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da Storia sociale dell’arte di Arnold Hauser Storia dell’arte Einaudi 1

Arnold Hauser - Storia Sociale Dell'Arte - Vol 3

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Intento di Hauser in questa sua storia sociale dell'arte è discutere e riba- dire il concetto di storicità del fenomeno figurativo. Problema complesso, come rivelano le moltissime discussioni e polemiche, tra formalismo, idea- lismo e marxismo, che dalla fine dell'Ottocento hanno arricchito la rifles- sione critica. Perche storicità vuoi dire riportare le manifestazioni figura- tive al proprio tempo, ma non ridurle al solo stile artistico di quel momento. Si tratterà, come Hauser tenta di fare con risultati che continuano ades- sere di grande interesse, di proporre l'epoca intera nella sua fisionomia, e nei suoi elementi determinanti, siano essi politici o ideali, religiosi o so- ciali o tecnici. Il lettore, nei capitoli di questo volume dedicato a Rinasci- mento, Manierismo e Barocco, avrà modo di notare con quali attenzioni il tessuto delle conoscenze ne risulta arricchito.

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da Storia socialedell’arte

di Arnold Hauser

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume terzo.Rococò Neoclassicismo Romanticismo, trad. it. diAnna Bovero, Einaudi, Torino 1956 e 1987Titolo originale:Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck,München

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Indice

Storia dell’arte Einaudi 3

rococò neoclassicismo romanticismo

i. La fine dell’arte aulica 4

ii. Il nuovo pubblico della letteratura 43

iii. Gli inizi del dramma borghese 95

iv. La Germania e l’illuminismo 113

v. La Rivoluzione e l’arte 148

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rococò neoclassicismo romanticismo

Capitolo primo

La fine dell’arte aulica

È cosa comunemente risaputa che l’arte aulica, dopouno sviluppo quasi continuo dalla fine del Rinascimen-to in poi, subisce nel secolo xviii un arresto per cederepoi del tutto a quel soggettivismo borghese, che, in com-plesso domina ancor oggi la concezione artistica; è menonoto invece che certi caratteri della nuova tendenzasono già palesi nel Rococò e che proprio a questo puntosi verifica la rottura con la tradizione aulica. Infatti, seè vero che soltanto con Greuze e Chardin si entra nelmondo borghese, è vero anche che Boucher e Largilliè-re non ne sono piú molto lontani. La tendenza al monu-mentale, al solenne, al patetico scompare già col primoRococò, per lasciare posto a un gusto del leggiadro e del-l’intimo. Il colore e la sfumatura prevalgono fin dall’i-nizio sulla linea grandiosa, salda, obiettiva, e la notadella sensualità e del sentimento è d’ora in poi semprepresente. Se dunque il Dix-huitième per certi aspettipuò sembrare una prosecuzione, anzi la piena matura-zione del fasto e dell’albagia barocca, in realtà è ben lon-tano dal considerare il grand goût* come lo stile unico eindiscusso. Le sue creazioni, anche quelle destinate aiceti superiori, mancano ormai delle grandi, eroichedimensioni. Si tratta però sempre di un’arte moltodistinta, elegante, essenzialmente aristocratica, un’arteper la quale i criteri di leggiadria e convenzione sono piúvalidi di quelli di interiorità e spontaneità, un’arte che

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si realizza secondo uno schema fisso, universale, ripetutoall’infinito, tant’è vero che l’elemento piú caratteristi-co di essa è un eccezionale virtuosismo tecnico, per lopiú affatto esteriore. Questi aspetti decorativi e con-venzionali, di origine barocca, solo lentamente scom-paiono dal Rococò, sostituiti via via da caratteri delgusto borghese.

Contro la tradizione barocco-rococò si muove da duedirezioni diverse, che però convergono verso un mede-simo ideale estetico, contrario al gusto di corte: da unlato l’orientamento sentimentale e naturalistico di Rous-seau e di Richardson, Greuze e Hogarth; dall’altro, ilrazionalismo e il classicismo di Lessing e Winckelmann,di Mengs e David. Entrambe queste correnti al fastoaulico della tradizione oppongono un ideale di sempli-cità e la serietà profonda di un costume puritano. Il pas-saggio dall’arte aulica a quella borghese avviene inInghilterra prima e piú radicalmente che in Francia,dove la tradizione barocco-rococò continua a vivere sot-terranea e si fa sentire ancora nell’età romantica. Ma allafine del secolo anche in Europa l’arte dominante è un’ar-te borghese. Magari è possibile distinguere in essa unacorrente progressista da una conservatrice, ma un’arteviva che esprima gli ideali aristocratici e serva le ambi-zioni della corte ormai non c’è piú. È raro nella storiaun mutamento di egemonia culturale e artistica altret-tanto radicale di questo, che porta la borghesia a sosti-tuire in tutto l’aristocrazia. Non meno raro è un capo-volgimento del gusto deciso come questo, per cui alladecorazione si sostituisce l’espressione.

Veramente non per la prima volta la borghesia impo-ne il suo gusto. Già nei secoli xv e xvi in tutta Europaaveva dominato un’arte di chiaro stampo borghese, chesolo nel tardo Rinascimento e nell’epoca manieristica ebarocca aveva ceduto di fronte al prevalere dello stileaulico. Ma nel Settecento, quando la borghesia riacqui-

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sta potenza economica, sociale e politica, l’arte aulicaufficiale, che frattanto si era imposta dovunque, tornaa scomparire e lascia il gusto borghese padrone assolutodel campo. Nel Seicento, solo in Olanda si era avuta unagrande fioritura d’arte, assai piú coerente e radicale, nelsuo carattere borghese, di quella del Rinascimento, chetanti elementi romantico-cavallereschi e mistico-religio-si portava ancora con sé. Ma era rimasto un fenomenoquasi del tutto isolato nell’Europa d’allora, e il Sette-cento che dà inizio all’arte moderna non si ricollegadirettamente ad essa. Una vera continuità di sviluppomanca anche perché la stessa pittura olandese nel corsodel Seicento era venuta perdendo molto del suo primi-tivo carattere. In realtà le origini vere dell’arte dellamoderna borghesia sono da ricercare, in Francia comein Inghilterra, nel mutamento della società; solo questopuò spiegare il superamento del gusto aulico, a cui,certo, i movimenti filosofici e letterari del tempo furo-no stimoli piú forti di un’arte straniera, lontana neltempo e nello spazio.

Il processo che sul piano politico culmina nella Rivo-luzione francese, e su quello artistico nel romanticismo,comincia con la Reggenza, che mina la monarchia inquanto principio di autorità assoluta, disgrega la cortein quanto centro dell’arte e della cultura, e mette fineal Barocco classicheggiante, in quanto diretta espressio-ne della potenza e dell’orgogliosa sicurezza dell’assolu-tismo. Del resto, il processo si prepara già durante ilregno di Luigi XIV. Le guerre interminabili dissestanole finanze del paese; le casse dello stato si svuotano e ilpopolo s’impoverisce, poiché staffile e carcere non val-gono a creare contribuenti, come le guerre e le conqui-ste non assicurano nessuna egemonia economica. Èancor vivo il Re Sole, quando si fanno sentire le primecritiche alle conseguenze dell’autocrazia. Già Fénelon èabbastanza esplicito in proposito, ma Bayle, Malebran-

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che e Fontenelle vanno tanto oltre, da giustificare l’af-fermazione che la «crisi dello spirito europeo», di cui èpiena la storia del secolo xviii, era già in atto fin dal16801. Contemporaneamente, anche la critica del clas-sicismo guadagna terreno e prelude alla fine dell’arteaulica. Verso il 1685 si conclude l’epoca creativa delBarocco classicheggiante; Le Brun perde la sua influen-za e i grandi scrittori dell’epoca, Racine, Molière, Boi-leau e Bossuet, hanno ormai detto la loro ultima parolao, almeno, quella decisiva2. Con la querelle des anciens etdes modernes cominciano già quelle lotte fra tradizionee progresso, antico e moderno, ragione e sentimentoche troveranno nel preromanticismo di Diderot e diRousseau la loro conclusione.

Negli ultimi anni di Luigi XIV stato e corte furonogovernati dalla bigotta Madame de Maintenon. L’ari-stocrazia si sentiva a disagio nell’atmosfera di cupasolennità e di gretta devozione ormai imperante a Ver-sailles. Quando il re morì, tutti trassero un sospiro di sol-lievo, specie quelli che dalla reggenza di Filippod’Orléans si attendevano la liberazione dal dispotismo.Il reggente considerava antiquato il sistema ammini-strativo dello zio3 e iniziò il suo governo reagendo sututta la linea contro i vecchi metodi. Sul piano politicoe sociale tentò di rianimare la nobiltà, su quello econo-mico favorì iniziative private, come quella di Law, equanto al modo di vivere dell’alta società portò unnuovo stile e mise in voga edonismo e libertinaggio.Cominciò cosí un processo di generale disgregazione, cuinon resistette nessuno degli antichi vincoli. Alcuni diessi piú tardi si ricostituirono, ma il vecchio sistema fuscosso dalle radici. Come primo atto di governo, Filip-po annullò il testamento del defunto re, che prevedevail riconoscimento dei propri figli illegittimi. Cominciòcosí il declino del prestigio del re, che, anche se lamonarchia assoluta si mantenne a lungo, non poté piú

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essere restaurato nella sua antica grandezza. Il poterevenne esercitato in modo sempre piú arbitrario, tutta-via tradendo sempre piú un senso di insicurezza: situa-zione che le famose parole del maresciallo di Richelieua Luigi XVI caratterizzano perfettamente: «Sotto LuigiXIV non si osava aprir bocca, sotto Luigi XV si mor-morava, ora si parla forte e senza riguardi». Chi voles-se giudicare i rapporti di forza effettivi dalle ordinanzee dai decreti del tempo cadrebbe, osserva Tocqueville,in un ridicolo errore. Sanzioni come la celebre pena dimorte per chi componesse o diffondesse scritti contro lareligione e l’ordine pubblico rimanevano sulla carta. Nelcaso peggiore i colpevoli dovevano lasciare il paese espesso erano avvisati e protetti da quegli stessi funzio-nari che avrebbero dovuto perseguirli. Al tempo di LuigiXIV tutta la vita intellettuale stava ancora sotto la tute-la del re; non si trovava appoggio se non presso di lui,e tanto meno contro di lui. Ma ora appaiono altri pro-tettori, altri mecenati, altri centri di cultura; e l’arte inlarga misura, la letteratura completamente, si sviluppa-no lontano dalla corte e dal re.

Filippo d’Orléans trasporta la residenza da Versail-les a Parigi, il che in fondo significa sciogliere la corte.Il reggente è ostile a ogni restrizione e costrizione, a ogniformalità; si sente a suo agio soltanto nella stretta cer-chia degli amici. Il giovane re abita alle Tuileries, il reg-gente al Palais Royal, i membri della nobiltà sono disper-si fra castelli e palazzi e si divertono nei teatri, ai ballie nei salotti della città. Il reggente e il Palais Royal rap-presentano il gusto di Parigi, lo stile cittadino piú disin-volto e agile di fronte al grand goût di Versailles. La«città» non si contenta piú di vivere all’ombra dellacorte, ne usurpa il posto e ne assume le funzioni cultu-rali. La melanconica esclamazione della contessa palati-na Elisabetta Carlotta, madre del reggente, «Non c’è piúcorte in Francia!», risponde alla realtà. E non si tratta

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di una situazione passeggera; una corte come l’anticanon ci sarà mai piú. Luigi XV ha gli stessi gusti del reg-gente, anch’egli predilige le compagnie poco numerose;e Luigi XVI si limita alla cerchia dei famigliari. Entram-bi si sottraggono alle cerimonie, l’etichetta li annoia e liirrita e, anche se in certa misura si continua a rispettarla,perde gran parte della sua solennità. Alla corte di LuigiXVI domina un tono intimo e per sei giorni alla setti-mana i ricevimenti hanno l’aspetto di conversazioni pri-vate4. L’unico luogo in cui, durante la Reggenza, si svi-luppa in certo senso una vita di corte è il castello delladuchessa del Maine, a Sceaux, che diventa il teatro difeste splendide, ricchissime e ingegnose, e insieme unnuovo centro d’arte, una vera corte delle Muse. Ma glispettacoli della duchessa contengono il germe della defi-nitiva distruzione della vita di corte: essi sono qualcosadi intermedio fra la corte nel vecchio senso e quello cheè il suo erede spirituale, il salotto del Settecento. Cosíla corte torna a dissolversi nei circoli privati, da cui siera sviluppata come centro dell’arte e della letteratura.

Uno degli aspetti piú importanti del programma diFilippo fu il tentativo di reintegrare negli antichi dirit-ti e funzioni politiche gli aristocratici soggiogati da LuigiXIV. Egli formò con membri dell’alta nobiltà i cosid-detti Conseils, destinati a sostituire i ministri borghesi.Ma l’esperimento dovette essere abbandonato dopo treanni, perché i nobili avevano perso l’abitudine agli affa-ri pubblici e non prendevano piú alcun vero interesse algoverno dello stato. Essi disertavano le sedute e, volen-ti o nolenti, si dovette tornare al sistema di Luigi XIV.La Reggenza dunque, esteriormente, segnò l’inizio di unrecupero del prestigio aristocratico, che irrigidí i confi-ni sociali e accrebbe le distanze fra i ceti; in sostanzainvece non arrestò la marcia della borghesia verso ilpotere, né il declino della nobiltà. Come già ebbe a rile-vare il Tocqueville, è caratteristico dello sviluppo socia-

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le del Settecento che, pur accentuandosi le distinzionitra gli ordini e le classi, il livellamento della cultura nonsi arrestò, e gli uomini, che esteriormente si affannava-no tanto a distinguersi, intimamente diventavano sem-pre piú simili5, cosí che alla fine non ci furono piú chedue grandi gruppi: il popolo e la comunità di coloro chegli sovrastavano. La gente che apparteneva a quest’ulti-mo gruppo aveva le stesse abitudini, lo stesso gusto eparlava lo stesso linguaggio. L’aristocrazia e l’alta bor-ghesia si fusero in un unico ceto depositario della cul-tura, in cui l’antica classe colta dava e riceveva a untempo. I membri dell’alta nobiltà non si limitavano afrequentare occasionalmente e per condiscendenza casedove si incontravano finanzieri e alti funzionari, maaccorrevano anche nei salotti dei ricchi borghesi e dellecolte signore della borghesia. Madame Geoffrin riuniscein casa sua il fiore dell’aristocrazia e dell’intellettualità,figli di principi, conti, orologiai, mercanti; è in corri-spondenza epistolare con l’imperatrice di Russia e conGrimm, è amica del re di Polonia e di Fontenelle, rifiu-ta l’invito di Federico il Grande e degna di particolareattenzione il plebeo d’Alembert. L’aristocrazia comin-cia ad adottare mentalità e morale borghesi e a mesco-larsi con la borghesia intellettuale proprio nel momentoin cui piú forte che mai è il peso della gerarchia socia-le6. Forse fra i due fenomeni corre un rapporto di causaed effetto.

Nel Seicento la nobiltà aveva perduto i suoi privile-gi feudali, tranne i diritti di proprietà sulle sue terre el’immunità fiscale; a funzionari della Corona avevadovuto cedere le sue funzioni giudiziarie e amministra-tive. La rendita fondiaria, d’altra parte, a partire dal1660, in seguito alla sempre minor capacità d’acquistodel denaro, era venuta perdendo molto del suo valore.La nobiltà fu cosí costretta ad alienare le sue terre inmisura sempre maggiore, impoverendosi e avviandosi

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alla decadenza. Il fenomeno, veramente, fu piú largo ediffuso fra la piccola e media nobiltà di provincia, chenegli ambienti dell’alta nobiltà di corte, ancor moltoricca e rifattasi piú autorevole nel secolo xviii. Alle«quattromila famiglie» dell’alta nobiltà continuaronoad essere riservati gli uffici di corte, le alte dignità eccle-siastiche, i gradi dell’esercito, i posti di governatore e lepensioni reali. Quasi un quarto dell’intero bilancio anda-va a loro profitto. L’antico rancore della Corona controla nobiltà feudale era cessato; Luigi XV e Luigi XVIripresero a scegliere i loro ministri per lo piú tra i nobi-li7, che tuttavia conservarono le loro tendenze antidi-nastiche e il loro spirito di insubordinazione e nell’oradel pericolo furono fatali alla monarchia. La nobiltàinfatti non esitò ad allearsi con i borghesi contro laCorona, benché la buona intesa fra le due classi avessemolto sofferto dall’inizio dell’accentramento statale.Prima, esse si sentivano spesso minacciate dallo stessopericolo, non solo, ma avevano da risolvere problemiamministrativi comuni, il che bastava a ravvicinarle. Lerelazioni peggiorarono da quando la nobiltà riconobbenella borghesia la sua rivale piú pericolosa e da allora ilre dovette intervenire continuamente a calmare la gelo-sia dei nobili. Se in apparenza il re sembra superiore adentrambe le parti, in realtà deve far loro continue con-cessioni, favorendo or l’una or l’altra8. Un segno di que-sta politica di favore verso la nobiltà è da scorgere anchenel fatto che già sotto Luigi XV è molto piú difficile perun roturier giungere al grado di ufficiale che non altempo di Luigi XIV. Dopo, l’editto del 1781 la bor-ghesia fu esclusa del tutto dall’esercito. Lo stesso accad-de per le alte dignità ecclesiastiche; nel Seicento c’eraancora fra i principi della Chiesa un certo numero di nonnobili, come Bossuet e Fléchier, ma questo non si veri-ficò piú nel Settecento. La rivalità tra aristocratici e bor-ghesi si acuí sempre piú, sublimandosi però in un’emu-

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lazione intellettuale, che provocò un gioco psicologicocomplesso, in cui s’intrecciavano in piú modi attrazio-ne e repulsione, imitazione e rifiuto, considerazione erisentimento. L’uguaglianza materiale e la superioritàpratica della borghesia spingevano i nobili ad accentua-re la disparità dell’origine e la differenza delle tradizio-ni. Ma anche la borghesia, quanto piú simili si faceva-no le condizioni esteriori, tanto piú si sentiva avversaalla nobiltà. Finché ogni possibile ascesa sociale le erastata preclusa, mai aveva pensato di paragonarsi ai cetisuperiori; ma appena le si offrì la possibilità di elevarsi,subito ebbe chiara coscienza dell’ingiustizia sociale e iprivilegi nobiliari le apparvero intollerabili. In breve,quanto piú la nobiltà perdeva del suo potere effettivo,tanto piú ostinatamente si attaccava ai privilegi super-stiti e tanto piú li ostentava; d’altra parte la borghesia,quanto piú diventava ricca, tanto piú umiliante sentivala discriminazione sociale e si accaniva nella lotta per l’u-guaglianza dei diritti politici.

La ricchezza accumulata dalla borghesia nel Rinasci-mento era stata distrutta dalle grandi bancarotte stata-li del Cinquecento, e non aveva potuto ricostituirsi nel-l’epoca aurea dell’assolutismo e del mercantilismo, quan-do i principi e gli stati monopolizzavano gli affari piúimportanti9. Solo nel secolo xviii, finita l’epoca del mer-cantilismo e iniziatasi quella del laissez-faire, la borghe-sia, con il suo individualismo economico, riuscí nuova-mente ad affermarsi; e benché mercanti e industriali giàavessero saputo trarre notevoli vantaggi dall’assenza del-l’aristocrazia dagli affari, il grande capitale borghese siformò solo durante la Reggenza e il periodo successivo.Questo regime fu realmente «la culla del Terzo Stato».Sotto Luigi XVI, poi, la borghesia dell’ancien régime rag-giunse il suo pieno sviluppo intellettuale e materiale10.

Erano nelle sue mani il commercio, l’industria, lebanche, la ferme générale, le professioni liberali, la let-

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teratura e il giornalismo, cioè tutte le posizioni-chiavedella società, ad eccezione degli alti gradi nell’esercito,nella Chiesa e a corte. Si ebbe allora un’attività com-merciale mai vista prima, le industrie prosperarono, lebanche si moltiplicarono, enormi somme passarono frale mani di imprenditori e di speculatori. I bisogniaumentarono e si diffusero; e non solo gente come i ban-chieri e gli appaltatori delle tasse salirono di grado e pre-sero a gareggiare in splendore coi nobili, ma anche lamedia borghesia trasse profitto dalla congiuntura e par-tecipò sempre piú largamente alla vita culturale. LaRivoluzione, dunque, non scoppiò in un paese econo-micamente esausto; si trattava piuttosto di uno statoinsolvente, con cittadini ricchi.

A poco a poco la borghesia s’impadroní di tutti glistrumenti della cultura. Non solo scriveva i libri, ma lileggeva; non solo dipingeva i quadri, ma li comprava.Nel secolo precedente essa rappresentava una parteancor relativamente modesta del pubblico che si occu-pava d’arte e di letteratura; ora essa costituisce senz’al-tro la classe colta, anzi diventa la vera depositaria dellacultura. Ad essa appartengono in gran parte i lettori diVoltaire, quasi esclusivamente quelli di Rousseau. Cro-zat, il piú grande collezionista del secolo, viene da unafamiglia di mercanti; Bergeret, il protettore di Frago-nard, è d’origine anche piú modesta; Laplace è figlio diun contadino, e d’Alembert non si sapeva di chi fossefiglio. Lo stesso pubblico borghese che legge Voltairelegge anche i poeti latini e i classici francesi del Seicen-to, e nelle sue esclusioni è risoluto come nei suoi con-sensi. È poco favorevole agli autori greci, che scom-paiono via via dalle biblioteche; disprezza il Medioevo;la Spagna gli è ormai estranea; le sue relazioni con l’I-talia non sono ancora ben sviluppate e comunque nonavranno mai la cordialità di quelle fra la società aristo-cratica e il Rinascimento italiano. Il rappresentante del

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secolo xvi lo si è voluto vedere nel gentilhomme, quellodel xvii nell’honnête homme, e quello del xviii dell’uo-mo colto11, che equivale a dire il lettore di Voltaire. È,stato detto che non si può comprendere il borghese diFrancia se non si conosce Voltaire, che il borghese pren-de a modello12; ma d’altra parte non si comprende Vol-taire se non si vede quanto sia legato, non solo per l’o-rigine, ma anche per la mentalità, al ceto medio, adonta dei suoi modi da gran signore, delle sue amicizieregali e dell’ingente ricchezza. Il suo sobrio classicismo,la sua rinunzia a risolvere i grandi problemi metafisici,anzi la diffidenza verso chiunque ne discuta, il suo spi-rito acuto, battagliero e tuttavia cosí urbano, la religio-sità anticlericale e antimistica, il suo antiromanticismo,l’avversione per tutto ciò che è oscuro, inesplicato e ine-splicabile, la fiducia in se stesso, la persuasione che atutto comprendere, risolvere, decidere bastino le facoltàrazionali, il suo prudente scetticismo, il ragionevole con-tentarsi di ciò che è prossimo e raggiungibile, la com-prensione per «l’esigenza del giorno», il suo «mais il fautcultiver notre jardin»: tutto ciò è borghese, profonda-mente borghese, anche se non esaurisce lo spirito dellaborghesia che nel soggettivismo e nel sentimentalismodi cui Rousseau si farà banditore, trova l’altra sua fac-cia, forse altrettanto importante. Il grande antagonismoall’interno della borghesia esisteva fin da principio; ifuturi seguaci di Rousseau forse non costituivano anco-ra un pubblico regolare quando Voltaire si conquistò isuoi lettori, ma esistevano già come ceto sociale esatta-mente definibile e in Rousseau trovarono semplicemen-te il loro interprete.

