolicamente datata con il Festival di

Bayreuth), un portare a termine «l’opera di sei anni (1876-1882), tutto quanto il mio “libero

pensiero”!» (a Lou von Salomé, 3 luglio 1882).

Il “dotto” Rohde è disorientato dal titolo La gaia scienza: la serietà e la gravità della scienza

(nella tradizione), volta alla verità, viene presentata come gaia.

La complessità di riferimenti che troviamo in questo titolo rimanda ad una costellazione di

sensi nella direzione della liberazione, della filosofia dello “spirito libero”, ma trova una

indicazione forte quando Nietzsche afferma: «Quanto al titolo “Gaia scienza”, ho avuto in

mente soltanto la gaya scienza dei troubadours».

In breve vorrei dare alcune indicazioni per un approfondimento di questa tematica e per

arricchire i riferimenti più noti (Emerson, Montaigne, Stendhal) con il denso significato del

“gai saber” provenzale.

Una tenace «volontà di saggezza» e di sud: una cifra che può riassumere l’intera

Stimmung della Gaia scienza. In Così parlò Zarathustra si legge :

mi sono spuntate le ali per volare via verso remoti tempi futuri. In tempi futuri ancor più lontani, in meridioni ancora più meridionali ,[ in Sud più a Sud – In südlichere Süden] di quanto non abbia mai potuto sognare un artista: là dove gli dei si vergognano delle vesti

49 Il riferimento probabile è al par. 1, “ma come possiamo ritrovare noi stessi? Come può l’uomo conoscersi? I tuoi educatori non possono essere altro che i tuoi libratori” Schopenhauer come educatore, Opere, III/1, pp. 362 - 363.

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Il tema è ripreso più volte e coniugato in più modi: Il Meridione, il Sud – cifra

simbolica complessa, che non esprime energia per primitiva arretratezza (come spesso si

trova nelle visioni dell’epoca) ma è prospettiva di apertura verso il futuro, legata alla

possibilità dell’altro uomo, dell’altra superiore forma di vita, al simbolo del superuomo.

La perfezione animale, legata alla solarità e al mito del Sud, è solo la iniziale premessa.

Nietzsche insiste più volte sulla ‘divinizzazione del corpo’ segnata dal nome di Dioniso,

l’estensione della felicità che è la cifra distintiva del Sud:

Il filosofo lega l’equilibrio fisiologico e la felicità animale alla possibilità di diventare

gradualmente “più vasti, più sovranazionali, più europei, più sovraeuropei, più orientali,

infine più greci” (41[6] e [7] agosto settembre 1885).

Il greco come l’uomo del Rinascimento è una cifra ideale di una umanità più chiara e

affermatrice, di un’anima più vasta, questa la prospettiva che incoraggia al duro cammino nel

gelo: una civiltà lontana dalla vecchia Europa.

Nietzsche in nome dell'energia e dell'affermazione della vita (nel mito del Sud), vuole

allontanare le ombre e le nubi che seguono alla morte di Dio e che caratterizzano in

particolare la Germania: sorge in alternativa la figura dell'individuo “sovrano” capace di fare

delle contraddizioni e della lotta degli istinti l’espressione di una forma che rinuncia alla

semplificazione autoritaria, a false e rassicuranti vie d'uscita.

È significativo che Nietzsche trovi, alle origini della filosofia del mattino, la gaya

scienza, il gai saber della Provenza, che ha immediatamente un valore polemico

antigermanico: una cultura che contiene i germi di una civiltà superiore, il “Rinascimento”

italiano, in cui l’arte impronta la vita.

Nell'età moderna è stato il Rinascimento italiano a portare l'uomo al punto più alto […] Forse il provenzale era già stato un simile punto culminante in Europa - uomini molto ricchi, multiformi, ma padroni di sé, che non si vergognavano dei loro istinti. (7[44] primavera-estate 1883)

Accanto agli «arabi in Spagna, i provenzali: punti luminosi» (25 [419] primavera 1884).

Nietzsche insiste in più luoghi sulla lontananza e incompatibilità con lo spirito tedesco,

sull’elemento “pagano” che ha spiritualizzato l’amor (34[90] aprile-giugno 1885) ed arriva a

riassumere con «due parole, che certo in Germania non è facile tradurre “in tedesco”: gai

saber»50 la filosofia di Dioniso, la filosofia della piena e completa immanenza che libera

dalle “ombre di Dio (34 [181] aprile-giugno 1885).

50 Si veda anche la lettera a Reinhart e Irene von Seydlitz a Monaco: «C’è un grazioso termine provenzale che imparo a comprendere sempre meglio (e questo è molto per un tedesco): ga i sab er» (Nizza, 24 novembre 1885)

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In Ecce Homo scrivendo della Gaia Scienza, a proposito delle Canzoni del Principe

Vogelfrei, si trova:

[...] il concetto provenzale della gaya scienza, quell’unità di cantore, cavaliere e libero pensatore con cui la meravigliosa precoce cultura provenzale si staglia su tutte le culture dell'ambiguità; e l'ultima poesia "Al Mistral", una ballata sfrenata in cui, con permesso!, si danza al di sopra della morale, è un perfetto provenzalismo.-.