La borghesia francese del Settecento non è piú omo-genea di quella italiana del Quattro e Cinquecento. Nonsi ha certo nel Settecento nulla di analogo all’anticalotta per l’egemonia delle Arti, ma fra i diversi stratidella classe borghese esiste un contrasto altrettanto

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acuto di interessi economici. Abitualmente si parla dellalotta di emancipazione e della rivoluzione del TerzoStato come di movimenti unitari; in realtà l’unità dellaborghesia risulta solo dal fatto che è separata verso l’al-to dalla nobiltà e verso il basso dai contadini e dal pro-letariato urbano; entro questi confini, permane semprela distinzione tra la parte favorita e quella senza privi-legi. Dei privilegi della borghesia non si parla mai nelSettecento e si finge di ignorarne le condizioni di favo-re, ma i privilegiati si oppongono a qualsiasi riforma chepossa estendere i loro vantaggi anche ai ceti inferiori13.La borghesia vuole solo una democrazia politica edabbandona i compagni di lotta non appena la Rivolu-zione prende sul serio l’uguaglianza dei diritti in campoeconomico. La società del tempo è piena di tensioni edi contraddizioni; e la monarchia che ne è profonda-mente influenzata si vede costretta a sostenere ora gliinteressi dei nobili, ora quelli dei borghesi, e finisce conl’inimicarsi le due parti: cioè una nobiltà tendenzial-mente ostile sia alla Corona sia alla borghesia, e che assi-mila le idee che provocano la sua caduta; e una borghe-sia, che fa trionfare la sua rivoluzione con l’aiuto dei cetiinferiori, per opporsi poi subito agli alleati, affiancandosiagli ex nemici. Finché questi elementi si equilibranodominando la vita intellettuale del paese, cioè fin dopola metà del secolo, arte e letteratura si trovano in unostato di transizione e sono piene di tendenze contra-stanti, spesso inconciliabili; esse oscillano fra tradizio-ne e libertà, ordine e spontaneità, decorazione ed espres-sione. Ma ancora nella seconda metà del secolo, quan-do già prevalgono il liberalismo e il culto del sentimen-to, le diverse correnti, pur separandosi anche piú net-tamente, persistono l’una accanto all’altra. Se mai siscambiano le parti; e proprio il classicismo, che era unostile aulico-aristocratico, servirà a diffondere le ideedella borghesia progressista.

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L’epoca della Reggenza è un periodo di vivissimaattività intellettuale che non si limita al criticare l’epo-ca precedente, ma è in larga misura creativo e pone pro-blemi che occuperanno tutto il secolo. Di pari passo colgenerale allentarsi della disciplina, col crescere dell’ir-religiosità, col farsi piú libero e personale del costume,decade nell’arte il «grande» stile di corte. Si cominciacon la critica della dottrina accademica, che pretendevadi presentare l’ideale classico come un principio eterno,imposto da Dio, analogamente a come la teoria politicaufficiale voleva presentare la monarchia assoluta. Nullacaratterizza il liberalismo e il relativismo dei tempi nuovimeglio della frase di Antoine Coypel – prima di luiinammissibile per qualunque direttore di accademia –che la pittura, come ogni cosa umana, è soggetta allamoda14. Questa nuova concezione dell’arte si affermadappertutto anche nelle opere: l’arte diventa piú umana,piú accessibile, meno pretenziosa; non è piú destinata asemidei e superuomini, ma a comuni mortali, a creatu-re deboli, sensuali, avide di piaceri. Essa non esprimepiú grandezza e potenza, ma la bellezza e il fascino dellavita; non vuol piú imporsi e soggiogare, ma attrarre edilettare. Nell’ultimo periodo del governo di Luigi XIVpersino a corte si formano circoli in cui gli artisti trovanonuovi protettori, e spesso piú generosi e sensibili del re,già assediato dalle difficoltà economiche e dominatodalla Maintenon. Il duca d’Orléans, nipote del re, e ilduca di Borgogna, figlio del Delfino, sono l’anima di talicircoli. Il futuro reggente si ribella fin d’ora all’artefavorita da Luigi XIV, e ai propri artisti richiede untono piú leggero e scorrevole, uno stile piú sensuale edelicato di quello in uso a corte. Spesso gli stessi artistilavorano per il re e per il duca, adattando volta a voltalo stile al committente, come Coypel ad esempio: cor-rettamente aulico al castello di Versailles, nella decora-zione della cappella, al Palais Royal invece dipinge le

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dame in civettuolo négligé e per l’Académie des Inscrip-tions disegna medaglie classicheggianti15. La grandemanière e in genere le forme d’arte auliche decadonodurante la Reggenza. Il quadro sacro, che già ai tempidi Luigi XIV si era ridotto a un puro pretesto per ritrar-re il seguito del re, e il grande quadro storico, che ser-viva soprattutto alla propaganda monarchica, vengonotrascurati. Al paesaggio eroico subentra l’idillio pasto-rale, e il ritratto, finora destinato soprattutto al pubbli-co, diventa un genere comune, popolare, per lo piú diuso privato; ora ognuno se lo concede, appena può. AlSalon del 1704 sono esposti duecento ritratti, contro icinquanta del 169916. Largillière dipinge ormai di pre-ferenza borghesi, anziché cortigiani, come i suoi prede-cessori; vive a Parigi, non a Versailles, e anche questo èun segno della vittoria della «città» sulla «corte»17.

Il favore del pubblico piú evoluto va alla scenettagalante di Watteau, non piú al quadro di cerimonia,sacro o storico; e nulla meglio esprime il mutamento delgusto alla fine del secolo di questo passare da Le Brunal maestro delle fêtes galantes. La cultura del nuovo pub-blico, composto dall’aristocrazia piú illuminata e dal-l’alta borghesia meglio sensibile all’arte, il dubbio concui si guarda ormai alle autorità artistiche finora accet-tate, l’infrangersi della vecchia, angusta cerchia di sog-getti, tutto contribuisce a rendere possibile l’apparizio-ne del massimo pittore francese anteriore all’Ottocen-to. Il genio pittorico, che l’epoca di Luigi XIV non erariuscita a suscitare, pur con gli incarichi statali, gli sti-pendi e le pensioni, con l’Accademia, la scuola di Romae la Regia manifattura, nasce invece con la Reggenza,fallimentare, sventata, frivola, indisciplinata e irreligio-sa. Watteau, nato in Fiandra, erede della tradizionerubensiana, è per altro, dopo l’età gotica, il primo mae-stro veramente «francese». Nei due secoli precedenti lasua apparizione l’arte francese era stata soggetta all’in-

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flusso straniero: Rinascimento, Manierismo e Baroccoerano stati fenomeni di importazione dall’Italia e daiPaesi Bassi. In Francia, dove tutta la vita di corte daprincipio si era modellata su esempi stranieri, anchel’arte destinata al prestigio e alla propaganda regia siespresse in forme venute di fuori, soprattutto italiane.E queste forme, cosí intimamente concresciute con l’i-dea della monarchia e della corte, assunsero un valorestabile di istituzioni, tanto che si poterono sradicaresolo quando la corte cessò di essere il centro della vitaartistica.

Watteau dipingeva una società in cui egli poteva get-tare uno sguardo solo dal di fuori: l’ideale di vita cherappresentava, solo esteriormente poteva collimare conle sue aspirazioni, e l’utopia della libertà cui dava figu-ra solo vagamente doveva corrispondere all’idea dilibertà ch’era sua propria; ma quelle visioni egli le crea-va da elementi di sue esperienze dirette, da schizzi deglialberi del Lussemburgo, da scene di teatro ch’egli pote-va vedere e certo vedeva ogni giorno, e da tipi caratte-ristici del suo tempo, anche se magicamente travestiti.La profondità dell’arte di Watteau è dovuta all’ambi-valenza dei suoi rapporti col mondo, al fatto che essaesprime ciò che la vita promette e insieme quel chenega, al sentimento sempre presente di una perdita inef-fabile e di una meta irraggiungibile, alla consapevolez-za di una patria perduta e dell’utopica lontananza dellavera felicità. Quel ch’egli dipinge è pieno di malinconia,nonostante la sensualità e la bellezza, la gioiosa dedi-zione alla realtà e l’amore dei beni terreni che ispiranola sua arte. In tutto egli dipinge la segreta tragedia diuna società che si perde nel pieno appagamento dei suoidesideri. Non si tratta ancora però di un sentimento allaRousseau, dell’aspirazione allo stato di natura, ma alcontrario di un desiderio di perfetta civiltà, di tran-quilla e sicura gioia di vivere. Nella fête galante, nella

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festosa riunione di coppie amorose e Corti d’amore,Watteau scopre la forma adeguata al suo nuovo sensodella vita, che è fatto insieme di piacere mondano e didolore universale, del tedio e della gioia dell’ora. L’ele-mento bucolico è prevalente in questa fête galante che èsempre una fête champêtre, e rappresenta gli svaghi digiovani che, fra musica, danze e canti, menano la vitaspensierata dei pastori e delle pastorelle teocritee. Rap-presenta la pace dei campi, che è insieme fuga dal granmondo e oblio di sé nella felicità amorosa. Ma non sitratta di una semplice esistenza idillica, contemplativae paga; si tratta piuttosto dell’ideale arcadico della coin-cidenza di natura e civiltà, bellezza e spiritualità, sensoe intelletto. Veramente anche questo ideale da grantempo non è piú nuovo; è solo una variante di un temapoetico dell’età augustea, che aveva accomunato la leg-genda dell’età dell’oro con l’idea dell’Arcadia. La solanovità, rispetto alla versione romana, è che il mondobucolico assume parvenze di bel mondo, che i pastori ele pastorelle portano ora l’elegante costume del tempoe della situazione pastorale non resta che il colloquioamoroso, la cornice naturale e la lontananza dalla vitadi corte e dalla città. Ma forse nemmeno questo è nuovo.Infatti cosa fu fin dalle origini la poesia pastorale se nonuna finzione, una giocosa finzione, cioè un semplicecivettare con l’idillico stato d’innocenza e di sempli-cità? È difficile ammettere che, da quando esiste poe-sia pastorale, cioè da quando esiste una vita urbana e dicorte altamente evoluta, ci sia mai stato chi davverovolesse condurre la semplice, modesta vita dei pastori edei contadini. L’Arcadia fu sempre un sogno poetico incui gli elementi negativi, la fuga dal gran mondo e ildisprezzo dei suoi costumi, costituivano il momentodeterminante; un gioco della fantasia, in sostanza, checonsentiva di evadere in una regione dove si sarebberoavuti i vantaggi della civiltà senza però i suoi vincoli. Si

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rendevano piú seducenti le dame dipinte e profumateimmaginandole, pur con belletto e profumi, come fre-sche, sane e innocenti contadinelle, cosí che la naturaesaltasse il fascino dell’arte. Fin da principio la finzio-ne conteneva in sé le premesse che, in ogni cultura com-plessa e raffinata, ne hanno fatto un simbolo di libertàe di felicità.

Non per nulla la poesia bucolica, sorta nell’età elle-nistica, presenta una tradizione quasi ininterrotta dioltre duemila anni. Ad eccezione dell’alto Medioevo, incui mancò ogni cultura urbana e di corte, non c’è seco-lo che non offra esempi di tale poesia. Se si prescindedai temi del romanzo cavalleresco, si può dire che nonc’è materia che abbia occupato cosí a lungo la letteraturaoccidentale e abbia cosí tenacemente resistito agli assal-ti del razionalismo. Questo lungo e quasi ininterrottodominio mostra che la poesia «sentimentale», nel sensoche Schiller dà alla parola, è incomparabilmente piúimportante nella storia letteraria della poesia «ingenua».Anche gli idilli di Teocrito nascono, non già da unoschietto legame con la terra e da un rapporto diretto conla vita del popolo, ma da un naturalismo di riflesso e daun’immagine romantica degli umili, cioè da affetti chehanno la loro origine in un desiderio di cose lontane,estranee ed esotiche. Il contadino e il pastore non sientusiasmano né per la natura né per il loro lavoro quo-tidiano. E si sa che l’interesse per la vita semplice nonè da cercare nell’ambiente campagnolo; non sorge fra ilpopolo, ma fra i ceti piú elevati; non in campagna, main città e alle corti, in una vita agitata, in una societàormai troppo civile e sazia. Già quando Teocrito scri-veva i suoi idilli il motivo e la situazione bucolica nonerano piú nuovi; avevano dovuto ricorrere già nella poe-sia dei primitivi popoli pastori, ma spogli di sentimen-talismo e compiacimento, e probabilmente senza alcuntentativo di ridurre a motivi di genere le circostanze

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esteriori della vita pastorale. Scene pastorali, senza peròl’accento lirico degli Idilli, si potevano comunque tro-vare anche prima di Teocrito, nel mimo. E non ne man-cavano, s’intende, nel dramma satiresco; la stessa tra-gedia, come sappiamo, conosceva i quadri campestri18.Ma scene pastorali e bozzetti di vita campagnola nonbastano a fare poesia bucolica, di cui l’elemento essen-ziale è il contrasto latente fra città e campagna e il sensodi un disagio che incrina la civiltà.

Ma se a Teocrito bastava ancora la semplice rappre-sentazione della vita pastorale, Virgilio, che ne è il primoimitatore non pedissequo, non si accontenta piú delladescrizione realistica, e l’ecloga assume quella formaallegorica che costituisce nella storia del genere il muta-mento piú importante19. Già prima la poesia bucolica erastata solo un modo per sottrarsi alla vita attiva e il desi-derio di vivere come pastori non era mai stato da pren-dere alla lettera; ora però il tema si fa ancora piú irrea-le, poiché non è fittizio solo il desiderio della vita pasto-rale, ma tutto il quadro diventa finzione. In essa il poetapresenta sé e i suoi amici travestiti da pastori, in unapoetica distanza, ma subito riconoscibili per gli iniziati.Il fascino di questa formula, nuova anche se già prean-nunziata da Teocrito, fu cosí grande che le ecloghe vir-giliane non soltanto divennero la piú celebre fra tutte leopere del poeta, ma nessun’altra, si può dire, nella let-teratura mondiale ha avuto una efficacia cosí persisten-te e profonda. Dante e Petrarca, Boccaccio e Sannazza-ro, Tasso e Guarini, Marot e Ronsard, Montemayor ed’Urfé, Spenser e Sidney, e anche Milton e Shelley,direttamente o indirettamente, ne dipendono nei lorocomponimenti d’intonazione bucolica. A Teocrito, aquanto sembra, bastava per sentirsi spaurito la vita dicorte, con le continue lotte per il successo, e la gran cittàcon il suo ritmo agitato. Virgilio aveva motivi già piúreali per fuggire il proprio tempo. La secolare guerra

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civile era appena finita, il poeta aveva visto in giovi-nezza le lotte piú cruente, e la pace augustea, quandoegli scriveva le sue ecloghe, era piú una speranza che unarealtà20. La sua fuga nell’idillio coincide con il movi-mento reazionario promosso da Augusto, tendente aesaltare il passato della patria come l’età dell’oro, e astornare l’attenzione dagli avvenimenti politici del pre-sente21. In fondo, nella sua nuova concezione del poemapastorale, Virgilio fondeva il proprio sogno di pace conla propaganda per una politica di pacificazione.

All’allegoria virgiliana si riconnette direttamente lapoesia bucolica del Medioevo. Veramente, i secoli fra larovina del mondo antico e il sorgere della civiltà feuda-le e comunale ce ne hanno lasciato scarsi vestigi, ma quelche ne sopravvive, che si rivela prodotto di pura erudi-zione, è reminiscenza di antichi poeti, anzitutto di Vir-gilio. Anche le ecloghe dantesche sono una dotta imita-zione; e nello stesso Boccaccio, autore del primo idilliopastorale moderno, sussistono tracce dell’antica allego-ria bucolica. Con il romanzo pastorale che segna unanuova svolta nella storia del genere, motivi bucolicientrano anche nella novella del Rinascimento italiano,ma perdendo i caratteri romantici che di solito li accom-pagnano nell’idillio, nel romanzo e nel dramma pasto-rale22. È un fenomeno, del resto, facilmente comprensi-bile, se si riflette che la novella è per eccellenza lettera-tura borghese e come tale tende al naturalismo; la poe-sia pastorale invece costituisce un genere aulico-aristo-cratico incline al romanticismo. E questa tendenza è pre-ponderante nei componimenti pastorali di Lorenzo de’Medici, Jacopo Sannazzaro, Castiglione, Ariosto, Tasso,Guarini, Marino; e dimostra che nelle corti dell’Italiarinascimentale, a Firenze, a Napoli, a Urbino, a Ferra-ra, a Bologna, si segue la stessa moda letteraria. La poe-sia bucolica è dappertutto lo specchio della vita di cortee serve al lettore come modello di rapporti galanti. Nes-

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suno piú prende alla lettera l’Arcadia; il carattere con-venzionale degli elementi pastorali è evidente; e mentrepassa in secondo piano il significato originario di que-sta poesia, cioè il suo rifiuto di una vita troppo civile, ilcostume di corte viene ora avversato solo per la schia-vitú che impone, non per la raffinatezza e l’artificio. Ècomprensibile che con le sue sottigliezze e le sue alle-gorie questa poesia pastorale che mescola il remoto e ilprossimo, l’immediato e l’inconsueto, sia tra i generi pre-diletti dal Manierismo; e che in Spagna, la terra classi-ca dell’etichetta di corte e del Manierismo, sia coltiva-ta con speciale amore. Anche qui dapprima ci si attieneai modelli italiani, che il costume aulico diffonde intutto l’Occidente; ma ben presto i caratteri originali delpaese hanno il sopravvento dando luogo a un’unione,d’ora in poi esemplare, di elementi cavallereschi e ele-menti arcadici. Quest’ibrida forma spagnola, romanti-co-bucolica, sarà il tramite per cui il romanzo pastoraleitaliano si evolverà in quello francese.

In Francia gli inizi della poesia arcadica risalgono alMedioevo e si presentano nel secolo xiii in una formadi origine complessa, dipendente dalla lirica cortese.Come in parte già negli idilli e nelle ecloghe antiche,anche nelle pastourelles francesi la situazione bucolicaesprime fantasticamente un desiderio di liberazione dalleforme ormai troppo rigide e convenzionali della poesiaerotica23. Quando il cavaliere dichiara il suo amore allapastora, si sente esonerato dalle leggi dell’amor cortese,dalla fedeltà, dalla castità e dalla discrezione. Il suodesiderio non ha nulla di ambiguo e, pur cosí impulsi-vo, pare innocente accanto alla forzata purezza dell’a-more ideale. Ma in sé la scena del cavaliere che solleci-ta la pastorella è del tutto convenzionale e non ha piútraccia della spontaneità teocritea. Oltre i due protago-nisti e, talvolta, il pastore geloso, la scena esige al mas-simo qualche pecora; manca affatto l’atmosfera del prato

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e della selva, della mietitura e della vendemmia, il pro-fumo di latte e di miele24. Certi elementi dell’eclogaclassica possono esser penetrati anche nelle pastourellesattraverso semplici reminiscenze classiche, ma un influs-so diretto dell’antica poesia bucolica sulla letteraturafrancese, anteriormente alla diffusione del Rinascimen-to italiano e della cultura di corte borgognona, non èpossibile affermarlo. E quest’influsso si approfondiscesoltanto con la moda generale dei romanzi pastorali ita-liani e spagnoli e con la vittoria del Manierismo25. L’A-minta del Tasso, Il Pastor fido del Guarini e la Diana delMontemayor sono i modelli dei francesi, specialmentedi Honoré d’Urfé che con l’Astrée volle dare, sull’e-sempio degli Italiani e degli Spagnoli, anzitutto unmanuale delle forme internazionali di mondanità e unospecchio di raffinato costume. L’opera è ritenuta a ragio-ne la scuola che trasformò i rozzi feudatari e soldati deltempo di Enrico IV in una raffinata società di corte.Essa nasce dallo stesso fermento da cui uscirono i primisalotti e da cui scaturí il preziosismo secentesco26. Senzadubbio, nell’Astrée culmina il processo iniziatosi con lepastorali del Rinascimento. Davanti alla raffinatezza didame e cavalieri che, travestiti da pastori e pastorelle,conversano spiritosamente e discutono capziose que-stioni d’amore, a nessuno ormai può venir in mente lasemplicità del popolo. La finzione ha perduto ogni rap-porto con la vita reale, diventando puro gioco di società.L’Arcadia non è piú che una mascherata che per unistante sottrae l’uomo alla realtà consueta e al suo ioquotidiano.

A ogni modo le fêtes galantes di Watteau hanno scar-se affinità con questa poesia. Nel romanzo pastorale lescene d’amore campestri con il loro rituale e il loro scio-glimento erotico rappresentano già la condizione idea-le, mentre nei quadri di Watteau tutta la materia amo-rosa non è che una tappa verso la meta vera, il preludio

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al viaggio verso quella Cythère sempre avvolta nelle neb-bie di una misteriosa lontananza. Del resto, proprioquando Watteau dipinge i suoi quadri, la poesia pasto-rale in Francia è ormai in declino; il maestro non ne rice-ve impulsi diretti. E fino al Settecento non appaiononella pittura scene di vita pastorale come soggetti auto-nomi. È vero che non sono rari i motivi bucolici comeaccessori nelle scene bibliche e mitologiche, ma hannoaltra origine, indipendente dall’ideale arcadico. La tra-dizione «giorgionesca» ricorda fortemente Watteau perl’atmosfera elegiaca27, ma le manca l’accompagnamentoerotico e il tormentoso senso di tensione fra natura eciviltà. Anche Poussin ha con Watteau affinità soloapparenti. Poussin dipinge ispirate scene d’Arcadia, masenza diretto rapporto con la vita pastorale; il soggettogli è sempre suggerito dalla mitologia classica ed è trat-tato in modo essenzialmente eroico, secondo lo spiritodel classicismo romano. Nell’arte francese del Seicentole scene pastorali compaiono come soggetti autonomisoltanto nell’arazzo, che, com’è noto, ha sempre raffi-gurato con predilezione temi di vita campestre. Natu-ralmente questi non si adattano al carattere ufficialedella grande arte barocca. Sono ammissibili in quadridecorativi – come, d’altra parte, nel romanzo, nel melo-dramma o nel balletto – ma in un gran dipinto di carat-tere solenne sarebbero fuor di posto come in una trage-dia: «Dans un roman frivole aisément tout s’excuse...Mais la scène demande une exacte raison»**28. Tutta-via, appena la pittura se ne impadronisce, la materiapastorale acquista una sottigliezza e una profondità chemai ha avuto nella poesia, dove è sempre stata un gene-re di second’ordine. Come genere letterario, fin dall’i-nizio aveva avuto un carattere quanto mai artificioso,proprio di generazioni che non avevano con la realtà senon un rapporto di riflesso. Anche la situazione bucoli-ca era stata sempre un pretesto, non mai l’oggetto vero,

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e aveva avuto quindi un carattere piú o meno allegori-co, non mai simbolico. In altri termini, il poema pasto-rale aveva un senso troppo chiaro e lasciava poco agioall’interpretazione. Era presto esaurito, non riserbavaalcun segreto; e persino un poeta come Teocrito non riu-sciva a ricavarne che un’immagine piuttosto uniformedella realtà, anche se eccezionalmente attraente. L’idil-lio cioè non era mai riuscito a superare i limiti dell’alle-goria restando un gioco privo di tensione e di profon-dità. Solo Watteau riesce a dargli una profondità sim-bolica, soprattutto escludendone ogni carattere che nonpossa anche venir considerato semplice e immediatariproduzione del vero.

Il Settecento per sua natura doveva portare a unarinascita del motivo pastorale. Per i letterati la formulaera ormai troppo angusta, ma i pittori non l’avevanoancora logorata e potevano con essa rifarsi da capo.Negli alti ceti la vita era regolata da forme sociali straor-dinariamente artificiose intese a sublimare in variomodo i rapporti quotidiani; ormai però non si credevapiú al loro senso profondo, sicché erano mantenute comesemplici regole del gioco. Per l’amore la regola del giocoera la galanteria, come l’Arcadia era una forma giocosadell’arte erotica. Entrambe si proponevano di padro-neggiare l’amore, spogliandolo della sua selvaggia imme-diatezza e passionalità. Quindi nulla di piú naturale chel’Arcadia giungesse alla piena fioritura nel secolo dellagalanteria. Ma come i costumi indossati dalle figure diWatteau solo dopo la morte del maestro divennero dimoda, cosí anche il genere della fête galante solo neltardo Rococò trovò un vasto pubblico. Lancret, Pater eBoucher godettero i frutti dell’invenzione, e altro nonfecero che divulgarla. Quanto a Watteau, egli rimase pertutta la vita il pittore di una cerchia relativamenteristretta: i collezionisti julienne e Crozat, l’archeologo emecenate conte Caylus, il mercante d’arte Gersaint

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furono gli unici sostenitori veramente fedeli della suaarte. La critica contemporanea di rado si occupò di luie per lo piú solo in tono di biasimo29. Neppure Diderotne riconobbe il valore e lo pospose a Teniers. L’Acca-demia, è vero, non gli si oppose, se pure, attenendosi allatradizionale gerarchia dei generi, ne disdegnò l’arte,annoverandola fra i petits genres***. Per altro non erapiú dogmatica del pubblico colto in generale, che, alme-no in teoria, si teneva sempre fedele alla dottrina clas-sica. In tutte le questioni pratiche del resto l’Accademiasi comportava con la massima liberalità. Il numero deimembri era illimitato, e l’ammissione non era vincolataall’accettazione della sua dottrina. Forse tanta condi-scendenza non veniva da un impulso spontaneo; è certocomunque che l’Accademia seppe rendersi conto che inun’epoca di inquietudine e di rinnovamento come que-sta solo una simile larghezza poteva tenerla in vita30.Watteau, Fragonard e Chardin furono senz’altro suoimembri, come in quel secolo tutti gli artisti di grido, aqualunque corrente appartenessero. L’Accademia con-tinuò a rappresentare il grand goût, ma solo un piccologruppo dei suoi membri si teneva in pratica a quel cri-terio. Gli artisti che non potevano contare su ordina-zioni pubbliche e avevano i loro acquirenti fuor del-l’ambiente, di corte, non si curavano gran che del rico-noscimento ufficiale e coltivavano i petits genres che, sepur meno apprezzati in teoria, erano tanto piú ricerca-ti in pratica. Tra questi figuravano anche le fêtes galan-tes, fin dall’inizio destinate a un ambiente piú liberaledi quello di corte, benché chi si interessava di simili qua-dri ancora per poco avrebbe rappresentato il pubblicopiú evoluto in fatto d’arte.

Ma la pittura continuò a coltivare a lungo il sogget-to erotico, anche dopo che la letteratura, e specialmen-te il romanzo (il genere piú mutevole e, anche per moti-vi economici, piú popolare), già si era rivolta a soggetti

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d’interesse piú generale. Veramente anche in letteratu-ra il libertinaggio del secolo trovò i suoi esponenti inChoderlos de Laclos, in Crébillon figlio e in Restif dela Bretonne; ma non ebbe alcun influsso decisivo suglialtri romanzieri. Marivaux e Prévost, nonostante l’au-dacia dei loro soggetti, non cercano mai effetti grosso-lanamente erotici. Così, mentre la pittura si mantieneper ora legata all’alta società, il romanzo si viene avvi-cinando allo spirito delle classi medie. Il primo passo inquesta direzione è segnato dal passaggio dal romanzocavalleresco a quello pastorale, che significa almeno l’ab-bandono di certi elementi avventurosi medievali. Ilromanzo pastorale, sebbene in una cornice del tutto fit-tizia, tratta problemi della vita reale e pur sotto un tra-vestimento fantastico rappresenta la gente del tempo;sono questi, per la storia dell’evoluzione, segni impor-tanti e premonitori. E del resto per il fatto che in essol’azione, specie in d’Urfé, viene storicamente localizza-ta, il romanzo pastorale si avvicina al realismo moder-no31. Ma ciò che è piú significativo per l’ulteriore svi-luppo è che d’Urfé scrive il primo vero romanzo d’a-more. Il tema erotico ricorreva naturalmente ancheprima nei romanzi, ma prima di d’Urfé non c’è nes-sun’opera letteraria di una certa mole che abbia comesuo tema centrale l’amore. Solo con lui, nel romanzocome nel dramma, l’amore, diviene il movente vero del-l’azione e tale resterà per oltre tre secoli32. La letteratu-ra narrativa e drammatica dall’età barocca in poi è essen-zialmente poesia d’amore; solo negli ultimi tempi sipotranno osservare indizi di un mutamento. È, veroche già nell’Amadis l’amore prevale sull’eroismo, maCéladon e il primo eroe dell’amore nel senso moderno,il primo inerme schiavo della passione, estraneo a ognieroismo, il precursore del cavaliere Des Grieux e l’an-tenato di Werther.

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Il romanzo pastorale del Seicento francese è la lettu-ra di una generazione stanca; la società esausta per leguerre civili si riposa delle sue traversie nelle belle eornate conversazioni dei pastori innamorati. Ma appe-na essa si riprende e le guerre di conquista di Luigi XIVsvegliano nuove ambizioni, comincia a reagire contro ilromanzo prezioso, reazione che va di pari passo con gliassalti di Boileau e Molière contro il preziosismo. Ilromanzo pastorale di d’Urfé viene soppiantato da quel-lo eroico e amoroso di La Calprenède e di Mademoisel-le de Scudéry, un genere che riannoda le fila strappatedel ciclo di Amadigi. Il romanzo riprende a trattaregrandi fatti, descrive paesi lontani e popoli stranieri,presenta grandi, impressionanti figure e caratteri impo-nenti. L’eroismo in esso non è piú l’ardire temerario deiromanzi cavallereschi, ma la severa coscienza del dove-re della tragedia corneliana. Il romanzo eroico di La Cal-prenède, come il dramma aulico, voleva essere una scuo-la di forte volontà e di grandezza d’animo; ma lo stessoideale umano alla Corneille, la stessa etica tragico-eroi-ca si esprimeva anche nella Princesse de Clèves di Mada-me de la Fayette. Anche qui si trattava del conflitto fraonore e passione, e anche qui il dovere vinceva l’amo-re. In quest’età tutta tesa all’eroismo troviamo dapper-tutto la stessa chiara analisi dei moventi della volontà,la stessa dissezione razionalistica delle passioni, la stes-sa rigorosa dialettica delle idee morali. Forse in Mada-me de la Fayette si scopre qua e là un tratto piú intimo,una sfumatura piú personale, certi lati piú fuggevolidello sviluppo dei sentimenti; ma anche qui tutto appa-re nella cruda luce della coscienza e dell’analisi raziona-le. Gli amanti non sono mai preda inerme della passio-ne, il loro male non è incurabile, non sono irrimediabil-mente perduti, come René e Werther, o come DesGrieux e Saint-Preux.

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Accanto a queste forme bucolico-idilliche ed eroico-amorose già nel Seicento si notano fenomeni che pre-corrono il romanzo borghese. Anzitutto il romanzo pica-resco, che si distingue dalla letteratura mondana prin-cipalmente per i suoi temi che sono temi di genere e perla sua predilezione per gli aspetti piú bassi della vita. GilBlas e Le diable boiteux appartengono ancora a questogenere, e anche nei romanzi di Stendhal e di Balzac cisono elementi che ricordano il variopinto mosaico dellavita picaresca, I romanzi preziosi si continuano a legge-re per un pezzo nel Seicento, anzi fin nel Settecentoinoltrato, ma dopo il 1660 non se ne scrivono piú33. L’e-locuzione spiritosa, ricercata, aristocraticamente affet-tata cede a modi piú naturali e borghesi. Furetière chia-ma già esplicitamente roman bourgeois il suo romanzoantieroico, antiromantico, di gusto picaresco; qualificache d’altronde è giustificata soltanto dagli argomenti,poiché anche qui si tratta semplicemente di una raccol-ta di episodi, schizzi e caricature accostati, e non c’èancora lo sviluppo concentrato e «drammatico» delromanzo moderno che si impernia sul destino di un pro-tagonista e provoca l’interesse del lettore secondo unavisuale ben precisa.

Il romanzo che nel Seicento, benché molto in voga,è una forma minore e per molti aspetti arretrata, diven-ta nel Settecento il genere letterario dominante che nonsolo produce le opere di piú alto valore, Ma costituisceanche un decisivo passo avanti sulla via del progresso.Il Settecento è l’età del romanzo, perché è l’età della psi-cologia. Lesage, Voltaire, Prévost, Laclos, Diderot,Rousseau sono fonti inesauribili di osservazioni psico-logiche, che per Marivaux diventano una vera mania;egli spiega, analizza e commenta senza posa il compor-tamento psichico delle sue figure. Ogni manifestazionedi vita è un buon pretesto per le sue analisi ed egli nontralascia occasione per mettere a nudo i suoi personag-

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gi. La psicologia di Marivaux e dei suoi contemporanei,specialmente di Prévost, è assai piú ricca, fine, com-plessa di quella del Seicento; i personaggi non sono piúsoltanto tipi, si fanno piú complicati e contraddittori,tanto che i caratteri della letteratura classica, pur contutta la loro acutezza risultano al confronto un po’ sche-matici. Lesage ci dà ancora quasi esclusivamente deitipi, per lo piú tipi eccentrici o caricature, e solo conMarivaux e Prevost abbiamo veri ritratti con i contor-ni mobili e i colori smorzati e sfumati della vita. Se maiè possibile una linea di confine tra il romanzo modernoe quello piú antico, è a questo punto che deve cadere.D’ora in poi il romanzo è storia d’anime, analisi psico-logica, spietata introspezione; finora era stato semplicerappresentazione di avvenimenti esterni o di processipsichici ma in quanto si riflettevano in azioni concrete.Veramente neppure Marivaux e Prévost escono dai limi-ti della psicologia analitica e razionalistica del Seicento,e rimangono piú affini a Racine e a La Rochefoucauldche ai grandi romanzieri dell’Ottocento. Anch’essi,come i moralisti e i drammaturghi dell’età classica, scom-pongono i caratteri nei loro elementi e li svolgono par-tendo da un astratto principio psicologico invece di svi-lupparli dall’intera realtà in cui sono immersi. Il passodecisivo verso questa psicologia impressionistica capacedi rappresentare in modo indiretto, attraverso formemutevoli e sfumate, lo farà soltanto l’Ottocento, e conquesto darà vita a una concezione della verosimiglianzapsicologica che farà apparire antiquata tutta la prece-dente letteratura. Tuttavia negli scrittori del secolo xviiic’è un aspetto moderno: ed è la diseroicizzazione deiloro eroi, che si fanno cosí piú umani. Le loro dimen-sioni si riducono, avvicinandosi a noi; e consiste in que-sto il sostanziale progresso del naturalismo psicologico,rispetto alla rappresentazione dell’amore che aveva fattoRacine. Prévost mostra già l’altra faccia delle grandi

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passioni, anzitutto la condizione umiliante e vergogno-sa dell’uomo innamorato. L’amore, come già per i poetiromani, torna ad essere una disgrazia, una malattia, unavergogna. Si avvia cioè verso quello che sarà l’amour-pas-sion di Stendhal e assume gli aspetti patologici che saran-no propri della letteratura amorosa dell’Ottocento.Marivaux non conosce ancora la violenza dell’amoreche assale come una belva ingorda le sue vittime e nonle abbandona piú; ma in Prévost esso ha già preso pos-sesso delle anime. L’età dell’amore cavalleresco è allafine; comincia la lotta contro la mésalliance. La degra-dazione dell’amore serve qui come meccanismo di dife-sa sociale. La società feudale del Medioevo come anchela società di corte del Seicento non aveva ancora a teme-re dall’amore; non aveva ancora bisogno di una auto-matica difesa contro gli eccessi di un figliol prodigo. Maora che i confini fra le caste vengono sempre piú spes-so violati, e non solo la nobiltà, ma anche la borghesia,ha privilegi da difendere, comincia la scomunica dellapassione amorosa sfrenata, irresponsabile, che minaccial’ordine costituito; e sorge una letteratura che infinecondurrà alla Signora delle camelie e ai film della Garbo.Senza dubbio Prévost è ancora lo strumento inconsciodei conservatori, che un Dumas figlio servirà con pienacoscienza e persuasione.

L’esibizionismo di Rousseau già si preannunzia inManon Lescaut. L’eroe del romanzo non ha indulgenzeverso di sé nella descrizione del suo misero amore e anzidimostra un certo masochistico piacere nel confessare lapropria debolezza. D’altronde, la predilezione per figu-re del genere, «a un tempo piccole e grandi, spregevolie pregevoli», secondo la formula coniata dal Lessing peril Werther, si trova già in Marivaux. L’autore della Viede Marianne conosce già le piccole debolezze delle animegrandi, e non solo disegna il suo Monsieur de Climalcome una natura in cui si mescolano tratti seducenti e

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repulsivi, ma descrive l’eroina come un carattere di cuinon è facile venire a capo. È una fanciulla onesta e sin-cera, ma non è mai cosí incauta da dire o fare cosa chepossa danneggiarla. Conosce il suo gioco, e gioca bene.Marivaux è il tipico rappresentante di un’epoca di tran-sizione e di ricostruzione. Come romanziere egli aderi-sce interamente alla corrente borghese progressista, macome commediografo, riveste ancora le sue osservazio-ni psicologiche delle vecchie forme del dramma d’intri-go. Tuttavia anche qui c’è un elemento nuovo, ed è chel’amore – finora secondario nella commedia – è adessoil centro dell’azione34. Così, con la conquista di que-st’ultimo caposaldo, esso conclude la sua marcia vitto-riosa nella letteratura moderna. Ed il mutamento è pos-sibile in quanto ormai le figure si complicano anchenella commedia e l’amore stesso acquista una forma cosídifferenziata, che i tratti comici che mantiene nella com-media non distruggono il suo carattere serio e sublime.Ma in Marivaux commediografo soprattutto è nuova lapreoccupazione di disegnare i suoi personaggi come lega-ti a una precisa condizione sociale e dalla dinamica diquesta far derivare l’azione drammatica35. I personaggidi Molière sono, sì, innamorati, ma non è questo il temasu cui s’impernia il dramma; e la loro condizione socia-le determina palesemente la loro natura, ma non diven-ta mai l’origine del conflitto drammatico. Invece nel Jeude l’amour et du hasard**** di Marivaux tutta l’aziones’impernia su un gioco di apparenze sociali, cioè sullaquestione se i protagonisti siano effettivamente i servicome fingono di essere, o i signori che non vogliono rive-larsi.

Spesso si è paragonato Marivaux a Watteau, e l’ana-logia del loro modo di esprimersi, spiritoso e piccante,suggerisce il paragone. Ma essi ci propongono anche lostesso problema sociologico, poiché entrambi si espri-mono in forme raffinatissime, ligie alle convenzioni della

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buona società e tuttavia né l’uno né l’altro ebbero il suc-cesso che sarebbe lecito attendersi. Per tutta la sua vitaWatteau fu apprezzato veramente solo da pochi, e si sache i drammi di Marivaux caddero piú di una volta. Icontemporanei trovavano complicato, ricercato e oscu-ro il suo linguaggio, e bollarono quel suo dialogo scin-tillante, tutto guizzi e freschezza con l’epiteto di mari-vaudage, il che, come sappiamo, non voleva essere unalode, benché Sainte-Beuve affermi con ragione non esserpiccola cosa che il nome di un poeta passi in proverbio.E se anche si volesse accettare per Watteau la spiega-zione che per il suo tempo egli era troppo grande e chela grande arte «va contro gli istinti umani», questa spie-gazione – che poi non spiega nulla – non si adatta aMarivaux, che non era un grande poeta. Erano entram-bi rappresentanti di un’epoca di transizione e rimaseroincompresi; ma questo non riguardava il loro valore arti-stico, ma la loro funzione storica di precursori e batti-strada. Simili artisti non trovano mai un pubblico ade-guato. I contemporanei non li comprendono, la genera-zione successiva conosce di solito le loro concezioni arti-stiche nella forma annacquata degli epigoni, e la poste-rità, che forse è in grado di apprezzare meglio le loroopere, non riesce piú a superare la distanza storica. SiaWatteau sia Marivaux vengono scoperti solo nell’Otto-cento dal gusto educato all’Impressionismo, in un tempoche sentiva già molto antiquati i temi dell’arte loro.

Il Rococò non è l’arte della monarchia come erastato il Barocco, ma l’arte dell’aristocrazia e dell’altaborghesia. All’attività edilizia del re e dello statosubentra quella dei privati: invece di castelli e palazzisi costruiscono hôtels e petites maisons; al freddo marmoe al pesante bronzo dei grandi ambienti di rappresen-tanza si preferiscono l’intimità e la leggiadria dei bou-doirs e dei gabinetti; i colori severi e solenni, il brunoe la porpora, il turchino e l’oro vengono sostituiti da

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chiare tinte di pastello, grigio e argento, verde-resedae rosa. Di fronte all’arte della Reggenza, il Rococò pre-senta maggior preziosità ed eleganza, una leggiadriavivace e capricciosa, ma insieme anche un tono delica-to e intimo; se si sviluppa come arte mondana per eccel-lenza, d’altro canto risponde al gusto borghese per lepiccole dimensioni. Si sostituisce cosí al Barocco mas-siccio, statuario, realisticamente corposo, un’arte deco-rativa da virtuosi, piccante, delicata, nervosa; tuttaviabasta pensare ad artisti come La Tour o Fragonard perricordarsi che la leggerezza, la fluidità, e la vivacità diquest’arte sono anche un trionfo dell’osservazione edell’efficacia naturalistica. Accanto alle visioni dell’ar-te barocca, agitate, sfrenate, soverchianti tumultuosa-mente l’ordine consueto, l’arte del Rococò appare sem-pre debole, minuta e gretta, ma in tutta la pitturabarocca non c’è un pennello piú leggero e sicuro diquelli di Tiepolo, Piazzetta e Guardi. Il Rococò rap-presenta l’ultima fase del processo iniziatosi col Rina-scimento e realizza l’affermazione definitiva di quelprincipio dinamico, di soggettiva libertà, con cui il pro-cesso era cominciato e che sempre aveva dovuto riaf-fermarsi contro il principio della stasi, della costrizio-ne e della norma. Soltanto con il Rococò si impone defi-nitivamente il principio fondamentale dell’arte rina-scimentale; e con esso la rappresentazione obiettivadelle cose raggiunge quella precisione e quella scioltez-za che è la meta del naturalismo moderno. L’arte bor-ghese nata dopo il Rococò e, in parte, ancora in pienoRococò, è già qualcosa di sostanzialmente nuovo, com-pletamente diverso dal Rinascimento e dai periodiimmediatamente successivi. Comincia allora quell’epo-ca della cultura che è ancora la nostra, epoca determi-nata dal pensiero democratico e dal soggettivismo eche, se come evoluzione storica è direttamente con-nessa con le culture d’élite del Rinascimento, del Baroc-

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co e del Rococò, in quanto a principî ne è l’opposto.Alle antinomie del Rinascimento e degli stili che neconseguono, al contrasto fra rigorismo formale e natu-ralistico dissolvimento della forma, visione strutturalee pittorica, tendenza statica e dinamica, subentra orail conflitto tra razionalismo e sentimentalismo, mate-rialismo e spiritualismo, classicismo e romanticismo. Leprecedenti antitesi perdono in gran parte il loro signi-ficato, poiché le acquisizioni dell’arte rinascimentale inentrambe le direzioni sono diventate indispensabili:tanto la fedeltà al vero quanto la composizione sonoormai cose ovvie. Il vero problema adesso è se si debbadar la preferenza all’intelletto o al sentimento, almondo obiettivo o all’io, alla conoscenza razionale oall’intuizione. Il Rococò stesso, disgregando il classici-smo tardo-barocco, prepara la nuova alternativa: il suocolorismo, la sua sensibilità al pittoresco e la sua tec-nica «impressionistica» creano uno strumento che,assai meglio del linguaggio formale del Rinascimento edel Barocco, è atto a esprimere l’anima dell’arte bor-ghese. Ma questo suo vigore espressivo finirà coldistruggere il Rococò, che propriamente è l’antitesi piúrecisa di tutto ciò che è sentimentale e irrazionale.Senza questa dialettica tra gli intenti originari e il suc-cessivo sviluppo piú o meno automatico dei mezzi èimpossibile comprendere il senso del Rococò; solo con-siderandolo come il risultato di questo contrasto, cheriflette l’antagonismo della società contemporanea e fasí che il Rococò si ponga come intermediario fra l’arteaulica barocca e il preromanticismo borghese, se neintende la complessa natura.

La cultura edonistica del Rococò, con il suo sensua-le estetismo, sta fra la solennità barocca e la sensibilitàromantica. Alla corte di Luigi XIV la nobiltà glorifica-va ancora un ideale eroico e razionale, sebbene in realtàseguisse per lo piú il suo piacere. Al tempo di Luigi XV

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quella stessa nobiltà professa un edonismo che corri-sponde del resto alle opinioni e al costume della riccaborghesia. Il detto di Talleyrand: «Chi non ha vissutoprima del 1789 non conosce la dolcezza della vita» puòdarci un’idea di come vivessero quelle classi. Per «dol-cezza della vita» s’intende naturalmente la dolcezzadelle donne; come in ogni civiltà edonistica, esse sonoil passatempo prediletto. L’amore ha perduto, insiemealla sua natura «sanamente» istintiva, anche la sua dram-matica passionalità; è raffinato, divertente, trattabile, dapassione è diventato abitudine. Si vogliono vederenudità sempre e dappertutto; il nudo diventa il temaprediletto dell’arte figurativa. Dovunque si guardi, negliaffreschi delle sale di rappresentanza, negli arazzi deisalotti, nei quadri dei boudoirs, nelle incisioni dei libri,nelle porcellane e nei bronzi dei caminetti, non si vedo-no che donne nude, cosce e fianchi tondeggianti, seniscoperti, braccia e gambe intrecciate in amplessi, donnecon uomini e donne con donne, in variazioni e ripeti-zioni infinite. Ci si è tanto abituati alla nudità nell’ar-te, che le ingénues di Greuze risultano eccitanti solo peril fatto che sono vestite. Anche l’ideale della bellezzafemminile muta, facendosi piú piccante e raffinato. Nel-l’età barocca si amava ancora la bellezza matura e opu-lenta, ora si dipingono tenere giovinette, sovente quasiancora bambine. Il Rococò è un’arte erotica destinata agaudenti ricchi e ormai sazi, un mezzo per esaltare lafacoltà di godere dove la natura ha posto un limite algodimento. Solo con l’arte dei ceti medi, con il classici-smo di David e il romanticismo di Géricault e Delacroixtornerà di moda il «normale» tipo della donna in pienorigoglio.

Si assiste col Rococò a una forma estrema de «l’artpour l’art»; il suo sensuale culto della bellezza, indiffe-rente all’espressione spirituale, il suo studiato virtuosi-smo, il suo garbato e melodioso linguaggio formale supe-

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rano qualunque alessandrinismo. Qui «l’art pour l’art»è in certa misura piú schietto e spontaneo che nell’Ot-tocento, perché non è soltanto un programma e un atteg-giamento polemico, ma è il naturale orientamento di unasocietà frivola, stanca e passiva, che nell’arte vuol tro-vare un riposo. Il Rococò è l’ultima fase di una culturamondana dove il principio della bellezza domina asso-luto, l’ultimo stile in cui bello e artistico sono ancorasinonimi. In Watteau, Rameau e Marivaux, e ancora inFragonard, Chardin e Mozart tutto è «bello» e melo-dioso. Ma in Beethoven, David e Delacroix non è piúcosì. L’arte diventa attiva, agonistica, e l’«espressivo»violenta la forma. Inoltre il Rococò è l’ultimo stile uni-versale dell’Occidente; non solo in quanto la sua validitàè generale e, in tutti i paesi d’Europa, si svolge nel-l’ambito di un sistema formale che si può dire omoge-neo, ma in quanto è patrimonio comune di tutti gli arti-sti di talento che lo possono accettare senza contrasti.Dopo il Rococò non si avrà piú un canone formale, néun orientamento stilistico di una validità ugualmenteuniversale. Dall’Ottocento in poi l’intento di ogni sin-golo artista diventa cosí personale, che egli deve con-quistarsi da solo i suoi mezzi espressivi e non può piúattenersi a soluzioni bell’e pronte; per lui ogni formaprestabilita è un intralcio, anziché un aiuto. È vero checon l’impressionismo si ha di nuovo uno stile che pre-senta un suo valore generale, ma anche in questo caso ilrapporto fra lo stile e il singolo artista è sempre un pro-blema e non c’è, qui, una formula come per il Rococò.Nella seconda metà del secolo xviii è avvenuto un muta-mento rivoluzionario: è sorta la moderna borghesia checon il suo individualismo e la sua ricerca dell’originalitàha distrutto l’idea di stile come consapevole e delibera-ta comunità culturale, portando il concetto di proprietàintellettuale al suo significato odierno.