Tanta è la vicinanza ideale al mondo del gai saber che Nietzsche non esita a vedere nell’amato

Petronio un provenzale. Petronio — figura del ‘buffo e satiresco’ — viene valorizzato da Nietzsche

anche in funzione antigermanica: un maestro del presto, dello “scherno liberatore di un vento che

guarisce ogni cosa, costringendo ogni cosa a correre”, (il vento, il mistral, il motivo provenzale che

torna) il cui tempo, ardimentoso e allegro, non è traducibile in lingua tedesca (JGB 28). Ma ancor più significativo, per il radicale progetto di Aufklärung di Nietzsche,

l’apprezzamento della tradizione trobadorica che porta a vedere in quella civiltà le origini

della migliore Europa, lontana da fanatismi e fedi autoritarie:

è noto che la sua scoperta [l'amore come passione] spetta ai poeti-cavalieri provenzali, a quegli splendidi ingegnosi uomini del "gai saber" cui l'Europa deve tante cose e quasi se stessa.- JGB 260

L’espressione “gai saber” ha una presenza forte nei frammenti che preparano il quinto

libro della Gaia scienza51. Una numerosa serie di schemi di libro, che alla fine diventeranno

Al di là del bene e del male, porta il titolo Gai saber di cui Al di là del bene e del male è solo

un capitolo.

Nietzsche trovava nell’amato Stendhal, ancora una volta, una piena valorizzazione della

civiltà provenzale. È nella Provenza gaia, immaginata e valorizzata da Stendhal in De

l’amour, che il filosofo trova un riferimento forte per l’affermazione dei valori di quella

civiltà. Nei due capitoli che Stendhal vi dedica (il LI: Dell’amore in Provenza fino alla

conquista di Tolosa, nel 1228, da parte dei barbari del nord e il LII, la Provenza nel XII

secolo), si legge una forma di vita lontana dall’ipocrisia e dall’ “ascetismo”: «Queste leggi,

prendendo la natura umana così com’è, dovevano produrre molta felicità»52

Le formalità e le cerimonie erano allora indice di civiltà. Stendhal insiste su una lettura

“pagana” («le rive felici di quel bel mare erano favorite dal clima, e ancora di più dalla 51 Il termine ricorre spesso nei titoli e nei piani dell’aprile giugno 1885. Cfr. 34[1], [181.213], 35[84]. Cfr.inoltre il frammento 2[166] (autunno 1885-autunno 1886) che costituisce un primo abbozzo della prefazione alla seconda edizione della Gaia Scienza nel 1887 e dove quest’opera viene definita “il libro del gai saber”. In questa riedizione compariva inoltre come sottotitolo “la gaya scienza”, che sottolineava l’origine provenzale del titolo dell’opera All’editore Ernst Wilhelm Fritzsch raccomanda per evitare malintesi: «subito dopo “la Gaia Scienza” si legge tra parentesi l’aggiunta “gai saber”, perché ci si ricordi dell’origine provenzale del mio titolo, e di quei cavalieri-poeti, i trovatori, che in quella formula riassumevano tutte le loro capacità e i loro intenti» (7 agosto 1886) 52 STENDHAL, Dell’amore, Rizzoli, Milano 1981, p. 193

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prosperità degli abitanti e dall’inesistenza di religioni e di leggi tristi. II genio

prevalentemente allegro dei provenzali di allora aveva attraversato religione cristiana senza

esserne rovinato») e vede l’origine della raffinatezza della cultura nell’eredità dei costumi

moreschi: «i provenzali del X secolo ebbero modo di accorgersi che gli arabi

conoscevano piaceri più dolci del saccheggiare, del violentare e del combattere»53.

Avevano probabilmente meno passione e molta più allegria degli italiani. Imitavano dai loro vicini, i mori di Spagna, quella simpatica maniera di prendere la vita. Nei castelli della felice Provenza, l'amore regnava con l'allegria, le feste e i piaceri

Dopo la conquista di Tolosa da parte dell'armata dei crociati: Al posto dell'amore, delle grazie e dell'allegria, comparvero i barbari del Nord e san

Domenico. […] li animava una rabbia selvaggia contro tutto quanto presentasse la pur minima traccia di civiltà; soprattutto non capivano una parola di quella bella lingua del Sud, e il loro furore raddoppiava. Molto superstiziosi e guidati dal terribile san Domenico, essi credevano di guadagnarsi il paradiso, uccidendo i provenzali. Per costoro, tutto ebbe fine: niente più amore, niente più allegria, niente più poesia; meno di vent'anni dopo la conquista (1235), essi erano barbari e rozzi quasi quanto i nostri antenati francesi.