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Al costituirsi delle formule del Rococò e di quel vir-tuosismo tecnico che dà all’arte di un Fragonard e di unGuardi una sicurezza d’esecuzione da sonnambuli, si col-lega anzitutto il nome di Boucher. Egli è il rappresen-tante, magari poco significativo personalmente, di unaconvenzione artistica significativa invece in grado ecce-zionale, e la rappresenta in modo cosí perfetto da eser-citare un influsso non raggiunto da alcuno dopo LeBrun.

È il maestro senza rivali del genere erotico, la pittu-ra piú ricercata dai fermiers généraux, dai nouveaux richese dagli ambienti liberali di corte; è il creatore di quellamitologia galante che, oltre alle fêtes galantes di Watteau,comprende i soggetti piú importanti della pittura rococò.Egli trasferisce i motivi erotici dalla pittura nell’inci-sione e in tutta l’arte minore, e della «peinture des seinset des culs» fa uno stile nazionale. Naturalmente nontutta la Francia interessata all’arte vede in Boucher ilsuo pittore; c’è già nel paese una media borghesia colta,che da un pezzo nel campo della letteratura ha voce incapitolo e ormai anche in arte segue una propria via. Perquesto pubblico Greuze e Chardin dipingono i loro qua-dri didattici e di genere. Se pure i loro clienti non sonosolo nel ceto medio, ma anche fra il pubblico di Bouchere di Fragonard. Del resto quest’ultimo si adegua spessoal gusto che i pittori borghesi cercano di soddisfare epersino in Boucher si trovano motivi non troppo lonta-ni dal loro mondo. La colazione del Louvre, per esem-pio, può essere indicata come una scena di vita borghe-se, sia pure dell’alta borghesia; in ogni caso è un quadrodi genere, non piú di cerimonia.

La rottura di principio con il Rococò avviene nellaseconda metà del secolo; l’abisso fra l’arte aristocraticae quella delle classi medie è evidente. La pittura diGreuze segna l’inizio non solo di un nuovo orienta-mento nella vita e di una nuova morale, ma anche di un

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gusto nuovo – se si vuole, del «cattivo gusto». Le suesentimentali scene di famiglia, con padri che maledico-no i figli traviati o benedicono quelli buoni e ricono-scenti, sono pittura di scarso valore. Non hanno origi-nalità di composizione, né forza di disegno, né bellezzadi colore, e, di piú, la tecnica ne è sgradevolmente liscia.Le sentiamo fredde e vacue nonostante il pathos ecces-sivo, false nonostante l’insistito sentimentalismo. Sonoesigenze quasi del tutto estranee all’arte quelle ch’essecercano di soddisfare; e rappresentano i loro soggetti,che non sono pittorici, ma per lo piú puramente narra-tivi, in modo affatto rozzo, gretto e visivamente ineffi-cace. Diderot le loda, perché illustrano fatti che ingerme contengono interi romanzi36; ma forse si potreb-be affermare con piú ragione ch’esse non contengono senon quel che può stare in un racconto. Sono pittura «let-teraria» nel peggior senso della parola, pittura volgare emoraleggiante, di aneddoti, archetipo dei cattivi pro-dotti dell’Ottocento. Ma non è il loro «carattere bor-ghese» che le fa cosí prive di gusto, benché il mutare deigruppi che determinano il gusto si accompagni natural-mente a un sovvertimento degli antichi criteri che, ben-ché schematizzati, non mancavano di una loro provatavalidità. I quadri di Chardin, pur con la loro modestiaborghese, appartengono al meglio dell’arte settecente-sca. E sono arte borghese assai piú schietta e onesta chenon le opere di Greuze, il quale, con la sua idea con-venzionale del popolo semplice e costumato, la sua apo-teosi della famiglia borghese, l’idealizzazione della fan-ciulla ingenua, esprime i sentimenti e le idee dei cetisuperiori piuttosto che di quelli medi o umili. L’impor-tanza storica di Greuze non è tuttavia minore di quelladi Chardin; nella lotta contro il Rococò dell’aristocraziae dell’alta borghesia le sue armi si rivelano, anzi, le piúefficaci. Diderot può averlo sopravvalutato come pitto-re, mo lo ha giustamente apprezzato come propagandi-

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sta politico. Comunque, egli aveva coscienza che conGreuze era «l’art pour l’art» del Rococò che si mettevain discussione; e quando dichiarava che l’arte deve «ono-rare la virtú e smascherare il vizio», quando della gran-de ruffiana voleva fare una maestra di virtú, quandocondannava Boucher e Vanloo per la loro artificiosità,la loro destrezza vacua, frivola e sventata, per il loro spi-rito libertino, era alla «punizione dei tiranni» che pen-sava o, piú concretamente, pensava a introdurre la bor-ghesia nell’arte, e cosí condurla a conquistarsi un postoal sole. La sua crociata contro l’arte rococò non era cheuna tappa nella storia della Rivoluzione già in corso.

* Gusto aulico.1 paul hazard, La crise de la conscience européenne, 1935, I, pp. i-v

[trad. it., La crisi della coscienza europea, Torino 1946].2 Cfr. bédier-hazard, Histoire de la littérature française, II, 1924, pp.

31-32.3 germain martin, La grande industrie en France sous le règne de

Louis XV, 1900, p. 15.4 f. funck-brentano, L’Ancien régime, 1926, pp. 299-300.5 alexis de tocqueville, L’Ancien régime et la Révolution, 4a ed.,

1859, p. 171.6 henri SÉE, La France économique et sociale au XVIIIe siècle, 1933,

p. 83.7 albert mathiez, La Révolution française, I, 1922, p. 8 [trad. it.,

La Rivoluzione francese, 3 voll., Torino 1950].8 karl kautsky, Die Klassengegensätze im Zeitalter der Französischen

Revolution, 1923, p. 14.9 franz schnabel, Das XVIII. Jahrhundert in Europa, in Das Zeital-

ter des Absolutismus, in Propyläen-Weltgeschichte, VI, 1934 p. 277.10 joseph aynard, La bourgeoisie française, 1934, p. 462.11 f. strowski, La Sagesse française, 1925, p. 20.12 j. aynard, La bourgeoisie française cit., p. 250.13 Ibid., p. 422.14 andré fontaine, Les doctrines d’art en France, 1909, p. 170.15 pierre marcel, La peinture française au début du XVIIIe siècle,

1906, pp. 25-26.

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16 louis réau, Histoire de la peinture française au XVIIIe siècle, I,1925, p. x.

17 louis hourticq, La peinture française au XVIIIe siècle, 1939, p. 15.18 wilhelm von christ, Geschichte der griechischen Literatur, nello

Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft di müller, VII, 2/1,1920, p. 183.

19 francesco macri-leone, La bucolica latina nella letteratura ita-liana del secolo XIV, 1889, p. 15. walter w. greg, Pastoral Poetry andPastoral Drama, 1906, pp. 13-14.

20 t. r. glover, Virgil, 7a ed., 1942, pp. 3-4.21 m. schanz - c. hosius, Geschichte der römischen Literatur, nello

Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft di müller, II, 1935, p.285.

22 w. w. greg, Pastoral Poetry ecc. cit., p. 66.23 j. huizinga, Herbst des Mittelalters, 1928, p. 183 [trad. it., L’au-

tunno del Medioevo, Firenze 1942].24 m. fauriel, Histoire de la poésie provençale, 1846, II, pagine

91-92.25 mussia eisenstadt, Watteaus Fêtes galantes, 1930, p. 98.26 g. lanson, Histoire de la littérature française, 1909, 11a ed., pp.

373-74.27 Cfr. albert dresdner, Von Giorgione zum Rokoko, in «Preussi-

sches Jahrbuch», vol. CXL, 1910. werner weisbach, Et in Arcadia ego.Die antike, VI, 1930, p. 140.

** «In un romanzo frivolo tutto si scusa facilmente... ma la scenaesige un’esatta giustificazione».

28 boileau, L’art poétique, III, vv. 119 sgg.29 pierre marcel, La peinture française ecc. cit., p. 299.*** Generi minori.30 nikolaus pesvner, Academies of Art, 1940, p. 108.31 g. lanson, Histoire de la littérature française cit., p. 374.32 Cfr. petit de julleville, Histoire de la littérature française, IV,

1897, p. 419.33 Ibid., IV, p. 459, V, p. 550.34 emile faguet, Dixhuitième siècle, 1890, p. 123.35 arthur elösser, Das bürgerliche Drama, 1898, p. 65.**** Il gioco dell’amore e del caso.36 diderot, Œuvres, 1821, VIII, p. 243.

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Capitolo secondo

Il nuovo pubblico della letteratura

Nel Settecento la funzione di guida intellettuale passadalla Francia all’Inghilterra, piú progredita nel campoeconomico, sociale e politico. Di qui verso la metà delsecolo parte il grande movimento romantico, ma già l’il-luminismo riceve di qui l’impulso decisivo. Gli scritto-ri francesi dell’epoca scorgono nelle istituzioni inglesi laquintessenza del progresso, intessendo intorno al libe-ralismo inglese una leggenda a cui la realtà corrispondesolo in parte. Il prevalere dell’Inghilterra sulla Francianell’egemonia culturale va di pari passo con la decaden-za della monarchia francese dal primato politico in Euro-pa: cosí la storia del secolo xviii è dominata dall’ascesadell’Inghilterra nel campo politico, come in quello arti-stico e scientifico. L’indebolirsi dell’autorità regia, chein Francia si conclude con la caduta della monarchia, sirisolve, in Inghilterra, in un fattore di potenza, in quan-to qui ceti intraprendenti, che intuiscono le linee mae-stre dello sviluppo economico e vi si adeguano, sono giàpronti ad assumere il potere. Il Parlamento, che ora èlibera espressione delle aspirazioni politiche di questiceti, e costituisce la loro arma piú forte contro l’assolu-tismo, aveva appoggiato i Tudor nella lotta contro lanobiltà feudale, il nemico straniero e la Chiesa romana,poiché le classi medie commercianti e industriali rap-presentate in Parlamento, come anche la nobiltà libera-le, ormai coinvolta nell’attività commerciale della bor-

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ghesia, avevano riconosciuto in quella lotta un aiuto pergiungere ai loro propri scopi. Fin verso la fine del Cin-quecento, fra la monarchia e questi ceti durò una stret-ta comunione d’interessi. Il capitalismo inglese era anco-ra in una fase primitiva, avventurosa, e volentieri i mer-canti partecipavano a imprese di pirateria insieme conuomini di fiducia della Corona. Le vie si divisero soloquando il capitalismo cominciò a seguire metodi piúrazionali e la Corona non ebbe piú bisogno dell’aiutodella borghesia contro la nobiltà ormai piegata. GliStuart, incoraggiati dall’esempio dell’assolutismo conti-nentale e confidando nell’alleanza del re di Francia, sigiocarono con leggerezza la fedeltà delle classi medie el’appoggio del Parlamento. Riabilitarono l’antica nobiltàtrasformandola in nobiltà di corte e assicurando nuovapotenza a questo ceto a cui erano legati da sentimentipiú forti e interessi piú costanti che non alla borghesiae alla nobiltà liberale, antico sostegno dei loro prede-cessori. Fino al 1640 la nobiltà feudale godette notevo-li privilegi e lo stato non solo curava la stabilità dei pos-sessi fondiari, ma cercava di assicurare ai grandi pro-prietari terrieri parte dei profitti nelle imprese capitali-stiche, per mezzo di monopoli e di altre forme di pro-tezionismo. Ma appunto questa prassi tornò a danno delsistema. Le classi economicamente produttive, nient’af-fatto disposte a dividere i loro utili con i favoriti dellaCorona, protestavano contro l’intervento statale e lofacevano in nome della libertà e della giustizia, conti-nuando poi a strombazzare tali parole d’ordine anchequando si furono assicurati i maggiori privilegi econo-mici.

Come osserva Tocqueville, non c’è quasi problemapolitico che non sia connesso con la richiesta o l’appro-vazione d’imposte. In Inghilterra queste dominavano lavita pubblica fin dal Medioevo, e nel Seicento furono lacausa immediata dei moti rivoluzionari. La stessa bor-

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ghesia che aveva senz’altro acconsentito alle imposterichieste dai Tudor, e negli anni della guerra civile s’eramostrata disposta a ulteriori aggravi, le negò a Carlo Iper opposizione alla sua politica reazionaria, dannosa alceto medio. Quando poi Giacomo II, una generazionepiú tardi, richiese ai magistrati della City di protegger-lo da Guglielmo d’Orange, la borghesia di Londra glinegò il suo aiuto e preferí mettere a disposizione del-l’invasore i mezzi necessari per la vittoria. Cominciò cosíquell’alleanza fra monarchia e ceti mercantili, che assi-curò in Inghilterra il trionfo del capitalismo e la stabi-lità della Corona1. Gli ultimi resti del feudalesimo, chela Francia spazzerà via solo cent’anni piú tardi, inInghilterra vengono distrutti già all’epoca della Rivolu-zione, fra il 1640 e il 1660; ma anche qui la rivoluzio-ne fu una lotta di classe, in cui i ceti legati al capitaledifendevano anzitutto i loro interessi economici control’assolutismo, contro la proprietà esclusivamente terrie-ra e contro la Chiesa2. Ma se il grande conflitto chedominò la vita politica inglese del Sei e Settecento fucombattuto tra due blocchi contrapposti, Corona enobiltà di corte da un lato e classi piú o meno interes-sate all’attività capitalistica dall’altro, in realtà erano inlizza almeno tre gruppi diversi, economicamente anta-gonistici: i latifondisti, la borghesia alleata con quellaparte della nobiltà orientata verso il capitalismo, e ilgruppo eterogeneo dei piccoli imprenditori, dei salaria-ti urbani e dei contadini. Ma di quest’ultima categorianel secolo xviii non si parlava gran che, né al Parlamentoné in letteratura.

Il Parlamento che si riuní dopo il 1688 non era certouna «rappresentanza popolare» nel senso odierno; lasua funzione fu quella di costruire un ordinamento capi-talistico sulle rovine di quello feudale, e di assicurare ilpredominio degli elementi economicamente produttivisui ceti parassitari, simpatizzanti con l’assolutismo e la

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gerarchia ecclesiastica. La rivoluzione non ebbe comeconseguenza una nuova distribuzione dei beni econo-mici; creò tuttavia certi diritti di libertà, che si risolse-ro alla fine in un vantaggio per l’intera nazione e pertutto il mondo civile. Infatti questi diritti, anche se daprincipio erano scarsamente fruibili, pure significano lafine della monarchia assoluta e l’inizio di un’evoluzioneche portava in sé il germe della democrazia. Il Parla-mento volle agire soprattutto in senso conservatore, ecosí fece in modo che le elezioni restassero in mano diquella parte della proprietà terriera che era legata a inte-ressi commerciali e dei ceti capitalistici ad essa associa-ti. L’antagonismo tra Whigs e Tories era di secondariaimportanza; i comuni interessi delle classi rappresenta-te in Parlamento erano comunque prevalenti. Ma qua-lunque fosse il partito al governo, la vita politica era gui-data dall’aristocrazia, che influiva in modo decisivo sulleelezioni e riduceva la borghesia alla condizione di satel-lite. Quando il potere passava dai Tories ai Whigs, ciòsignificava soltanto che l’amministrazione favoriva ilcommercio e le sette dissidenti, piuttosto che la pro-prietà terriera e la Chiesa anglicana; ma, pur nel regimeparlamentare, non si usciva dall’oligarchia. I Whigs nonvolevano un Parlamento senza re né privilegi nobiliari,piú di quanto i Tories volessero una monarchia senzaParlamento. Ma nessuno di loro intendeva il Parlamen-to come rappresentanza popolare; lo consideravano sem-plicemente come la garanzia dei loro privilegi di frontealla Corona. E per tutto il secolo xviii esso mantennequesto carattere di classe. A vicenda governavano ilpaese poche dozzine di famiglie tory o whig, che, man-dando il primogenito alla Camera Alta e i cadetti aiComuni, monopolizzavano la politica. Due terzi deideputati erano semplicemente nominati dall’alto e ilresto era eletto da non piú di 160 000 elettori, i cui voti,per giunta, si potevano in parte comprare. Il censo, che

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legava il diritto di voto soprattutto alla rendita fondia-ria, assicurava senz’altro il predominio in Parlamentoalla classe dei proprietari terrieri. Ma, nonostante lelimitazioni del suffragio, il commercio dei voti e la vena-lità dei parlamentari, l’Inghilterra già nel Settecento erauna nazione moderna, che si liberava a poco a poco dairesidui del Medioevo. I suoi cittadini comunque gode-vano di una libertà personale ancora sconosciuta nelresto d’Europa; e gli stessi privilegi sociali, qui legati sol-tanto al possesso della terra e non, come in Francia, amistici diritti del sangue3, erano piú atti a riconciliare iceti piú umili con le distinzioni di classe, già in sé e persé piú elastiche.

L’ordinamento della società inglese nel secolo xviii èstato spesso confrontato con le condizioni di Roma nel-l’ultimo periodo della repubblica, ma il fatto che lastruttura della società romana con la sua classe senato-ria, gli equites e i plebei si ripeta, in certo modo, inInghilterra con le categorie dell’aristocrazia parlamen-tare, dei capitalisti e dei «poveri», non sarebbe in sé eper sé molto significativo: questa tripartizione è uno deitratti distintivi di ogni società già evoluta ma non anco-ra livellata. Ciò che assicura speciale significato al paral-lelo fra l’Inghilterra e Roma è il dominio che l’aristo-crazia esercita sul Parlamento, e il fatto che siano deltutto fluidi i confini tra patrizi e capitalisti. Ma il rap-porto di queste classi con la plebe è abbastanza diversonei due paesi. È, vero che gli autori romani dell’epoca,come quelli inglesi del Settecento non fanno mai cennodei poveri4, ma a Roma il proletariato occupa continua-mente l’attenzione pubblica, mentre è quasi del tuttotrascurato nella politica inglese. Un’altra particolaritàche distingue la società inglese dalla romana – e non sol-tanto da essa – è che la nobiltà, che altrove in circo-stanze analoghe s’impoverisce, in Inghilterra accresce lapropria ricchezza e rimane il ceto piú influente5. È prova

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della sua saggezza politica non solo ch’essa consenta aiborghesi attività di grande profitto ed essa stessa vi par-tecipi, ma che rinunzi spontaneamente ai privilegi fisca-li, a cui l’aristocrazia francese si attacca piú che mai6. InFrancia soltanto la povera gente paga tasse, in Inghil-terra soltanto i ricchi7, il che non migliora sostanzial-mente la condizione dei poveri, ma assicura l’equilibrioal bilancio dello stato, mentre abolisce il privilegio piúodioso della nobiltà. L’aristocrazia mercantile che domi-na in Inghilterra non ha certo sensi e pensieri piú umanidi quelli dell’aristocrazia in genere, ma, grazie all’espe-rienza degli affari, è dotata di maggior realismo e com-prende a tempo che i suoi interessi s’identificano conquelli dello stato. La generale tendenza al livellamento,che si arresterà soltanto di fronte alla differenza traricco e povero, assume in Inghilterra forme piú radica-li che altrove e qui per la prima volta crea rapporti socia-li moderni, fondati essenzialmente sulla proprietà. Fortidisparità nella gerarchia sociale vengono qui evitate nonsolo mediante una serie di gradi intermedi, ma anzitut-to grazie all’indeterminatezza delle singole categorie.L’alta nobiltà inglese – la nobility – è indubbiamente unanobiltà di sangue, ma il titolo di pari è trasmesso esclu-sivamente al primogenito; i cadetti quasi non si distin-guono dal resto della gentry. Ma i confini della piccolanobiltà sono fluidi anche verso il basso. In origine la gen-try s’identificava con i gentiluomini di provincia – conla squirearchy – ma a poco a poco venne comprendendonon soltanto i notabili locali, ma anche tutti gli ele-menti che per ricchezza e cultura si distinguessero dagliesercenti, dai mercantucci e dai «poveri». Il concetto digentleman perdette quindi ogni significato giuridico e ilsuo valore divenne incerto perfino nel riferirsi a undeterminato modo di vita. Il criterio dell’appartenenzaalla classe signorile venne limitandosi quasi esclusiva-mente a un certo livello culturale e all’orientamento

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ideologico. Questo spiega anzitutto un fenomeno vera-mente notevole e cioè che in Inghilterra il trapasso dal-l’aristocratico Rococò al borghese romanticismo avven-ga senza la violenta scossa dei valori culturali che siverifica in Francia e in Germania.

Il livellamento intellettuale in Inghilterra si manife-sta nel modo piú chiaro nel sorgere di uno stabile pub-blico di lettori: una cerchia relativamente ampia, in cuiregolarmente si comprano e si leggono libri, e viene cosíassicurata a un certo numero di scrittori una vita liberada vincoli personali. La nascita di questo pubblico sideve anzitutto all’importanza che assume la borghesiaagiata, che rompe il privilegio aristocratico della cultu-ra e mostra un vivo e sempre crescente interesse per lelettere. Non ci sono in questo nuovo pubblico individuiabbastanza ambiziosi e ricchi da farsi mecenati; ma essoè sufficientemente numeroso da garantire lo smercio dilibri necessario a mantenere gli scrittori. La teoria secon-do cui l’esistenza di questo pubblico si deve alla presenzadi un ceto medio economicamente e politicamenteinfluente viene non di rado contraddetta e in particola-re si obietta che già nel Seicento la borghesia aveva rag-giunto una sua importanza e che pertanto la funzioneculturale che essa acquista nel Settecento non si puòsemplicemente spiegare con la sua migliorata condizio-ne sociale8. È agevole ribattere in questo caso che la cul-tura artistica del Seicento, soprattutto per il puritanesi-mo della borghesia, rimase esclusiva della nobiltà dicorte. Gli altri ambienti rinunziarono alla funzione cheavevano avuto nell’età elisabettiana; quindi piú tardidovettero prima riconquistarsi il loro posto nella cultu-ra, cioè ripercorrere una via sulla quale non potevanoprocedere se non piú lentamente che su quella dell’a-scesa economica e sociale. Il loro benessere dovettediffondersi e consolidarsi, perché la cultura borghese vifondasse la sua egemonia. Infine la nobiltà stessa dovet-

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te far propri certi aspetti della mentalità borghese performare con la borghesia un ceto intellettualmente omo-geneo e rafforzare cosí il nuovo pubblico della lettera-tura; e questo poté avvenire solo quando essa entrònella vita degli affari.

L’antica aristocrazia di corte non dava luogo a unvero pubblico letterario; provvedeva in qualche modo aisuoi poeti, che non considerava produttori di beni indi-spensabili, ma servi alle cui prestazioni in certe circo-stanze si poteva anche rinunziare. Essa li sosteneva piúper motivi di prestigio che per il reale valore dell’operaloro. La lettura alla fine del Seicento non era un passa-tempo molto diffuso; la letteratura profana, fatta ingran parte di storie ormai antiquate d’amori e di avven-ture, non si rivolgeva che a nobili sfaccendati; e i librieruditi non li leggevano che i dotti. La cultura delledonne, che doveva avere una parte cosí importante nellavita letteraria del secolo successivo, lasciava molto adesiderare. È noto, ad esempio, che la figlia maggioredi Milton non sapeva scrivere, e la moglie di Dryden,che pur veniva da una famiglia nobile, era sul piede diguerra con la grammatica e l’ortografia della sua linguamaterna9. Gli unici libri che nel Seicento e agli inizi delSettecento avessero un largo pubblico erano quelli diedificazione; la letteratura amena d’argomento profanocostituiva ancora una parte insignificante della produ-zione libraria10. Il volgersi del pubblico dai libri di devo-zione alla letteratura brillante profana, che del resto finverso il 1720 trattava ancora soprattutto argomentimorali, e solo piú tardi cominciò a imperniarsi su altripiú leggeri, si può, contrariamente all’ipotesi di Schöf-fler11, attribuire solo indirettamente al carattere politi-co assunto dalla Chiesa per opera di Walpole e all’atti-vità illuministica del clero anglicano. La politica libera-le del governo e l’orientamento mondano della ChiesaAlta non erano che sintomi dell’illuminismo, che a sua

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volta era semplicemente l’espressione ideologica deldisgregarsi del feudalesimo e dell’avvento delle classimedie. Ma l’aver chiarito la funzione del clero prote-stante nel diffondere la letteratura profana e nella for-mazione intellettuale del nuovo pubblico12 è tuttaviauno dei piú importanti risultati della moderna sociolo-gia. In effetti senza la propaganda dal pulpito i roman-zi di Defoe e di Richardson non avrebbero raggiuntotanta popolarità.

Verso la metà del secolo il numero dei lettori crescea vista d’occhio; si pubblicano libri in numero sempremaggiore e, a giudicare dalla prosperità del commerciolibrario, debbono trovare compratori. Sullo scorcio delsecolo, la lettura è ormai fra le necessità vitali dei cetisuperiori ed è stato osservato che il possedere libri ètanto naturale negli ambienti descritti da Jane Austen,quanto sarebbe stato strano nel mondo di Fielding13. Losviluppo del nuovo pubblico è favorito in primo luogodai periodici, la grande invenzione del tempo, che sidiffondono dal principio del secolo. La borghesia com-pie su di essi la sua educazione letteraria e mondana,ancora orientata essenzialmente secondo i criteri dell’a-ristocrazia. Anche questa, d’altronde, è molto cambia-ta dai tempi del suo predominio, e ha tratto insegna-mento dalla vittoria dello spirito cittadino e borghese suquello di corte. Tuttavia la tensione fra i due modi dipensare e sentire, aristocratico e borghese, durerà anco-ra a lungo. La mentalità freddamente intellettualistica,la scettica superiorità dell’aristocratico non scompare daun giorno all’altro; si fa ancora sentire in molti modinello stile ricercato e nella morale stoica dei periodiciborghesi. Nella letteratura il gusto classicheggiante simantiene anche piú a lungo che nei giornali: fino allametà del secolo sono considerate qualità letterarie pereccellenza l’ingegnosità e l’arguzia, l’acutezza delle tro-vate e il virtuosismo tecnico, la chiarezza di pensiero e

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la purezza di linguaggio, le qualità insomma che trovia-mo nei seguaci di Pope e nei wits. Del resto nulla è piúindicativo del carattere transitorio di questa cultura, fraaulica e borghese, che quest’esiguo gruppo di letterati edilettanti, impegnati a distinguersi dai comuni mortaliper la cultura classica, il gusto difficile, il frizzo scher-zoso e fatuo. La graduale scomparsa di questi intellet-tuali, di cui certe peculiarità vengono acquisite comenaturale premessa della cultura letteraria, e altre inveceappaiono sempre piú ridicole, e soprattutto il fatto chela loro futile arguzia cede al sano buon senso e la loroeleganza formale all’immediatezza del sentimento, sonotutti fenomeni che rientrano in una fase successiva dellosviluppo storico in cui si compie la completa emancipa-zione del gusto borghese in letteratura. Finalmente cessadel tutto la tensione fra le due correnti e alla letteratu-ra borghese non si oppone piú nulla che possa indicarsicome aulico. Ciò non vuol dire che cessi ogni tensione,o che domini un gusto unico e unanime. Piuttosto si pre-para un nuovo contrasto, che al gusto di una élite intel-lettuale opporrà quello dei lettori comuni; e già da orasi verificano certe deviazioni in cui si possono ricono-scere quelle che saranno piú tardi le debolezze della let-teratura amena.

Il Tatler di Steele, pubblicato a partire dal 1709, loSpectator di Addison che lo sostitui due anni dopo, e isuccessivi «settimanali morali» creano un collegamentoletterario fra il dotto e il lettore comune, piú o menoistruito, fra l’ingegno brillante dell’aristocratico e il buonsenso del borghese; rappresentano quindi una letteratu-ra non aulica né veramente popolare, in cui il severorazionalismo, il rigore morale e l’ideale di rispettabilitàstanno tra la visione cavalleresca dell’aristocrazia e quel-la della borghesia puritana. In questi periodici le brevitrattazioni pseudo-scientifiche e le discussioni di filoso-fia morale offrono la miglior introduzione alla lettura dei

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libri e dànno al pubblico il gusto della letteratura seria;essi fanno della lettura una consuetudine e una necessitàper ceti relativamente larghi. Ma a loro volta i periodicisono una conseguenza diretta della nuova posizionesociale dello scrittore. Dopo la Gloriosa Rivoluzione que-sti non trova piú appoggio alla corte, che ormai non è piúquella d’un tempo e non riavrà mai piú la sua primitivafunzione culturale14. La parte di protettori delle letterepassa al partiti politici e al governo legato all’opinionepubblica. Al tempo di Guglielmo III e di Anna il pote-re è diviso fra Tories e Whigs e i due partiti, costretti auna perpetua gara per l’egemonia politica, non possonorinunziare alla letteratura come arma di propaganda. Gliscrittori stessi, volenti o nolenti, debbono prestarsi aquesto compito; poiché è quasi scomparsa l’antica formadi mecenatismo e il libero mercato librario non può con-tare ancora su un pubblico sufficiente, essi non hannofonti sicure di guadagno al di fuori della propagandapolitica. Così, se Steele e Addison diventano giornalistiche direttamente o indirettamente rappresentano gli inte-ressi dei Whigs, Defoe e Swift si dànno a scrivere libel-li politici e fini politici perseguono anche nei romanzi.L’idea de «l’art pour l’art», se pur fossero stati tali daconcepirla, sarebbe apparsa loro qualcosa di irresponsa-bile e in sé immorale. Robinson è uno scritto a tesi, dipedagogia sociale, e Gulliver una satira contro la societàdell’epoca; entrambi sono nel piú stretto senso dellaparola propaganda politica, e quasi nulla piú. Certo nonè il primo caso di letteratura militante, intesa a immediatifini sociali; ma le «bombe cartacee» di Swift e dei suoicontemporanei sarebbero state inconcepibili prima che siaffermassero la libertà di stampa e la pubblica discussio-ne dell’attualità politica. Solo ora lo scrittore che fa dellasua penna un’arma adatta a ogni necessità, posta al ser-vizio del miglior offerente, appare come normale feno-meno sociale.

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Il fatto che davanti a lui non stia piú una sola forzacompatta, ma due partiti diversi, lo rende in certo modoindipendente, potendo egli scegliersi il padrone, piú omeno secondo le proprie inclinazioni15. Ma che l’uomopolitico lo consideri semplicemente come alleato, questaè per lo piú una finzione utile e lusinghiera per le dueparti. Quanto ai due massimi pubblicisti del tempo,Defoe in sostanza è persuaso di quanto sostiene e, nellapassione di Swift, l’odio è schietto. Il primo, un whig,è profondamente ottimista, l’altro invece, com’è natu-rale per un tory del tempo di Walpole, è amaramentepessimista; l’uno è l’araldo di una borghese e puritanafilosofia della vita, che ha fede in Dio e nel mondo; l’al-tro ostenta sarcastica superiorità, misantropia e disprez-zo del mondo. I due campi politici in cui è divisa l’In-ghilterra, hanno in loro i massimi esponenti letterari.Defoe è figlio di un macellaio di Londra che appartieneai dissenzienti; il puritanesimo dei padri, oppresso mainflessibile, echeggia nei suoi scritti. Egli stesso fu per-seguitato sotto il governo tory, ligio alla Chiesa Alta. Lavittoria dei Whigs giustificherà infine le speranze dellasua classe e dei suoi compagni di fede; ed è proprio gra-zie a lui che l’ottimismo di questa borghesia avrà per laprima volta voce nella letteratura. Robinson Crusoe che,con le sole sue forze, vince la natura riluttante e crea dalnulla benessere, sicurezza, ordine, legge e costume, è ilclassico rappresentante del medio ceto. La storia dellesue avventure è tutto un inno alla solerzia, alla perse-veranza, all’inventiva, al buon senso vittorioso di ognidifficoltà, insomma alle virtù pratiche della borghesia;è l’atto di fede di una classe sociale che tende ad ele-varsi, conscia della propria forza, e a un tempo è il pro-gramma di una giovane e intraprendente nazione tesa aconquistare il mondo. Swift non vede di tutto questoche il rovescio della medaglia; non solo perché egli parteda un altro punto di vista sociale, ma anche perché ha

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ormai perduto la fede ingenua di Defoe. Egli è uno deiprimi a sentirsi deluso dell’illuminismo, e questa suaesperienza esprime in una sorta di Candide iperbolico.È di quegli spiriti che l’odio rende geniali, e vede coseche gli altri non sanno vedere, perché odia piú intensa-mente degli altri e perché, com’egli scrive a Pope, vuoltormentare, non dilettare il mondo. Cosí comporrà illibro piú crudele di questo secolo, che pure non è certopovero di libri crudeli, benché cosí umano e sensibile.È impossibile immaginare qualcosa di piú contrario allafilantropia del Robinson di quest’altro grande «roman-zo per giovinetti» della letteratura inglese, che in cru-deltà può venire superato soltanto dal terzo esempiodel genere, il Don Quijote. Tuttavia certi caratteri sonocomuni al Gulliver e al Robinson. Anzitutto, da un puntodi vista storico-letterario, entrambi risalgono a quei fan-tastici romanzi di viaggi e a quelle utopiche storie mera-vigliose cosí care al Rinascimento, di cui gli autori piúnoti sono Cyrano de Bergerac, Campanella e TommasoMoro. Inoltre essi hanno al loro centro gli stessi pro-blemi filosofici, in particolare quelli sull’origine e il valo-re della civiltà umana. Solo in un tempo in cui le basisociali della civiltà cominciavano a vacillare questi pro-blemi potevano acquistare l’importanza che hanno perDefoe e per Swift, e solo perché furono diretti testimonidell’assurgere di una nuova classe alla direzione della cul-tura essi poterono giungere a una formulazione cosínetta dell’idea che le diverse civiltà sono strettamentecondizionate dai fattori sociali.

Con lo sviluppo della letteratura di propaganda, sitrasforma radicalmente la posizione economica e socia-le dello scrittore. Ora che, in premio dei suoi servigi, glisono concessi alti uffici e ricchi compensi, cresce agliocchi del pubblico anche il suo valore morale. Addisonsposa una contessa di Warwick, Swift è in rapporti ami-chevoli con personalità come Bolinbroke e Harley, e al

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Kitcat Club un conte di Sunderland e un duca di New-castle trattano alla pari Vanbrough e Congreve. Ma nondobbiamo mai dimenticare che questi scrittori sonoapprezzati e rimunerati unicamente per i loro servigipolitici e non per le loro qualità letterarie o morali16. Epoiché sono gli uomini politici ora a disporre delle ricom-pense agli scrittori, soprattutto sotto forma di alti impie-ghi, i partiti e il governo assumono, nella letteratura, laposizione che un tempo avevano i circoli di corte e il re.Ma il prezzo ch’essi pagano è piú alto e i premi che toc-cano agli autori sono maggiori del compenso che unavolta si concedeva a un poeta. Locke è commissariodella Corte d’Appello e della Camera di Commercio,Steele esercita una funzione analoga presso l’Ufficio delBollo, Addison diventa segretario di stato e quandolascia l’ufficio gli viene assegnata una pensione di mil-leseicento sterline; Granville è membro della Camera deiComuni, diventa ministro della guerra e tesoriere dellacasa reale, Prior ottiene una legazione e Defoe vieneincaricato di varie missioni politiche17. Mai e in nessunluogo come nell’Inghilterra del Settecento tanti scritto-ri vennero insigniti di cosí alti uffici e dignità.

Questa situazione di eccezionale favore per gli scrit-tori giunge all’apogeo negli ultimi tempi della reginaAnna e cessa del tutto con il ministero, Walpole, nel1721. Con l’avvento al potere dei Whigs si creano con-dizioni per cui i letterati diventano inutili al governo, efinisce bruscamente il mecenatismo politico. L’egemo-nia del partito al governo appare cosí solida da poter farea meno di ogni propaganda; e d’altronde l’influsso deiTories è cosí scarso ch’essi non possono ricompensare gliscrittori per i loro servigi. Walpole, personalmente estra-neo alla letteratura, non ha certo denaro superfluo néimpieghi disponibili per gli autori. I posti piú lucratividebbono esser concessi ai deputati, il cui appoggio ènecessario in Parlamento, o a elementi di quei collegi

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elettorali, che si vogliono gratificare. D’altronde si ègiunti al punto che, per quanti scrittori si soddisfino, cen’è sempre di malcontenti, e nessuno ha tra loro tantiavversari come Halifax, il generosissimo mecenate18. Sifa il silenzio intorno ai poeti e ai letterati. Pope, Addi-son, Steele, Swift, Prior si allontanano dalla capitale edalla vita pubblica, e tutt’al piú continuano a scriverenella solitudine della campagna. La situazione economi-ca dei giovani peggiora rapidamente. Thomson è cosípovero che deve vendere un canto delle sue Seasons* percomprarsi un paio di scarpe, e anche Johnson agli inizideve lottare con la piú amara indigenza. Il letterato nonè piú un gentleman; con la sicurezza economica, tra-montano reputazione e dignità. Egli acquista cattivemaniere, conduce una vita sregolata, diventa infido; esi finisce con tipi come Savage, impossibili al tempodella cultura di corte, e in certo modo precursori dellamoderna bohème.

Per fortuna il mecenatismo privato non cessa cosíall’improvviso come quello politico. L’antica tradizionearistocratica non si era mai del tutto interrotta, e, ades-so che gli scrittori possono e debbono volgersi nuova-mente ai privati, essa rifiorisce. Il nuovo mecenatismo,in verità, non è diffuso come l’antico, ma in generale saorientarsi con maggior competenza, sí che presto o tardiogni scrittore di talento trova un mecenate, purché ci simetta d’impegno19. Comunque, in questa fase di pas-saggio dalla propaganda politica alla libera professioneletteraria, erano pochi gli scrittori che potevano fare ameno dell’appoggio privato. Le recriminazioni contro isistemi del patronato erano continue, ma non si sa dinessuno che abbia avuto il coraggio di affrancarsene.Eppure era meno scomodo dipendere da un mecenateche da un editore, sebbene il carattere piú personale delvincolo lo rendesse spesso in apparenza piú umiliante.Infatti anche Johnson, che per tutta la vita rifiutò di pro-

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curarsi un mecenate, e aveva poca stima del mecenati-smo come istituzione, ammetteva che si potesse esserprotetti da un gran signore, pur conservando la propriaindipendenza. In questo senso i rapporti di Fielding conil suo protettore costituiscono una prova innegabile. Gliscrittori senza appoggi privati per lo piú dovevano lavo-rare a giornata, assumendosi traduzioni, compendi, revi-sioni, correzioni di bozze, collaborando a riviste e aenciclopedie popolari. Anche Johnson, il futuro arbitrodella letteratura inglese, cominciò cosí la sua carriera, dapovero coolie. Non si può includere in nessuna di que-ste categorie Pope, che apparentemente resta libero daogni vincolo esterno, ma in realtà è al servizio di quel-l’aristocrazia che acquista i suoi libri per sottoscrizionee lo considera a buon diritto come suo. Col risorgere delmecenatismo privato, torna a diminuire la considera-zione per lo scrittore di professione, e lo prova l’atteg-giamento di uomini come Horace Walpole e lord Che-sterfield, pur dotati di vasta cultura letteraria. La notafrase di quest’ultimo: «We, my lords, may thank Hea-ven that we have something better than our brains todepend upon»** caratterizza ottimamente l’opinionedominante. Ma anche una parte degli autori la pensanocosí e si dànno l’aria di scrivere per signorile diletto. Aquesta categoria appartiene Congreve, che vuol essereconsiderato da Voltaire soprattutto come gentleman enon come scrittore.

Il mecenatismo cessa dopo la metà del secolo e versoil 1780 non c’è piú scrittore che conti su appoggi privati.

Il numero dei poeti e dei letterati indipendenti, chevivono della loro penna, aumenta di giorno in giorno,come il numero di coloro che leggono e comprano librifuori d’ogni rapporto personale con l’autore. Johnson eGoldsmith ormai scrivono solo per costoro. Al mecena-te subentra l’editore; la sottoscrizione, che molto giu-stamente è stata detta una specie di mecenatismo col-

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lettivo, costituisce la forma di passaggio20. Il mecenati-smo è la forma schiettamente aristocratica del rapportofra scrittore e pubblico; la sottoscrizione, pur allentan-do il legame, ne conserva in parte il carattere persona-le; solo il libro stampato per il gran pubblico affatto sco-nosciuto all’autore corrisponde alla struttura dellasocietà borghese, fondata sulla circolazione anonimadelle merci. La funzione dell’editoria come mediatricefra autore e pubblico comincia quando il gusto borghe-se si viene emancipando dai canoni aristocratici, anzi diquesto fenomeno essa è un chiaro sintomo. Solo allorasi sviluppa una vita letteraria in senso moderno, di cui,oltre la regolare pubblicazione di libri, giornali e riviste,fa parte anche l’esperto di letteratura, in particolare ilcritico che rappresenta il livello medio del gusto e l’o-pinione pubblica. Ai precursori dei letterati settecente-schi, specialmente agli umanisti del Rinascimento, que-sta funzione era negata, anche solo per la mancanzadella stampa periodica, cioè del mezzo veramente ido-neo per influenzare il pubblico.

Fino a mezzo il secolo xviii gli scrittori non erano vis-suti dei proventi diretti dell’opera loro, ma di pensioni,prebende, sinecure, spesso indipendenti sia dall’intrin-seco valore, che dalla popolarità dei loro scritti. Solo orail prodotto letterario diventa merce, il cui valore dipen-de dalla richiesta sul libero mercato. Si può salutarequesto mutamento con soddisfazione o con rammarico;comunque è certo che la trasformazione della profes-sione di scrittore in attività indipendente e regolaresarebbe stata inconcepibile, nell’epoca del capitalismo,senza la metamorfosi della prestazione personale inmerce impersonale. Solo per questa via i letterati hannopotuto conquistarsi una salda base economica e quelladignità che l’epoca moderna riconosce alla loro profes-sione; infatti chi compra un libro pubblicato in un’edi-zione di mille esemplari non fa, almeno direttamente,

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una grazia all’autore, mentre il compenso per un mano-scritto ha sempre l’aria di un’elemosina. Al tempo dellecorti e dell’aristocrazia la rispettabilità di un uomodipendeva dal rango del suo protettore; ora, in epocaliberale e capitalistica, egli gode tanto maggior prestigioquanto piú è libero da vincoli personali e quanto piú èfortunato in rapporti fondati unicamente sulla recipro-cità delle prestazioni. La manovalanza letteraria nonscompare affatto, ma la richiesta di scritti ameni e istrut-tivi, specialmente di enciclopedie storiche, biografichee statistiche, è cosí grande che qualunque mediocre auto-re può contare su un provento sicuro21. In imprese come«La fabbrica letteraria» di Smollett, dove si lavora con-temporaneamente a una traduzione del Don Quijote, auna storia d’Inghilterra, a un compendio di viaggi e auna traduzione delle opere di Voltaire, c’è lavoro perchiunque sappia tener la penna22. Si parla molto dellosfruttamento degli scrittori a quell’epoca, e certo glieditori non erano filantropi: ma Johnson afferma a lorolode che erano soci corretti e generosi, e sappiamo chegli autori noti e in voga ottenevano per l’opera lorosomme che appaiono considerevoli anche riferite allecondizioni odierne. Hume, ad esempio, con la sua Sto-ria di Gran Bretagna (1754-61) guadagnò tremilaquat-trocento sterline, e Smollett con la sua opera storica(1757-65), duemila. Sono cambiate le cose dai tempi diDefoe, che per il manoscritto del Robinson dapprimanon riuscí a trovare editori e finalmente ne ricavò diecisterline. Con la conquista dell’indipendenza economicail prestigio dello scrittore sale a un’altezza finora igno-ta. Nel Rinascimento il poeta o l’umanista celebre era,sì, onorato ed esaltato, ma i mediocri venivano confusicon gli scrivani e i segretari privati. Solo adesso lo scrit-tore in quanto tale gode la stima che spetta al rappre-sentante di una sfera superiore; e il Dorat fa dire a unfilosofo in una sua commedia: «Nous protégeons les

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grands protecteurs d’autrefois»***23. Soltanto ora nascel’ideale della personalità creatrice, del genio artisticocon una sua originalità e una sua gelosa soggettività, cosícome lo caratterizza Edward Young nelle sue Conjectu-res on Original Composition**** (1759).

Questo motivo del carattere geniale della creazioneartistica per lo piú non è che un’arma contro la concor-renza, e il soggettivismo dell’espressione è spesso unasemplice forma di autopubblicità. In ogni modo, il sog-gettivismo dei poeti preromantici è, almeno in parte,una conseguenza del crescente numero degli scrittori,della loro situazione strettamente legata al mercato libra-rio ed alla reciproca concorrenza, proprio come il movi-mento romantico, in quanto espressione spiccatamentepassionale del nuovo modo di sentire borghese, è il pro-dotto di una concorrenza intellettuale e un’arma dellaborghesia contro la mentalità aristocratica, classicheg-giante e incline alle regole e ai canoni generali. Finorala classe media si sforzava di far proprio il linguaggioartistico dei ceti superiori; ora invece, che è giunta a ungrado di ricchezza e influenza che le consente di avereuna sua propria letteratura, vuole imporre le proprieconcezioni e parlare la sua lingua: e non sarà piú la sem-plice negazione dell’intellettualismo aristocratico, ma illinguaggio della sensibilità. La rivolta del sentimentocontro il freddo intelletto rientra, come del resto l’in-sorgere del «genio» contro la costrizione di regole e for-mule, nell’ideologia dei ceti ambiziosi e progressivi nellaloro lotta contro lo spirito conservatore e convenziona-le. L’ascesa della moderna borghesia, come quella deiministeriales nel Medioevo, è legata a un movimentoromantico; il sovvertimento sociale, oggi come allora,finisce col dissolvere i vincoli formali, maturando unapiú profonda sensibilità.

Si è spesso parlato dell’evoluzione che dall’intellet-tualismo della cultura classicheggiante porta al senti-

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mentalismo romantico come di un cambiamento di gustoprovocato dal tedio degli ambienti piú elevati per un’ar-te raffinata e decadente. Giustamente però si è obiet-tato che il desiderio di novità in sé è un fattore relati-vamente secondario nel mutare degli stili, e che unatradizione di gusto, quanto piú è antica ed evoluta,tanto meno è incline di suo ai cambiamenti. Un nuovostile quindi si fa strada a fatica, quando non si rivolge aun pubblico nuovo24. L’aristocrazia del Settecento,comunque, forse non avrebbe avuto fondati motivi perrinunziare al proprio gusto, se la classe media non sifosse impadronita dell’iniziativa culturale. Essa difattinon era per nulla disposta a sottomettersi senz’altro aquesta iniziativa, né a condividere il sentimentalismo deiceti inferiori. Ma sappiamo che spesso la tendenza pre-dominante di un’epoca ottiene l’adesione anche di queiceti, ch’essa minaccia di distruggere. E proprio per que-sto fenomeno il Settecento è esemplare. Si sa che l’ari-stocrazia contribuí in modo eminente a preparare laRivoluzione e se ne spaventò soltanto quando fu chiaroche cosa significasse la sua vittoria. Una funzione ana-loga l’alta società ebbe nello sviluppo della cultura anti-classica. Nell’assimilare e nel propagare le idee dell’illu-minismo essa gareggiò con il ceto medio, spesso supe-randolo; soltanto la tempra di Rousseau, francamenteplebea e irriverente, l’indusse a riflettere e a reagire. Edi questa reazione è già un segno l’ostilità di Voltaireverso Rousseau. Ma per lo piú nelle personalità piú emi-nenti fin dall’inizio si ritrovano intrecciati elementirazionalistici e sentimentali; la loro finezza intellettua-le le rende in certo modo insensibili ai loro propri inte-ressi di classe. L’evoluzione dell’arte, già scarsamenteunitaria nel Seicento, si fa, in quest’epoca preromanti-ca, ancora piú complicata e, per certi riguardi, presentaun quadro persino piú oscuro che nel periodo successi-vo. L’Ottocento è ormai interamente dominato dalla

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borghesia in cui sono ben nette le distinzioni economi-che, ma non troppo quelle culturali; l’unica divisioneveramente profonda è quella che separa i ceti che godo-no del privilegio della cultura da quelli che ne sonoesclusi. Invece nel Settecento sia l’aristocrazia, sia laborghesia sono divise in due campi: all’interno di ognu-no di questi ceti si ha un gruppo conservatore e unoinnovatore che, pur incrociandosi in molte guise, con-servano il proprio carattere.