Da dove era caduta, in quell'angolo del mondo, quella stupenda forma di civiltà che per due secoli rese felici le classi alte? Dai mori di Spagna, è evidente54.

Piena la consonanza con le posizioni di Nietzsche anche se questa non è certo l’unica

fonte di accesso. Anche il volume di Lefebvre Saint-Ogan, Essai sur l’influence française,

Paris 18852 e quello di Émile Gebhart, professore, a partire dal 1880, di letteratura

dell’Europa meridionale alla Sorbona dedicato a Les origines de la Renaissance en Italie

(1879) vedono la civiltà provenzale della gaie science tra le premesse della Renaissance.

Nella Provenza sorge una cultura che è capace di unire, in una sintesi mirabile, la

tradizione latina a quella araba. Cercando le origini culturali dell’Europa Nietzsche incontra

una civiltà complessa ibrida sovranazionale, cortese e felice, affermatrice, brutalmente

soffocata in germe: una possibilità superiore distrutta dalla violenza. Occorre di nuovo

allontanarsi dalla vecchia Europa uniforme (al di là delle piccole politiche nazionali che

pretendono di essere “grande politica”) e dalla sua morale pretesa egemone, si deve divenire

viandanti e spiriti liberi:

Perché la nostra moralità europea possa essere osservata da lontano, per commisurarla ad altre moralità anteriori o di là da venire, si deve fare come il viandante che vuol sapere quanto sono alte le torri di una città: egli abbandona la città per questo.

53 ivi, p. 19654 ivi, p. 196-197

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Si tratta, per lo spirito libero, di praticare “una libertà da tutta l'“Europa”, la vecchia Europa, intesa questa come una somma di imperanti giudizi di valore, trapassati in noi fino a divenire carne e sangue” (FW, 380).

Torniamo alla poesia da cui siamo partiti: la sofferenza e la durezza del cammino non

significano affatto il voler ritornare al calore intanfito della Germania, della vecchia,

rassicurante Europa con la sua morale consolidata. Il viandante-ombra di Zarathustra è

definito anche il “buon europeo” contro il cattivo Europeo della vecchia Europa.

Il buon francese della “Francia del gusto” (contro il riconoscimento nazionale e popolare in un vate,

Victor Hugo) ha dalla sua l’essere ibrido, raffinato psicologo e prossimo alla decadenza, mediatore

tra il nord e il sud ( JGB, af. 254). Il buon tedesco è colui che supera (über), che va al di là del

germanesimo, si “sgermanizza”: Essere buoni tedeschi significa stedeschizzarsi (aforisma 323

VM)

«ogni argomentare in base al carattere nazionale è così poco obbligante per colui che lavora alla trasformazione delle convinzioni, vale a dire alla formazione della civiltà. Se per esempio si considera tutto ciò che già è stato tedesco, si correggerà subito la questione teorica: che cos'è tedesco? con la controquestione: «che cos'è ora tedesco?» - e ogni buon tedesco la risolverà praticamente proprio superando le sue qualità tedesche. Quando cioè un popolo va avanti e cresce, esso fa saltare ogni volta la cintura di cui finora l'ha circondato il suo aspetto nazionale; quando invece si ferma e intristisce, una nuova cintura si chiude intorno alla sua anima; la crosta, che si fa sempre più dura, costruisce intorno per così dire una prigione, le cui mura crescono sempre. […] Chi dunque vuol bene ai Tedeschi, badi per parte sua a crescere sempre più fuori da ciò che è tedesco. Perciò il volgersi al non tedesco è stata sempre la caratteristica dei valenti del nostro popolo». Goethe appartiene comunque «a un genere di letteratura superiore alle “letterature nazionali”: perciò egli non sta in rapporto con la sua nazione né per il vivere, né per l'esser nuovo, né per l'invecchiare. Solo per pochi egli ha vissuto e vive ancora: per i più egli non è altro che una fanfara della vanità, che si suona di tanto in tanto di là dalla frontiera tedesca. Goethe, non solo un uomo buono e grande, ma anche una cultura, Goethe è, nella storia dei Tedeschi, un incidente senza conseguenze: chi sarebbe in grado di indicare per esempio un frammento di Goethe nella politica tedesca degli ultimi 70 anni?» (VM 125) Goethe è buon Europeo: cioè colui che non solo supera l’elemento nazionale (si sgermanizza)

ma è colui che sperimenta e alla fine acquista uno sguardo sovraeuropeo, orientale,

sovraorientale del tutto nuovo. L’uomo di Goethe come espressione compiuta del dionisiaco

è tutto questo. Perciò Nietzsche, facendo riferimento al suo aforisma, in un frammento del

1884 scrive:

«Sembra che io sia un tedesco di quelli che stanno scomparendo. “Essere buon tedesco

significa stedeschizzarsi”, ho detto una volta; ma, oggi, non me lo vogliono concedere.

Goethe, forse, mi avrebbe dato ragione.

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