Per l’origine, il romanticismo è un movimento ingle-se; come del resto la borghesia moderna, che in Inghil-terra per la prima volta arriva a creare una sua espres-sione letteraria indipendente dall’aristocrazia, è un pro-dotto della situazione inglese. La poesia della natura diThomson, i canti notturni di Young e le elegie ossiani-che di Macpherson, come il sentimentale romanzo dicostume di Richardson, Fielding e Sterne non sono chel’espressione letteraria dell’individualismo, di cui altreespressioni sono il laissez-faire e la rivoluzione indu-striale. Sono fenomeni di quell’epoca di guerre com-merciali, con cui termina il trentennio di pacifico gover-no whig, e che alla Francia costa l’egemonia sull’Euro-pa. Alla fine della contesa, l’impero britannico non sol-tanto è la prima potenza mondiale, non solo nel com-mercio internazionale ha lo stesso posto di Venezia nelMedioevo, della Spagna nel Cinquecento, della Franciae dell’Olanda nel Seicento; ma, contrariamente a quan-to era accaduto a queste ultime, conserva all’interno lasua forza25 e le conquiste tecniche della rivoluzione indu-striale gli permettono di proseguire la lotta per l’ege-monia economica. Le vittorie militari, le scoperte geo-grafiche, i nuovi mercati e le nuove vie marittime, i capi-tali relativamente cospicui in cerca d’investimenti: eccole premesse di quella rivoluzione. Il rapido susseguirsidelle invenzioni non si può spiegare soltanto con lo svi-luppo delle scienze esatte e l’improvviso sorgere di doti

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tecniche. Le invenzioni si fanno perché si sanno utiliz-zare, perché c’è una richiesta di prodotti industriali chenon può venir soddisfatta con gli antichi metodi, e per-ché si dispone dei mezzi materiali per il rinnovamentotecnico. Finora nella storia della scienza si era prestatascarsa attenzione alle possibili applicazioni industriali;solo a partire dall’ultimo terzo del Settecento la ricercaè dominata dall’indirizzo tecnologico. Tuttavia la rivo-luzione industriale non apre un’era completamentenuova. Piuttosto essa continua uno sviluppo iniziatosisin dalla fine del Medioevo. Non è una novità la scis-sione tra capitale e lavoro, né l’organizzazione indu-striale della produzione; da secoli c’erano macchine, e,da quando esisteva un’economia orientata in senso capi-talistico, continuo era il progresso dei metodi razionalinella produzione. Ma ora questa si meccanizza e sirazionalizza in modo decisivo, entrando in una fase cheliquida affatto il passato. L’abisso tra capitale e lavorosi fa incolmabile e sia il dominio del capitale, sia l’op-pressione e la miseria del lavoratore crescono fino amutare tutto il colore della vita. Quindi, per quantoantichi siano gli inizi di quest’evoluzione, è pur vero chealla fine del Settecento sorge un mondo nuovo.

Solo adesso scompare il Medioevo con tutti i suoiresidui – lo spirito corporativo, i suoi modi di vita par-ticolaristici, i sistemi di produzione irrazionali e tradi-zionali – per far posto a un’organizzazione di lavoro uni-camente fondata sul metodo e sul calcolo, e a uno spie-tato individualismo nella concorrenza. Con la grandeindustria cosí organizzata secondo criteri di rigorosarazionalità, si apre l’età moderna nel vero senso dellaparola, l’età della macchina. Con essa sorge una nuovaforma di azienda determinata dai mezzi meccanici, dallarigida divisione del lavoro, dall’adattamento alla pro-duzione in massa. Dal carattere impersonale del lavoro,che prescinde ormai dalle particolari attitudini del lavo-

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ratore, deriva la sempre piú fredda obiettività del rap-porto fra imprenditore e prestatore d’opera. L’accen-trarsi degli operai nelle città industriali, in balia delleoscillazioni sul mercato del lavoro, introduce condizio-ni piú dure e forme di vita meno libere. Il capitalista,legato a una solida impresa, si forma un nuovo, piú rigi-do ethos professionale; invece l’operaio, che non si sentelegato in alcun modo alla fabbrica, smarrisce il sensoetico del lavoro. Sorge infine una nuova struttura socia-le: un nuovo ceto capitalistico (gl’imprenditori moder-ni), un nuovo ceto medio urbano dall’esistenza precaria(gli eredi dei piccoli commercianti e artigiani), e unanuova classe di lavoratori (il moderno proletariato indu-striale). Si perdono le antiche distinzioni di mestiere eil livellamento è spaventoso, specialmente nei gradi piúbassi. Artigiani, giornalieri, contadini senza terra e inur-bati, operai provetti e inesperti, uomini, donne, fan-ciulli, tutti diventano semplici manovali in una grandeindustria che funziona macchinalmente, con regolamentida caserma. La vita perde stabilità e continuità, ogni suaforma e ogni suo ordinamento vengono sconvolti, senzaricomporsi in un nuovo equilibrio. Un primo fattore disconvolgimento sociale è rappresentato dall’urbanesi-mo. Mentre le «recinzioni» e la commercializzazionedell’economia agricola producono disoccupazione, lenuove industrie per contro offrono nuove occasioni dilavoro: si spopola quindi il villaggio e si sovrappopola lacittà industriale, che con le sue proporzioni e il suoaffollamento rappresenta per le masse degli spostati unambiente affatto insolito e sconcertante. Le città asso-migliano a grandi campi di lavoro o a prigioni, sono sco-mode, sporche, malsane e incredibilmente brutte26. Lavita della classe lavoratrice vi scende a un livello cosíbasso, che in confronto quella del servo medievale sem-bra perfino idillica.

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Per condurre un’industria in modo da poter sostene-re la concorrenza occorre un capitale cospicuo; e questoprovoca una radicale scissione del lavoro dai mezzi diproduzione e quindi quella lotta fra capitale e lavoro cheè caratteristica della vita moderna. Poiché soltanto ilcapitalista può disporre dei mezzi di produzione, al lavo-ratore non rimane che offrire sul mercato le sue braccia,esponendosi al rischio di continue fluttuazioni dei sala-ri e della disoccupazione periodica. La fabbrica con lasua concorrenza non travolge soltanto il proletariatooperaio, ma anche le piccole aziende artigiane, che per-dono l’indipendenza e ogni sicurezza. Del resto, il nuovomodo di produzione annienta anche la tranquillità e lasicurezza delle classi possidenti. La principale forma diricchezza era stata finora la proprietà terriera che sol-tanto lentamente e con molte esitazioni si trasformavain capitale commerciale e bancario; per altro anche ilcapitale mobile interveniva nell’industria solo in picco-la parte27. Solo dopo il 1760 l’impresa industriale diven-ta la forma preferita d’investimento. L’esercizio di unafabbrica con i suoi impianti di macchine, il suo consu-mo di materiale e il suo esercito di operai, esige tutta-via mezzi sempre piú grandi e provoca un’accumulazio-ne di capitale piú forte che le forme precedenti di pro-duzione. Con la concentrazione ormai sempre crescen-te della ricchezza e con gl’investimenti industrialicomincia il grande capitalismo28. Ma cosí il processocapitalistico entra nella fase della grande speculazione.Prima l’economia rurale non conosceva né il rischio delcapitale né la speculazione, e perfino nel commercio enella finanza l’audacia non era frequente; a poco a pocole nuove industrie prendono la mano ai capitalisti espesso gli imprenditori giocano poste troppo forti perpoterne sopportare agevolmente la perdita. Una vitacosí precaria genera, pur nell’effettiva prosperità, uno

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stato d’animo da cui scompare irrimediabilmente l’an-tico ottimismo.

Il nuovo tipo del capitalista – il capitano d’industria –con la sua nuova funzione sviluppa nella vita economi-ca nuove attitudini, ma anzitutto una nuova disciplinae una nuova valutazione del lavoro. Egli in certo modofa passare in seconda linea gli interessi commerciali,dedicandosi tutto all’organizzazione interna della suaimpresa. Il principio della convenienza, del metodo e delcomputo, importante fin dal secolo xv nell’economia deimaggiori paesi, ora diventa esclusivo. L’imprenditore visi sottomette non meno inesorabilmente dei suoi operaie impiegati, e diventa schiavo dell’officina al pari deisuoi dipendenti29. L’idealizzazione del lavoro come forzaetica, l’esaltazione e il culto di cui lo si fa oggetto nonsono, in fondo, che la trasfigurazione ideologica dellabrama di successo e di guadagno, e un mezzo con cui sitenta di spronare a una cooperazione entusiastica anchequegli elementi che meno partecipano ai frutti del pro-prio lavoro. Nell’ambito della stessa ideologia rientraanche l’idea di libertà. Per il rischio connaturato alla suaattività, l’industriale deve godere di completa indipen-denza e libertà di movimento, cosí da non essere impe-dito da alcuna ingerenza dall’esterno, né danneggiatorispetto ai concorrenti da alcun provvedimento statale.Nel trionfo di questo principio sull’antica legislazionemedievale e mercantilistica consiste essenzialmente larivoluzione industriale30. Solo con il principio del lais-sez-faire comincia l’economia moderna, e l’idea dellalibertà individuale si afferma soltanto come ideologia delliberismo. Il che veramente non impedisce che l’idea dellavoro, e quella stessa della libertà, si evolvano succes-sivamente in valori etici autonomi e vengano spessointese in senso veramente idealistico.

Ma per non dimenticare quanto poco di idealistico vifosse all’origine del liberismo, basta tener presente che

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la rivendicazione di libertà per l’industria era anzituttorivolta contro l’artigiano qualificato, che cosí veniva aessere privato dell’unico vantaggio ch’egli avesse di fron-te all’imprenditore. Lo stesso Adam Smith era ancoraben lontano dal ricorrere a motivi ideali per giustifica-re la libera concorrenza: egli scorgeva anzi nell’egoismoe nell’interesse personale la miglior garanzia per un per-fetto funzionamento dell’organismo economico e per ilpubblico bene. Per questa fede nell’autodisciplina del-l’economia e nell’automatico equilibrio degli interessi civoleva tutto l’ottimismo illuministico; appena questocominciò a languire, divenne sempre piú difficile iden-tificare la libertà economica con l’interesse generale escorgere nella libera concorrenza una benedizione pertutti.

Il distacco dell’autore dalle sue figure, la sua posi-zione severamente intellettualistica di fronte al mondo,il suo ritegno nei rapporti con il lettore, insomma il suoriserbo classico-aristocratico cessa appunto quando si fastrada il liberismo. Il principio della libera concorrenzae il diritto all’iniziativa personale hanno il loro paralle-lo nel desiderio dell’autore di esprimere i suoi propriaffetti, di affermare la sua personalità, facendo del let-tore un testimonio diretto di un’intima lotta dell’animae della coscienza. Non si tratta soltanto di una versioneletteraria del liberismo, ma anche di una protesta con-tro quel meccanico, impersonale livellamento della vitaproprio dell’economia abbandonata a se stessa. L’indi-vidualismo traduce il laissez-faire nella vita morale, manello stesso tempo protesta contro una società in cui gliuomini, avulsi dalle loro inclinazioni personali, non sonopiú che esponenti di funzioni indifferenti, compratori dimerci standardizzate, comparse in un mondo semprepiú livellato. Le due forme fondamentali della causalitàsociale, l’imitazione e l’opposizione, si uniscono percreare il clima del romanticismo. Il suo individualismo

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è una protesta delle classi progressiste contro l’assoluti-smo e l’intervento statale, ma anche una protesta con-tro i fenomeni concomitanti e le conseguenze di quellarivoluzione industriale, che pure segna la definitivaemancipazione della borghesia. Il romanticismo palesa ilsuo carattere polemico, soprattutto nel fatto che nonsolo assume forme individualistiche, ma fa dell’indivi-dualismo un programma. Il suo ideale della personalità,come la sua visione generale, si formula dapprima comecontraddizione e negazione. Individui forti e ostinatic’erano sempre stati e fin dal Rinascimento l’uomo occi-dentale è conscio della propria individualità; ma un indi-vidualismo come rivendicazione e protesta contro unaforma di civiltà che spersonalizza l’uomo si dà soltantodalla metà del secolo xviii. Anche nella letteratura, natu-ralmente, già in epoche anteriori si erano espressi con-flitti tra l’io e il mondo, l’individuo e la società, il cit-tadino e lo stato; ma l’antagonismo non era mai sentitocome conseguenza dell’urto fra il carattere del perso-naggio e la collettività. Nel dramma, per esempio, il con-flitto non risultava dal tema del singolo che si isola perprincipio dalla società, o di una cosciente rivolta controi vincoli sociali, ma da un concreto, personale contrastotra i vari personaggi. La teoria che interpreta la tragicitàdel dramma antico partendo dall’idea d’individuazione,teoria del tutto arbitraria, si rivela, a ben considerare,una costruzione dell’estetica romantica, insostenibile,per quanto suggestiva. Prima dell’età romantica l’indi-vidualismo come comportamento non era mai diventatoun problema, e quindi non poteva neppure diventaretema di un conflitto drammatico.

Come l’individualismo, anche il sentimentalismoserve alle classi medie anzitutto come un mezzo peresprimere la loro indipendenza spirituale dall’aristocra-zia. Si affermano e si accentuano i propri sentimenti nonperché d’un tratto siano divenuti piú forti e piú intimi;

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si esagerano attraverso l’autosuggestione, in quanto essirappresentano un atteggiamento opposto al contegnoaristocratico. Il borghese cosí a lungo disprezzato sispecchia nella propria vita psichica e si vede tanto piúimportante quanto piú seriamente considera i suoi sen-timenti, stati d’animo, impulsi. Certo fra la media e lapiccola borghesia, dove questo sentimentalismo ha le piúprofonde radici, il culto dei sentimenti non è solo unpremio d’assicurazione per il successo, ma insieme unindennizzo per l’insuccesso nella vita pratica. Ma appe-na trovata la sua espressione artistica, il nuovo indiriz-zo si affranca piú o meno dalla sua origine e va per lasua strada. Il sentimentalismo, che all’inizio era espres-sione della coscienza di classe della borghesia ed era daintendere come un rifiuto dell’alterigia aristocratica, sisviluppa poi in un culto della sensibilità e della sponta-neità, che sempre meno ha a vedere con lo spirito antia-ristocratico. Da principio ci si abbandona all’esuberan-za del sentimento, proprio per contrasto all’aristocraziacontegnosa e padrona di sé; ben presto però la ricchez-za affettiva e il calore espressivo assurgono a valori arti-stici e come tali l’aristocrazia li accetta. Deliberatamentesi ricercano le forti commozioni e a poco a poco si giun-ge a un vero virtuosismo sentimentale; ci si strugge dicompassione e alla fine l’arte sembra non aver altroscopo che di muovere gli affetti e svegliare le simpatie.Il sentimento diventa il veicolo piú sicuro fra artista epubblico, e il mezzo piú efficace per l’interpretazionedella realtà; respingere l’espressione dei sentimenti signi-fica ormai rinunciare senz’altro all’effetto artistico, edessere insensibile equivale ad essere ottuso.

L’austerità del costume, come l’individualismo e ilsentimentalismo, è per la borghesia un’arma contro lamentalità di corte. Ma piú che di una semplice conti-nuazione delle antiche virtú borghesi della semplicità,dirittura e pietà, si tratta di una protesta contro la fri-

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volezza e lo spreco di un ceto della cui leggerezza gli altridevono fare le spese. Specie in Germania, la borghesiaostenta la propria morigeratezza soprattutto contro l’im-moralità dei principi, ch’essa osa attaccare soltanto inquesto modo indiretto. Ma non è neppur necessario par-lare apertamente della loro corruzione; basta lodare icostumi del borghese, perché ognuno capisca il riferi-mento31. Del resto si verifica anche qui il solito feno-meno del Settecento: l’aristocrazia accetta le vedute e icriteri borghesi; anch’essa segue la moda della virtú,come già quella della sensibilità. Ad eccezione di alcunispecialisti del genere osceno, neppure i romanzieri fran-cesi ci tengono, ormai, ad aver fama di frivolezza. Ades-so il pubblico desidera l’esaltazione della virtú e la con-danna del vizio. Forse anche Rousseau avrebbe dedica-to meno spazio alle prediche morali, se non avesse sapu-to che Richardson doveva gran parte del suo successo atali excursus32.

Ma se la tendenza all’individualismo, al sentimenta-lismo, al moralismo, era in certa misura connaturata allamentalità borghese, la letteratura preromantica comun-que valse a suscitare altre tendenze, affatto estranee aquesto primitivo orientamento: anzitutto, in contrastocon l’ottimismo di un tempo, l’inclinazione alla malin-conia, allo stato d’animo elegiaco, anzi a un deciso pes-simismo. Questo fenomeno non si spiega con un natura-le mutamento intimo, bensí con spostamenti e sovverti-menti dell’equilibrio sociale. Anzitutto gli esponenti delmovimento romantico non appartengono piú ai medesi-mi ceti che nella prima metà del secolo fornivano il con-tingente borghese al pubblico letterario. Si fanno avan-ti ora i ceti piú umili, che non hanno alcun contatto intel-lettuale con l’aristocrazia e hanno meno ragioni di otti-mismo della borghesia, che ormai appartiene ai ceti eco-nomicamente privilegiati. Ma anche l’antico pubblico,quei borghesi cosí vicini alla nobiltà, avevano assunto un

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nuovo atteggiamento spirituale. L’euforia della vittoria,la sicurezza, la fiducia in sé, quasi illimitate all’epoca deiprimi successi, ristagnano e alla fine si volatilizzano. Cisi avvezza ai beni acquistati, si comincia a prendercoscienza di quanto manca, e forse si sente già la pres-sione, carica di minaccia, dei ceti inferiori. Certo la mise-ria degli sfruttati diventa inquietante e opprimente. Unaprofonda malinconia afferra gli animi; si vedono tutte leombre e le manchevolezze della vita; la morte, la notte,la solitudine, il desiderio struggente di un mondo lonta-no, ignoto, sottratto al presente diventano i temi mag-giori della poesia; e ci si inebria di dolore, come, untempo, di voluttuosa sensibilità.

Nei primi cinquant’anni del secolo la letteratura bor-ghese aveva ancora un carattere schiettamente praticoe realistico; la sostenevano un sano buonsenso e un vivoamore dell’immediata realtà. Ma dopo la metà del seco-lo, ci accorgiamo che i suoi motivi essenziali sono muta-ti, che quelli ora prevalenti sono motivi di evasione;soprattutto si cerca di evadere dal rigore della ragione edella coscienza nel campo dell’emotività irresponsabile,dalla cultura e dalla civiltà nel libero stato di natura,dalla precisa realtà del presente nell’indefinito del pas-sato interpretabile a piacere. Spengler ha fatto notareuna volta la stranezza senza precedenti del culto sette-centesco delle rovine33; ma ricordiamo che altrettantostrana era nell’uomo colto la nostalgia del primitivostato di natura e altrettanto senza precedenti era l’im-pulso suicida della ragione a dissolversi nel caos del sen-timento. E tutte queste tendenze si avvertono nella let-teratura inglese anche prima di Rousseau. A differenzadella nostalgia per il passato storico, che nacque solo colromanticismo, l’aspirazione alla natura come rifugiodalle convenzioni della civiltà, aveva già lontani prece-denti. Come sappiamo, essa ricompare piú volte, nelleforme della bucolica, all’apogeo delle civiltà urbane e

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auliche, e anche indipendentemente dal naturalismoartistico, anzi spesso in contrasto con esso. Anche nelSettecento l’amore della natura ha carattere piú moraleche estetico e non ha, si può dire, nulla di comune conil verismo posteriore. Per i poeti preromantici vi è undiretto rapporto fra «l’innocenza della natura» e ilprobo, semplice, modesto borghese che ora per la primavolta appare nella letteratura – in Goldsmith, per esem-pio – come una figura ideale; essi considerano lo sfon-do agreste come il piú adatto e intonato alla condotta diun tal uomo. Ma nell’intendere e nel descrivere la natu-ra non vanno piú in là di quanto loro consenta lo svi-luppo normale e continuo dei mezzi espressivi. Il loroculto per la natura è diverso da quello dei loro prede-cessori solo nelle premesse morali. Anche per loro lanatura è ancora espressione dell’idea divina ed essiappunto l’interpretano ancora secondo il principio del«Deus sive natura»; una visione piú diretta e spregiu-dicata l’avrà soltanto l’Ottocento. Tuttavia la genera-zione preromantica – e in questo si differenzia dalleepoche precedenti – sente già la natura come manife-stazione di forze morali, operanti secondo concettiumani. Il mutare delle ore e delle stagioni, il silenziodella notte lunare e l’infuriare della tempesta, il miste-rioso paesaggio montano e il mare insondabile, sono undramma sublime, uno spettacolo che traduce in propor-zioni grandiose le vicende del destino umano. La natu-ra anzitutto occupa ora nella poesia uno spazio assaimaggiore; e anche in ciò il romanticismo apre una vianuova rispetto al classicismo che guardava unicamenteall’uomo; tuttavia non si ha una rottura con l’antropo-centrismo della poesia precedente, ma solo un trapassodall’umanesimo illuministico al naturalismo moderno.La concezione preromantica della natura rivela il suocarattere eterogeneo nel giardino inglese, il gran simbo-lo dell’epoca, in cui elementi naturali e artificiali si tro-

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vano appunto fusi insieme. Esso è una protesta controla linea retta, contro tutto ciò che è rigido e geometri-co, e insieme l’adesione all’ideale dello sviluppo organi-co, irregolare, pittoresco; ma con le sue collinette arti-ficiali, i gruppi d’alberi, gli stagni, le isole, i ponticelli,le grotte e le rovine, costituisce un complesso innatura-le quanto il parco francese, benché si ispiri a un gustodiverso. Del resto che si sia ancora lontani da un nettorifiuto del classicismo, lo mostra il fatto che gli stessiartisti, che disegnano i giardini romanticamente pitto-reschi, si ispirano poi al manierismo palladiano, quandohanno da costruire palazzi. Lo stile neogotico, che oraviene di moda, è usato soltanto in opere di minor impor-tanza, come ville e castelli che arieggiano la casa di cam-pagna34. In arte l’alta società distingue chiaramente trafunzioni di rappresentanza e funzioni private, e a que-ste sole ritiene appropriata la forma anticlassica. UnHorace Walpole, che fa costruire in stile gotico il suocastello di Strawberry Hill, e con il suo Castle of Otran-to introduce la moda del romanzo d’argomento medie-vale, è tutt’altro che uno spirito romantico; quando sitratta della grande arte ufficiale, egli professa sempre gliideali classici tradizionali. Tuttavia, anche se i suoi espe-rimenti medievali sono, come è stato giustamente affer-mato35, solamente l’espressione di un superficiale amoredi novità, il loro gusto romantico non è perciò menoindicativo, come segno dei tempi.

Per movimenti storico-stilistici come il romanticismoè quasi impossibile determinare l’inizio; spesso risalgo-no a tendenze che sono emerse all’improvviso in passa-to e poi sono cadute per non aver incontrato alcun favo-re; e sono rimaste, cioè, dei tentativi individuali senzaspeciale rilievo sociologico. Manifestazioni di tipo«romantico» si incontrano fin dal Seicento, e nellaprima metà del Settecento ne troviamo a ogni passo.Tuttavia di romanticismo in senso proprio non si può

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parlare prima di Richardson; egli è il primo a presenta-re tutti i tratti essenziali dello stile romantico. E sa tro-vare per il nuovo gusto una formula cosí felice che tuttala letteratura romantica con il suo soggettivismo e sen-timentalismo sembra derivare da lui. Certo, mai un arti-sta cosí mediocre ha esercitato un influsso tanto profon-do e duraturo; in altre parole, mai l’importanza storicadi un artista ha avuto cause cosí completamente estra-nee all’arte. Per l’influsso di Richardson fu decisivo ilfatto che egli per primo mise al centro di un’opera let-teraria l’uomo nuovo delle classi medie, con la sua vitaprivata, la sua cornice casalinga, le sue faccende fami-gliari, fuori d’ogni falsa avventura o vicenda meravi-gliosa. Le sue sono storie di borghesi comuni, non dibricconi o d’eroi; non gli importano gli atti patetico-eroi-ci, ma le semplici, intime ansie del cuore. Egli rinunziaad accumulare pittoreschi e fantastici episodi e si con-centra unicamente sul dramma spirituale dei suoi eroi.La materia dei suoi romanzi è una tenue favola, un puropretesto all’analisi dei sentimenti e all’esame di coscien-za. Le sue figure sono in tutto romantiche, ma scevre ditratti romanzeschi o picareschi36. Egli è anche il primoche crei tipi non piú esattamente definibili; quel che eglirappresenta è lo sgorgare e il fluttuare dei sentimenti edelle passioni; i personaggi come tali non lo interessano.

Con il restringersi del romanzo alla vita privata delceto medio, discreta e spesso idillica, con la limitazionedei temi ai semplici, essenziali fatti della vita famiglia-re, e la predilezione per destini e personaggi umili emodesti; insomma, con il ridursi del romanzo alle scenedomestiche dell’ambiente borghese, si afferma anchequi un proposito morale. Questo processo non dipendesoltanto dal mutamento sociale del pubblico e dall’in-gresso del ceto medio nella letteratura, ma anche dalnuovo puritanesimo, che verso la metà del secolo sidiffonde in tutta la società inglese, fornendo a questa

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letteratura un piú vasto pubblico37. Il romanzo fami-gliare e di costume ha principalmente un fine didattico,e le opere di Richardson non sono in sostanza che trat-tati morali in forma di commoventi storie d’amore.L’autore si assume il ruolo di curatore d’anime, discutei grandi problemi della vita, costringe il lettore a unesame di coscienza, chiarisce i suoi dubbi e lo assiste conpaterni consigli. Lo si è chiamato a buon diritto «con-fessore protestante» e non per nulla i suoi libri venne-ro raccomandati dal pulpito. Se ne può capire l’effica-cia solo quando se ne tenga presente il duplice scopo, didivertimento e di edificazione, e si rifletta che non solo,in quanto lettura famigliare del medio ceto, essi rispon-devano a un’esigenza nuova, ma anche che ne elimina-vano una vecchia, soppiantando la lettura della Bibbiae di Bunyan38. Oggi, che già da lungo tempo il soggetti-vismo è consolidato nella letteratura, è difficile spiega-re che cosa in quei romanzi potesse tanto avvincere ecommuovere i contemporanei; ma non dobbiamo dimen-ticare che fino ad allora nei libri non c’era stato ancoranulla che si potesse paragonare all’intima e nervosa sen-sibilità di quella pittura dei sentimenti. La ricchezza pas-sionale di quei romanzi era una rivelazione, e l’imme-diatezza con cui i loro personaggi confessavano se stes-si sembrava insuperabile, per quanto artefatto e impac-ciato ne possa apparire oggi il tono. Ma allora esso eranuovo, veniva dal profondo dell’anima cristiana, malsi-cura nella lotta per la vita e in cerca di un nuovo appog-gio. La borghesia intese immediatamente l’importanzadello studio psicologico e comprese che nell’intensaaffettività, nell’interiorità di quei romanzi si rivelavaqualcosa di ben suo. Sentí che solo di qui poteva nasce-re una cultura propriamente borghese e giudicò i roman-zi di Richardson non già secondo il gusto tradizionale,ma esclusivamente secondo i principî della propria ideo-logia. Dalla sua stessa natura sociale sviluppò nuovi

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canoni estetici, anzitutto quelli della verità soggettiva,della sensibilità e dell’intimità, dando cosí l’avvio all’e-stetica del moderno lirismo. Ma anche gli aristocraticierano consci dell’importanza sociale di questa letteraturadi confessione e da principio ne respinsero ostilmentel’esibizionismo plebeo. Horace Walpole giudica i roman-zi di Richardson storie lamentose e noiosissime, chedescrivono la vita come la vede un libraio o un predica-tore metodista. Voltaire tace su Richardson e persino und’Alembert ne parla con molto riserbo. La buona societàaccoglie il soggettivismo romantico solo quando se n’èormai cancellata l’origine e in parte mutata la funzionesociale.

Come il soggettivismo, cosí anche la morale diRichardson è estranea all’alta società. Le sue racco-mandazioni e i suoi ammonimenti, che additano all’am-bizioso borghese la via del successo, costituiscono un’e-tica di cui nobiltà e alta borghesia non sanno che farsi.In fondo è la morale del solerte garzone di Hogarth, chesposa la figlia del suo principale, o della virtuosa fan-ciulla del romanzo di Richardson, che alla fine è sposa-ta dal padrone, un tema che nella letteratura modernadiverrà uno dei piú popolari. Pamela è il prototipo ditutte le moderne storie di questa specie, in cui sogni edesideri sono il motivo di fondo. Da Richardson il temasi svilupperà sino ai film dei nostri giorni, in cui l’irre-sistibile segretaria che resiste a ogni seduzione, alla fineconduce a giuste nozze l’insolente principale. I roman-zi moraleggianti di Richardson contengono il germe del-l’arte piú immorale che mai sia esistita: in particolareessi segnano l’inizio di quelle fantasie in cui l’onestà èsolo un mezzo adatto allo scopo, e incoraggiano adabbandonarsi a pure illusioni, anziché a sforzarsi dirisolvere gli effettivi problemi della propria vita39. Ancheper ciò essi costituiscono una delle piú importanti frat-ture nella storia della letteratura moderna: finora le

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opere dei poeti erano veramente morali o immorali;d’ora in poi i libri che vogliono apparire morali per lopiú non sono che moraleggianti. Nella lotta con i cetisuperiori, il borghese perde la sua innocenza e, poichédeve accentuare troppo spesso la sua virtú, diventa unipocrita.

La forma autobiografica del romanzo moderno, sia lanarrazione in prima persona, sia la forma epistolare o didiario, serve soltanto ad accrescere l’intensità espressi-va ed è un mezzo per sottolineare il volgersi dell’atten-zione dall’esterno all’interno. Ridurre la distanza fra ilsoggetto e l’oggetto sarà d’ora in poi il fine ultimo diogni fatica letteraria. Con la ricerca dell’immediatezzapsicologica mutano tutti i rapporti tradizionali fra l’au-tore, il protagonista e i lettori: non solo cambia il rap-porto dell’autore con il pubblico e con i personaggi del-l’opera sua, ma anche l’atteggiamento del lettore versoquest’ultimi. L’autore fa del lettore un confidente e glisi rivolge in forma diretta, quasi col vocativo. Il suo tonoè imbarazzato, nervoso, oppresso, come s’egli parlassesempre di sé. Egli s’identifica con il suo eroe e cancellai limiti fra finzione e realtà. Per sé e per i suoi perso-naggi crea un limbo, ora lontano dal mondo del lettore,or confuso con esso. Di qui specialmente nasce l’atteg-giamento di Balzac verso le figure dei suoi romanzi, dicui egli soleva parlare come di conoscenze personali.Richardson s’innamora delle sue eroine e versa lacrimeamare sul loro destino; ma anche i suoi lettori parlano escrivono di Pamela, Clarissa e Lovelace come di perso-ne vive40. Sorge un’intimità, finora ignota, fra il pub-blico e gli eroi dei romanzi; il lettore non solo presta lorouna vita che trascende i confini dell’opera, non soltan-to li immagina in situazioni che con essa nulla hanno incomune, ma li mette continuamente in rapporto con iproblemi e le mete, le speranze e i disinganni della pro-pria vita. Il suo interesse si fa puramente personale ed

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egli finisce col pensarli solo in rapporto al proprio io.Naturalmente, anche prima si prendeva esempio daglieroi del grande romanzo cavalleresco e d’avventura cheassumevano valore ideale in quanto idealizzazioni diuomini veri, o loro modelli ideali. Ma al lettore comu-ne non sarebbe mai venuto in mente di paragonarsi conloro e di attribuirsi i loro diritti. Gli eroi si movevanoin tutt’altra sfera: erano figure mitiche, sovrumane nelbene e nel male. La distanza del simbolo, dell’allegoriao della fiaba li divideva dal mondo del lettore, evitan-do un contatto troppo diretto. Ora invece è come se l’e-roe del romanzo non facesse che dar compimento allavita insoddisfatta di chi legge, attuandone le possibilitàmancate. Chi mai infatti, almeno una volta, non è statosul punto di vivere un romanzo, di diventare un eroe delromanzo?

Di tali illusioni si fa forte il lettore per equipararsi alprotagonista, reclamandone per sé nella vita la posizio-ne eccezionale, i diritti d’immunità. Richardson lo invi-ta appunto a sostituirsi all’eroe del romanzo, a roman-ticizzare la propria vita, e lo incoraggia ad esimersi dal-l’adempire i prosaici doveri quotidiani. Cosí autore e let-tore divengono protagonisti del romanzo, civettano con-tinuamente fra loro, in una relazione illegale, contrariaalle regole del gioco. L’autore parla al pubblico dallaribalta, e spesso i lettori lo trovano piú interessante deisuoi personaggi. Essi ne gustano le osservazioni perso-nali, le riflessioni, le «didascalie» e, ad esempio, conce-dono a uno Sterne di non uscir mai dalle glosse margi-nali per affrontare il racconto vero e proprio.

Sia per l’autore, sia per il pubblico l’opera è soprat-tutto espressione psicologica, e il suo valore consistenell’immediatezza e nel carattere personale dell’espe-rienza descritta. Il lettore è conquistato soltanto se quelche viene raccontato prende l’apparenza di un eventoche sconvolge nell’intimo ed è decisivo per il destino

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individuale. Per impressionare, l’opera dev’essere undramma coerente e completo, che si compone però ditanti piccoli «drammi» ognuno dei quali si acuisce in unparticolare effetto di chiusa. Un’opera veramente effi-cace si svolge come un continuo crescendo, da una puntaall’altra, da un’acme all’altra. Di qui l’espressione affet-tata, forzata e spesso spasmodica delle nuove opere d’ar-te e di letteratura. Tutto vi tende all’effetto immedia-to, tutto mira alla sorpresa e allo stupore. Si vuole ilnuovo per amor del nuovo, si cerca quel che è piccantee strano, perché solletica i nervi. Da quest’esigenzanascono i primi racconti paurosi e i primi romanzi «sto-rici» con la loro atmosfera misteriosa, piena di falsopathos. Tutto ciò porta a un abbassamento del livelloculturale e segna il principio di una decadenza. La cul-tura artistica dell’Ottocento per molti aspetti è superiorea quella settecentesca, ma ha un difetto ignoto alRococò: le manca il gusto sicuro ed equilibrato, se purnon sempre molto agile, dell’arte aulica. Naturalmente,anche prima del movimento romantico non mancavanonell’arte produzioni deboli e insignificanti, ma tuttoquel che non era puro dilettantismo aveva una certadignità; e come nelle opere letterarie non si incontravanulla di simile alla psicologia da strapazzo e al deterio-re sentimentalismo che piú tardi invasero la letteraturaamena, cosí l’arte figurativa ignorava il cattivo gusto cherese possibili manifestazioni come il neogotico. Questifenomeni compaiono soltanto col passaggio dell’inizia-tiva culturale dall’alta società al medio ceto, benché nonsempre nascano da quest’ultimo. Del resto, per giudicareun tal mutamento, il criterio del gusto si rivela tropporistretto e sterile, perché convenga insistervi. Il «buongusto» non solo è un concetto storicamente e sociologi-camente relativo, ma anche come termine di valutazio-ne estetica ha un’importanza limitata. Le lacrime versatenel Settecento su romanzi, drammi, opere musicali non

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solo indicano un mutamento di gusto e uno spostarsi deivalori estetici dalla squisitezza e dal ritegno all’effettodrastico e sforzato, ma segnano anche l’inizio di unanuova fase nello sviluppo di quella sensibilità occiden-tale che già aveva trionfato nell’età gotica e raggiungeràl’apogeo nell’arte dell’Ottocento. Questa svolta signifi-ca una rottura col passato assai piú radicale dell’illumi-nismo stesso, che in sé rappresenta soltanto la conti-nuazione e il compimento di un processo in atto sin dallafine del Medioevo. Di fronte a un fenomeno come que-sto nuovo orientamento sentimentale della cultura, chesfocia in un’idea affatto nuova della poesia, non vale ilsemplice punto di vista del gusto. «La poésie veut quel-que chose d’énorme et sauvage»*****, diceva già Dide-rot41 e, se anche quest’audacia selvaggia non trova pron-ta espressione, essa è sempre presente al poeta come unideale, come l’esigenza assoluta di commuovere, di sog-giogare, di sedurre e straziare i cuori. I «difetti di gusto»dei preromantici sono all’origine di una vasta correnteche include opere fra le piú alte dell’arte ottocentesca.Senza di essi l’irruenza di Balzac, la sottigliezza diStendhal, la sensibilità di Baudelaire sarebbero altret-tanto inconcepibili che il sensualismo di Wagner, la spi-ritualità di Dostoevskij e la nervosa penetrazione diProust.

Le tendenze romantiche affioranti in Richardson tro-varono in Europa una formulazione di generale validitàper opera di Rousseau. L’irrazionalismo, che in Inghil-terra solo a rilento poté farsi strada, trovò altrove un piúampio sviluppo e proprio grazie a quello svizzero, cheMadame de Staël definiva giustamente come il rappre-sentante dello spirito nordico, cioè tedesco, nella lette-ratura francese. Le nazioni dell’Europa occidentaleerano cosí profondamente permeate delle idee dell’illu-minismo razionalista e materialista, che la tendenza sen-timentale e spiritualistica incontrò dapprima un’energi-

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ca opposizione e persino un Fielding, che pure, comeRichardson, era un esponente del ceto medio, l’avversòaccanitamente. Nell’affrontare i problemi del tempo,Rousseau era assai piú spregiudicato degli esponenti del-l’illuminismo occidentale. Non solo egli apparteneva allapiccola borghesia quasi priva di tradizioni, ma era unospostato, senza piú legami con le convenzioni della suaclasse. Queste del resto, nella Svizzera immune da tra-dizioni di corte e da influssi aristocratici, erano di persé meno rigide che in Francia o in Inghilterra. Il senti-mentalismo che in Richardson e negli altri preromanti-ci inglesi non sempre si poneva in antitesi diretta alrazionalismo illuministico, e, se mai, lo faceva in modolatente, in Rousseau assunse il carattere di un’apertaribellione. In ultima analisi, il suo «Torniamo alla natu-ra!» aveva un unico movente: rafforzare la resistenzacontro un’evoluzione che aveva condotto alla disugua-glianza sociale. Egli si opponeva alla ragione, perchéentro al processo di crescente intellettualizzazione ritro-vava quello della degenerazione sociale. Il primitivismodi Rousseau in realtà non era che una variante dell’idealearcadico, uno di quei sogni di redenzione, che si incon-trano in tutti i tempi ormai stanchi di civiltà42; ma in luiquesto «disagio d’esser civili», che già prima tante gene-razioni avevano avvertito, si fa per la prima voltacosciente, ed egli è stato il primo che da questa sazietàdella cultura abbia sviluppato una propria filosofia dellastoria. La vera originalità di Rousseau consiste nellatesi, mostruosa per l’umanesimo illuminista, che l’uomocivile è un fenomeno di degenerazione, e tutta la civiltàstorica è un tradimento dell’originario destino umano,cosí che la dottrina fondamentale dell’illuminismo, lafede nel progresso, a un esame piú profondo si rivela unasuperstizione. Un tale sovvertimento di valori non pote-va compiersi se non per un radicale mutamento delletendenze sociali, e può spiegarsi solo col fatto che i ceti

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di cui Rousseau è interprete non ritenevano piú possi-bile combattere l’artificio e le convenzioni della culturaaulica con i mezzi dell’illuminismo, e cercavano perciòarmi che non provenissero piú dall’arsenale dei loronemici. Nella sua critica della cultura rococò e illumini-stica, di cui egli metteva a nudo il formalismo meccani-co e spesso senza vita e a cui contrapponeva la sponta-neità dello sviluppo organico, Rousseau esprimeva nonsoltanto la consapevolezza della crisi in cui l’Occidentesi trovava fin da quando era tramontata l’unità cristia-na del Medioevo, ma anche il concetto moderno diciviltà, che includeva l’antagonismo di anima e forma,spontaneità e tradizione, natura e storia. Per la scoper-ta di questa tensione, Rousseau imporrà la sua impron-ta su tutta l’epoca. La sua dottrina tuttavia contenevain sé un grosso pericolo ed era che, parteggiando per lavita e contro la storia, rifugiandosi nello stato di natu-ra, il che non era se non un salto nel buio, egli apriva lavia a quelle nebulose «filosofie della vita» che, dispe-rando di fronte all’apparente impotenza del pensierorazionale, propugnano il suicidio della ragione.

Le idee di Rousseau erano nell’aria; egli non facevache esprimere quel che sentivano molti dei suoi con-temporanei; cioè che s’imponeva una scelta ed essi dove-vano risolversi se tenersi al volterrianesimo con la suaragionevolezza e la sua rispettabilità, oppure rinunciarealle tradizioni storiche e ricominciare da capo. La sto-ria della cultura europea non conosce confronto piúprofondamente simbolico di quello fra Voltaire e Rous-seau. Questi due contemporanei, se pur non propriodella stessa generazione, che erano uniti da innumere-voli rapporti pratici e personali, che avevano comuniamici e seguaci, che erano entrambi collaboratori diun’impresa letteraria ideologicamente cosí caratteristicacome l’Enciclopedia, e che sono da considerare entram-bi come i piú autorevoli, precursori della Rivoluzione,

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in realtà stavano sui due opposti versanti del crinale chedivideva la moderna Europa, individualista e anarchica,da un mondo ancora in parte irretito nell’antica civiltàformalistica. Il naturalismo di Rousseau è la negazionedi tutto ciò che appare a Voltaire la quintessenza dellaciviltà; soprattutto nega ogni limite a un soggettivismoancora tollerabile e compatibile con le regole delladecenza e della dignità. Prima di Rousseau un poeta,tranne in certe forme della lirica, parlava di sé solo indi-rettamente; dopo di lui i poeti non parlarono piú d’al-tro e senza il minimo ritegno. Proprio a questo puntonasce quell’idea della letteratura come esperienza e con-fessione, che anche Goethe mostrava di considerarevalida norma quando dichiarò che le sue opere nonerano che «frammenti di una grande confessione». Lamania di contemplarsi e specchiarsi nella letteratura, ilconcetto che l’opera sia tanto piú vera e persuasivaquanto piú direttamente vi si dà a conoscere l’autore,appartengono all’eredità di Rousseau. Per cento o cen-tocinquant’anni tutto ciò che vale nella letteratura del-l’Occidente starà sotto il segno di questo soggettivismo.Non soltanto Werther, René, Obermann, Adolphe,Jacopo Ortis, discendono da Saint-Preux, ma anche glieroi di romanzi piú tardi, da Lucien de Rubempré diBalzac, Julien Sorel di Stendhal, Frédéric Moreau edEmma Bovary di Flaubert, fino al Pierre di Tolstoj, almemorialista di Proust e al Castorp di Thomas Mann.Tutti soffrono del dissidio fra sogno e realtà e sono vit-time del conflitto tra le loro illusioni e la pratica, pro-saica vita borghese. Il tema si realizza, per la primavolta, pienamente nel Werther (e si deve tener presentela prima impressione di una tal conquista per compren-dere l’effetto inaudito dell’opera sui contemporanei);ma il dissidio esiste già, latente, nella Nouvelle Héloïse.Già qui l’eroe non si contrappone piú ad avversari indi-viduali, ma a una sorta di generale necessità, ch’egli

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però non considera ancora totalmente estranea allo spi-rito e spoglia di ogni senso, come faranno i delusi eroidel romanzo piú tardo, ma nemmeno la innalza piú aldisopra di sé, come l’eroe tragico innalzava il destino chelo annientava. Senza il pessimismo storico-filosofico diRousseau e senza la sua teoria di un presente deprava-to, il romanzo ottocentesco della delusione sarebbeinconcepibile, quanto la concezione tragica di Schiller,Kleist e Hebbel.

Vastissimo e profondo è stato l’influsso di Rousseau.Come Marx e Freud, egli è di quegli spiriti che, nellospazio di una generazione, mutano il pensiero di milio-ni di uomini, anche di molti che non li conoscono nep-pur di nome. E comunque è certo che, al termine delSettecento, erano pochi gli uomini pensanti che fosserorimasti insensibili alle idee di Rousseau. Un influssocosí vasto è possibile soltanto quando uno scrittore è lavera espressione e il piú profondo interprete del suotempo. Con Rousseau per la prima volta giunge alla let-teratura la voce degli strati piú larghi della società: lapiccola borghesia e la massa indistinta dei poveri, deglioppressi e dei paria. I «filosofi» illuministi avevano par-teggiato spesso per il popolo, ma sempre come suoi avvo-cati e protettori. Rousseau è il primo che si esprimacome uno del popolo stesso e parlando per esso parlianche per sé; è il primo che non solo incita alla ribellio-ne, ma è egli stesso un ribelle. I suoi predecessori eranofilantropi, che volevano riformare, migliorare il mondo;egli è il primo vero rivoluzionario. Quelli odiavano il«dispotismo», predicavano contro la Chiesa e la reli-gione positiva, si entusiasmavano per l’Inghilterra e lalibertà, ma conducevano la vita delle classi dirigenti, acui sentivano di appartenere, nonostante le loro simpa-tie democratiche; Rousseau invece, non solo sta a fian-co dei piú poveri e dei piú umili, non solo si dichiara perl’assoluta eguaglianza, ma per tutta la vita rimane,

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com’era nato, un piccolo borghese, anzi un decaduto,come l’hanno ridotto le circostanze. Da giovane cono-sce la vera miseria, che nessuno dei signori «filosofi»conosceva per diretta esperienza, e anche piú tardi con-duce la vita degli strati piú umili del ceto medio, e diquando in quando addirittura quella dei contadini.Prima di lui gli scrittori, per quanto bassa ne fosse l’o-rigine, erano annoverati fra la gente distinta; e anche senutrivano un profondo affetto per il popolo, cercavanosempre di tacere i propri natali piuttosto che ostentar-li. Rousseau invece, in ogni occasione, sottolinea di nonaver nulla di comune, in nessun modo, con l’alta società.Sia o non sia, questo, semplice «orgoglio plebeo» e purorisentimento, non muta il valore del fatto che tra Rous-seau e i suoi avversari esistono non solo differenze diopinioni, ma vitali contrasti di classe. Voltaire dicevache Rousseau voleva ridurre l’uomo civile a trascinarsidi nuovo a quattro zampe, e tale dev’essere stata l’opi-nione di tutta l’alta società colta e conservatrice. Percostoro Rousseau non era soltanto un pazzo e un ciar-latano, ma un avventuriero pericoloso, un delinquente.Tuttavia nell’opposizione di Voltaire non si esprimevasoltanto la protesta del ricco borghese, del signore, con-tro la passionalità plebea di Rousseau, il suo entusiasmofanatico e la sua incomprensione per la storia; ma anchela reazione del pensatore oggettivo, scettico, realisticodi fronte agli abissi dell’irrazionale che Rousseau veni-va spalancando e che minacciavano d’inghiottire l’edi-ficio illuministico. Quanto grande in realtà fosse il peri-colo, e quanto giustificate le apprensioni di Voltaire, lomostra il destino dell’illuminismo in Germania. Ma inFrancia Voltaire sottovalutava i frutti della sua azione:le conquiste del razionalismo e del materialismo qui nonsi potevano piú annullare.

Inquadrare sociologicamente Rousseau, che pure è disentimenti cosí schiettamente democratici, è tutt’altro

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che facile. Le condizioni sociali sono all’epoca sua ormaitanto complicate, che non sempre i principî e le inten-zioni dello scrittore sono elementi sufficienti per for-mulare un giudizio sulla parte da lui avuta nel processosociale. Il razionalismo di Voltaire per molti aspetti sirivelò piú innovatore e fecondo dell’irrazionalismo diRousseau. È vero che questi assume una posizione piúradicale di quella degli enciclopedisti, e politicamenterappresenta ceti piú larghi di quelli per cui scrivonoVoltaire e Diderot; ma è piú arretrato nelle sue conce-zioni religiose e morali43. E come il suo sentimentalismoè profondamente borghese e popolaresco, mentre il suoirrazionalismo è reazionario, cosí anche la sua filosofiamorale contiene un’intima contraddizione: da un lato,essa ha forti caratteri plebei, ma dall’altro cela il germedi una nuova tendenza aristocratica. Il concetto di «bel-l’anima», se presuppone il completo dissolvimento del-l’ideale di kalokagathìa, e significa il trasferimento diogni valore umano alla sfera dell’interiorità, implica,d’altra parte, un certo trapasso della morale in esteticae tende a considerare il valore etico come un dono dinatura. Si ammette cosí un’aristocrazia spirituale, checerto non si riceve che per diritto di natura, ma cheviene a porre in questo modo, in luogo degli irrazionalidiritti del sangue, una genialità etica altrettanto irra-zionale. La «bellezza interiore» di Rousseau conduce siaa personaggi simili al My\kin di Dostoevskij, l’idiota,l’epilettico in cui si cela il santo, sia all’ideale dell’indi-viduo moralmente perfetto, superiore a ogni responsa-bilità e utilità sociale. Il Goethe olimpico, pensoso uni-camente del proprio intimo perfezionamento, è un disce-polo di Rousseau non meno del giovane ribelle in lottacontro ogni convenzione che scriveva il Werther.

Il mutamento di stile, prodotto nella letteratura dalpreromanticismo inglese e dall’opera di Rousseau, percui a forme obiettive e ligie a una norma se ne sono sosti-

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tuite altre piú soggettive e libere, trova forse la suaespressione piú decisa nella musica, che ora per la primavolta diventa un’arte storicamente rappresentativa epreminente. In nessun altro campo il mutamento fu cosíforte e improvviso; e già i contemporanei parlavano di«grande catastrofe»44. L’aspro antagonismo tra la gene-razione di Johann Sebastian Bach e quella dei suoiimmediati successori, specialmente l’empietà con cui lagiovane generazione si fa beffe della fuga che appare unaforma ormai antiquata, testimonia non solo del trapas-so dal tardo stile barocco, patetico e convenzionale, aquello intimo e semplice dei preromantici, ma anche ilpassaggio da una composizione aggiuntiva, ancorasostanzialmente medievale – che le altre arti avevano giàsuperato col Rinascimento – a una forma accentrata, asviluppo drammatico, in cui l’unità è data dal senti-mento. Non solo Bach era un artista conservatore, matutta la musica del suo tempo risulta arretrata in con-fronto con le altre arti. Già la generazione successivapoté con ragione definire «scolastico» lo stile del mae-stro, poiché – per quanto esso sia intimamente com-mosso e prenda proprio per la profondità del suo senti-mento – la forma rigida e solenne, il pedantesco con-trappunto e tutti i convenzionalismi della composizionebachiana dovevano apparire antiquati ai rappresentantidel nuovo soggettivismo, che prendevano a criterio digiudizio le loro idee di semplicità, immediatezza e inti-mità. Per essi in sostanza, come per i letterati prero-mantici, il sentimento nell’arte doveva esprimersi informa di un processo coerente, con un’ascesa e un’acmee, se possibile, un conflitto e una soluzione, invece diessere la descrizione di un affetto costante, ugualmentediffuso in tutta la composizione45. La loro sensibilità nonera né piú profonda né piú intensa di quella dei prede-cessori, ma per essi aveva un peso maggiore, volevanofarla apparir piú importante, e perciò la drammatizza-

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vano. In questa tendenza alla drammatizzazione sta lavera differenza fra le nuove forme conchiuse del Lied edella sonata e i vecchi tipi «a trama continua»: fuga, pas-sacaglia, ciaccona e altre forme di sequenza e d’imita-zione46. La musica piú antica, già per la trattazioneuniforme del contenuto emotivo, appariva dominata emoderata, mentre la nuova musica, con il continuoascendere e ricadere, l’avvicendarsi di tensione e libe-razione, esposizione e sviluppo, già di per sé inquieta ecommuove. L’espressione «drammatica», che punta sulfinale eccitante, trova una spiegazione anzitutto nelfatto che il compositore si trovava davanti a un pubbli-co di cui doveva destare e incatenare l’attenzione conmezzi piú efficaci di quelli che un tempo erano richie-sti. Proprio il timore di perdere il contatto con gli udi-tori lo induceva a sviluppare la composizione in unaserie di impulsi sempre rinnovati e ad esaltarne di voltain volta l’intensità espressiva.

Fino al Settecento, ogni musica aveva avuto piú omeno una sua immediata destinazione: veniva scritta perincarico del principe, del Comune o della Chiesa e dove-va intrattenere una corte, aumentare lo splendore diuna solennità pubblica, o rendere piú profonda la devo-zione del servizio divino. I compositori erano musici alservizio della corte, di una chiesa o della città; la loroattività artistica si limitava ad assolvere i doveri delloro ufficio e certo molto di rado pensavano a compor-re spontaneamente. Fuor che ai balli, in chiesa e nellefestività, i borghesi avevano rare occasioni di ascoltaremusica; e ai trattenimenti musicali che si tenevano incasa dei nobili e a corte solo eccezionalmente potevanoaccedere. Verso la metà del Settecento questo cominciòa essere sentito come una lacuna, e nelle città sorsero leprime società musicali47. Dai primi collegia musica, anco-ra a carattere privato, si sviluppò l’uso dei concerti pub-blici, e con essi un’autonoma vita musicale della bor-

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ghesia. Le società affittarono sale sempre piú grandi ediedero concerti a pagamento per un pubblico semprepiú numeroso48. Si creò cosí un libero mercato anche perle produzioni musicali, corrispondente al mercato lette-rario con i suoi giornali, i periodici, le case editrici. Mase la letteratura, come del resto anche la pittura, già dalungo tempo era riuscita a sottrarre i suoi prodotti alladestinazione immediata, la musica invece fino al termi-ne del Seicento rimase musica d’uso. Non ci fu musicaautonoma prima d’allora, e solo a partire dal Settecen-to sorse la musica puramente concertistica, con l’unicofine di esprimere un sentimento. I frequentatori deiconcerti pubblici si distinguevano dall’uditorio di corteper alcuni tratti essenziali: erano meno esperti nel giu-dicare le opere in genere; erano un pubblico che paga-va di volta in volta, quindi sempre da riconquistare e dasoddisfare; si riunivano unicamente per godersi la musi-ca, senza altri fini come avveniva in chiesa, al ballo, auna festa cittadina o anche in un ricevimento a corte.Furono soprattutto queste caratteristiche del pubblicoa provocare quella lotta per il successo che spingeva amoltiplicare gli effetti, a farli sempre piú acuti e forza-ti, fino a determinare quello stile caricato, inteso a sem-pre maggiore intensità espressiva, che caratterizza lamusica dell’Ottocento.

La borghesia diventa il principale cliente della musi-ca, è questa l’arte prediletta della borghesia, che nonconosce altra forma che esprima in modo cosí immedia-to e libero la sua vita interiore. Ma, mentre la musicadiventa arte pura, il compositore comincia non solo arifuggire da qualsiasi opera scritta per fine pratico o perincarico, ma a disprezzare addirittura il comporre permotivi d’ufficio. Philipp Emanuel Bach ritiene che isuoi pezzi migliori siano quelli ch’egli scrive per sé. Siannunzia cosí un conflitto di coscienza e una crisi, làdove prima non appariva il minimo contrasto. Notissi-

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mo e palmare esempio dei dissidi a cui porta il nuovosoggettivismo è la rottura fra Mozart e il suo protetto-re, l’arcivescovo di Salisburgo. Il contrasto che comin-cia a delinearsi fra il musicista stipendiato e l’artista chesegue una libera ispirazione si riflette perfettamente neldifferenziarsi del virtuoso dal compositore e del comu-ne membro di un’orchestra dal direttore. È un’evolu-zione straordinariamente rapida, ed è sorprendente chegià in Haydn sia dato notare il difetto tipico del com-positore moderno, cui manca la perfetta padronanzaanche di un solo strumento49.

Il nuovo pubblico borghese dei concerti non provo-ca soltanto la trasformazione del linguaggio musicale edella posizione sociale del compositore, ma dà alla crea-zione un diverso orientamento in modo che l’opera sin-gola assume un senso nuovo nel corpus di un composi-tore. Fra il comporre per un gran signore o per qualsia-si altro committente e il creare per l’anonimo pubblicodei concerti, c’è una differenza essenziale, ed è che l’o-pera su commissione per lo piú è destinata a un’esecu-zione unica, mentre il pezzo da concerto attende il piúgran numero possibile di repliche. Ciò spiega, non sol-tanto la maggior cura della composizione, ma anche ilmodo piú ambizioso di presentarla. Ora che il composi-tore non è piú costretto ad opere condannate a un rapi-do oblio, vuol crearle imperiture. Haydn è già molto piúattento e lento nel comporre che i suoi predecessori. Maegli scrive ancora quasi cento sinfonie; Mozart ne scri-ve soltanto la metà e Beethoven soltanto nove. La svol-ta decisiva tra la tradizionale composizione obiettiva,scritta su ordinazione, e la nuova forma soggettiva, diconfessione musicale, si situa fra Mozart e Beethoven o,piú esattamente, all’inizio della maturità di Beethoven,un po’ prima dell’Eroica: in un’epoca cioè in cui l’orga-nizzazione di concerti era ormai pienamente sviluppatae la vendita delle opere, connessa con l’esigenza di ripe-

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tute esecuzioni, costituiva la principale fonte di guada-gno del compositore. D’ora in poi per Beethoven ognigrande opera non è solo l’espressione di un’idea nuova,ma anche di un nuovo stadio nella sua evoluzione d’ar-tista. Naturalmente un’evoluzione si può constatareanche in Mozart, ma in lui il movente primo di unasinfonia non è sempre da cercare in una nuova fase dellasua maturazione artistica; egli scrive una sinfonia perqualche impegno o quando sorge nella sua mente un’i-dea nuova, ma quanto a stile non è necessariamentediversa dalle precedenti. Arte e mestiere, non ancoraben distinti in lui, si dividono ormai del tutto in Beetho-ven, e l’idea dell’opera d’arte unica, irripetibile,inconfondibile si attua nella musica in modo ancora piúpuro che nella pittura, benché questa già da secoli sifosse affrancata dal mestiere. Certo nella poesia l’e-mancipazione dell’intento artistico da quello pratico eragià assoluta al tempo di Beethoven, e ormai cosí ovvia,che Goethe poteva nuovamente affermare, con un certoorgoglio di virtuoso e di artigiano, che le sue erano tuttepoesie d’occasione. Beethoven, diretto allievo di quelloHaydn che era stato al servizio di principi, non ne sareb-be stato cosí fiero.

1 paul mantoux, La révolution industrielle au XVIIIe siècle, 1906,p. 78.

2 The English Revolution. 1640. Three Essays, a cura cristopherhill, 1940, p. 9.

3 r. h. gretton, The English Middle Class, 1917, p. 209.4 w. warde fowler, Social Life at Rome in the Age of Cicero, 1922,

pp. 26 sgg. j. l. e b. hammond, The Village Labourer (1760-1832),1920, pp. 306-7.

5 a. de tocqueville, L’Ancien régime et la Révolution cit., p. 146.j. aynard, La bourgeoisie française cit., p. 341.

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6 g. lefèbvre, g. guyot, p. sagnac, La Révolution française, 1930,p. 21.

7 a. de tocqueville, L’Ancien régime et la Révolution cit., pp.174-75.

8 herbert schöffler, Protestantismus und Literatur, 1922, p. 181.9 alexandre beljame, Le public et les hommes de lettres en Angle-

terre au XVIIIe siècle, 1881, p. 122.10 h. schöffler, Protestantismus und Literatur cit., pp. 187-88.11 Ibid., p. 192.12 h. schöfler, Protestantismus und Literatur cit., pp. 59, 151 sgg.

e passim.13 a. s. collins, The Profession of Letters, 1928, p. 38.14 g. m. trevelyan, English Social History, 1944, p. 338 [trad. it.,

Storia della società inglese, Torino 1948].15 a. beljame, Le public ecc. cit., pp. 236, 350.16 leslie stephen, English Literature and Society in the 18th Century,

1940, p. 42.17 a. beljame, Le public ecc. cit., pp. 229-32.18 Ibid., p. 368.19 a. s. collins, Authorship in the Days of Johnson, 1927, p. 161.* Le stagioni.** «Noi, signori miei, ringraziamo il Cielo di aver qualcosa di

meglio del nostro cervello su cui poter contare».20 levin l. schücking, The Sociology of Literary Taste, 1944, p. 14.21 a. s. collins, Authorship ecc. cit., pp. 269-70.22 leslie stephen, English Literature ecc.. cit., p. 148. george sam-

pson, The Concise Cambridge History of Literature, 1942, p. 508.*** «Noi proteggiamo i grandi già nostri protettori».23 Citato da f. gaiffe, Le Drame en France au XVIIIe siècle, 1910,

p. 80.**** Congetture sulla composizione originale.24 l. l. schücking, The Sociology of Literary Taste, pp. 62 sgg.25 j. l. e b. hammond, The Rise of Modern Industry, 1944, 6a ed., p. 39.26 id., The Town Labourer (1760-1832), 1925, pp. 37 sgg.27 paul mantoux, La révolution industrielle ecc. cit., pp. 376 sgg.

john a. hobson, The Evolution of Modern Capitalism, 1930, p. 62.28 werner sombart, Der moderne Kapitalismus, II, i, 1924, 6a ed.

Cfr. otto hintze, Der moderne Kapitalismus als historisches Individuum,in «Hist. Zschr.», vol. CXXXIX, 1929, p. 478.

29 Cfr. l. mumford, Technics and Civilisation, 1934, pp. 176-77.30 arnold toynbee, Lectures on the Industrial Revolution of the 18th

Century in England, 1908, p. 64.31 leo balet - e. gerhard, Die Verbürgerlichung der deutschen Kunst,

Literatur und Musik im 18. Jahrhundert, 1936, pp. 116-17.

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32 daniel mornet, La Nouvelle Héloïse de J.-J. Rousseau, 1943, pp.43-44.

33 oswald spengler, Der Untergang des Abendlandes, I, 1918, pp.362-63.

34 geoffrey webb, Architecture and Garden, in Johnson’s England,a cura di A. S. Turberville, 1933, p. 118.

35 w. l. phelps, The Beginnings of the English Romantic Movement,1893, pp. 110-11.

36 Cfr. joseph texte, J.-J. Rousseau and the Cosmopolitan Spirit inLiterature, 1899, p. 152.

37 h. schöffler, Protestantismus und Literatur cit., p. 180.38 w. l. cross, The Development of the English Novel, 1899; p. 38.

h. schöffler, Protestantismus und Literatur cit., p. 168.39 Cfr. q. d. leavis, Fiction and the Reading Public, 1932, p. 138.40 w. l. cross, The Development of the English Novel cit., p. 33.***** «La poesia vuol qualcosa d’immane e selvaggio».41 diderot, De la poésie dramatique, in Œuvres complètes, ed. J. Assé-

zat, 1875-77, VII, p. 371.42 Cfr. i. babbitt, Rousseau and Romanticism, 1919, pp. 75 sgg.43 Cfr. jean luc, Diderot, 1938, pp. 34-35.44 j. s. petri, Anleitung zur praktischen Musik, 1782, p. 104; citato

da hans joachim moser, Geschichte der deutschen Musik, II, i, 1922,p. 309.

45 Per l’unità di struttura e d’ispirazione dei prezzi, cfr. hugo rie-mann, Handbuch der Musikgeschichte, II, 3, pp. 132-33.

46 Sulla differenza fra il tipo «a trama continua» e il tipo del Lied,cfr. wilhelm fischer, Zur Entwicklung des Wiener klassischen Stils, in«Beihefte der Denkmäler der Tonkunst in Österreich», iii, 1915, pp.29 sgg. Per la differenza tra fuga e sonata cfr. august hahn, Von zweiWelten der Musik, 1920.

47 h. j. moser, Geschichte der deutschen Musik cit., pp. 314-15.48 l. balet - e. gerhard, Die Verbürgerlichung ecc. cit., p. 403.49 h. j. moser, Geschichte der deutschen Musik cit., p. 312.

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Capitolo terzo

Gli inizi del dramma borghese

Di fronte alle varie forme del romanzo eroico, pasto-rale, picaresco predominanti nella letteratura amena finoa mezzo il Settecento, il romanzo borghese, di soggettofamigliare e di costume, era un’assoluta novità; ma nonsi contrapponeva cosí consapevolmente e sistematica-mente alla letteratura precedente come farà invece ildramma borghese, nato dall’opposizione programmati-ca alla tragedia classica e portavoce della borghesia rivo-luzionaria. L’esistenza di uno spettacolo di stile elevatoin cui i protagonisti erano dei borghesi, già di per séesprimeva l’ambizione delle classi medie di esser presesul serio quanto i nobili, che fornivano gli eroi alla tra-gedia. Fin dall’inizio il dramma borghese spogliando levirtú aristocratico-eroiche del loro carattere assoluto, lesvalutò e fu l’araldo di una nuova morale e della paritàdei diritti. Nella sua nascita dalla coscienza di classedella borghesia era già implicita tutta la sua storia. È,vero che esso non fu la prima e unica forma drammati-ca sorta da un conflitto sociale, ma fu il primo esempiodi un dramma che di un simile conflitto facesse il suodiretto argomento, ponendosi apertamente al serviziodella lotta di classe. Da tempi immemorabili il teatroaveva sempre diffuso l’ideologia dei ceti che lo finan-ziavano, ma finora i contrasti di classe vi erano semprestati come un elemento sottinteso e latente, mai comecontenuto esplicito. Mai si era osato dire, ad esempio:

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aristocratici ateniesi, i precetti della vostra etica tribalecontrastano con i principî del nostro stato democratico;i vostri eroi, oltre che fratricidi e matricidi, sono anchecolpevoli di alto tradimento. Oppure: baroni inglesi, lavostra condotta faziosa minaccia la pace delle nostreindustri città; i vostri pretendenti al trono e i vostriribelli non sono che solenni delinquenti. O anche: mer-canti di Parigi, usurai, giuristi, sappiate che se noi,nobiltà francese, periremo, con noi perirà un mondo cheè troppo grande per venire a compromessi con voi. Maora si dice senza perifrasi: noi, onesti borghesi, nonvogliamo né possiamo vivere in un mondo dominato daparassiti quali voi siete, e se anche noi dovessimo soc-combere, i nostri figli vinceranno e vivranno.

Il nuovo dramma, per il suo carattere polemico eprogrammatico, fin dall’inizio portò il peso di una pro-blematica ignota alle forme precedenti. Infatti, anche sequeste erano «tendenziose», le opere che ne nascevanonon erano a tesi. La forma drammatica infatti ha carat-teri particolari: per la sua natura dialettica, si presta allapolemica, ma in quanto forma «obiettiva» precludeall’autore ogni aperta parzialità. L’ammissibilità di unatesi nell’opera d’arte per nessun’altra forma artistica fucontestata quanto per il dramma. Ma il problema sorsesoltanto dopo che l’illuminismo ebbe trasformato il pal-coscenico in un pulpito laico e in una tribuna, pratica-mente rinunziando al kantiano «disinteresse» dell’arte.Solo un’epoca di cosí ferma fede nella possibilità di edu-care e migliorare l’uomo poteva risolversi per un’arteapertamente tendenziosa; ogni altro tempo avrebbedubitato dell’efficacia di una morale espressa in modocosí scoperto. Tuttavia il dramma borghese differisce daquello precedente, non tanto perché la tendenza politi-co-sociale, prima nascosta, ora si esprime chiaramente,quanto perché il conflitto drammatico, anziché tra sin-goli individui, si svolge tra l’eroe e le istituzioni, e quin-

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di l’eroe, che del resto non è che l’esponente di un grup-po sociale, combatte contro forze anonime e deve for-mulare il suo punto di vista come un’idea astratta, comeuna denuncia contro l’ordine sociale esistente. Le gran-di tirate e le invettive ora cominciano di solito con un«voi» al posto del «tu». «Voi punite in altri, – declamaLillo, – quel che fate voi stessi, o almeno avreste fattonelle loro condizioni; voi condannate il povero che harubato, e avreste rubato anche voi, se foste stati pove-ri»1. In questo modo mai si era parlato in un dramma.E Mercier va anche piú lontano: «Io sono povero, per-ché ci son troppi ricchi», dice uno dei suoi personaggi.È quasi il tono di Gerhart Hauptmann. Ma il drammaborghese del Settecento, nonostante questo tono, nonha in sé gli elementi di un teatro popolare piú di quan-to li abbia il dramma sociale nell’Ottocento; sonoentrambi frutto di un’evoluzione che da lungo tempo haperduto il contatto con il popolo, e si appoggiano a con-venzioni teatrali d’origine classica.

In Francia il teatro popolare, che poteva vantarecapolavori come il Maître Pathelin, era stato escluso com-pletamente dalla letteratura per opera del teatro aulico;il dramma sacro e la farsa erano stati sostituiti dallasolenne tragedia e dalla commedia ormai tutta intellet-tuale e stilizzata. Non sappiamo bene che cosa si fossemantenuto dell’antica tradizione medievale sui palco-scenici di provincia al tempo del dramma classico, manel teatro letterario della capitale e della corte è certoche nulla ne rimase, se non quello che ne passò nelleopere di Molière. Il dramma si sviluppò in un generepoetico in cui gli ideali della società di corte al serviziodella monarchia assoluta s’imposero nel modo piú diret-to e impressionante. Esso divenne il genere poetico uffi-ciale, già per il solo fatto che si prestava ad esser pre-sentato nella solenne cornice dell’alta società, e gli spet-tacoli teatrali offrivano un’ottima occasione per osten-

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tare la grandezza e lo splendore della monarchia. I suoisoggetti divennero il simbolo di una concezione di vitafeudale ed eroica, retta dall’idea dell’autorità, del ser-vigio, della fedeltà, e i suoi eroi furono l’idealizzazionedi una classe sociale che, libera da ogni volgare cura quo-tidiana, poteva vedere in quel servigio e in quella fedeltàil piú alto ideale morale. Quanti non erano in condizio-ne di dedicarsi al culto di questo ideale, vennero consi-derati personaggi indegni dell’arte drammatica. La ten-denza all’assolutismo e lo sforzo di ridurre la culturaaulica strettamente conforme al modello francese, con-dusse anche in Inghilterra alla distruzione del teatropopolare che, sullo scorcio del Cinquecento, era ancoraperfettamente amalgamato con la letteratura dei cetisuperiori. Dal regno di Carlo I in poi, i drammaturghiproducono sempre piú esclusivamente per il teatro dicorte e per l’alta società, cosí che la tradizione popola-re dell’epoca elisabettiana si perde ben presto. Quandoi Puritani procedettero alla chiusura dei teatri, il dram-ma inglese era già in profonda decadenza2.

La peripezia fu sempre considerata un elementoessenziale della tragedia, e fino al Settecento ogni criti-co fu d’avviso che la catastrofe è tanto piú impressio-nante, quanto piú elevata è la posizione da cui precipi-ta l’eroe. In un’epoca di assolutismo come il Seicentoquest’opinione doveva essere particolarmente forte, ecosí anche la poetica barocca definisce la tragedia sem-plicemente come il genere letterario i cui protagonistisono principi, generali e simili personaggi d’alto rango.Per quanto pedantesca possa parerci oggi una tal defi-nizione, essa coglie un tratto essenziale e forse indica l’o-rigine della vicenda tragica. Fu dunque effettivamenteuna svolta decisiva quando il Settecento fece di sempli-ci borghesi i protagonisti di azioni drammatiche serie eimportanti, le vittime di un tragico destino e i rappre-sentanti di un alto ideale. Prima a nessuno sarebbe pas-

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sato per la mente nulla di simile, benché non rispondaai fatti l’affermazione che i personaggi borghesi sullascena piú antica fossero sempre e soltanto figure comi-che. Mercier calunnia Molière, quando lo accusa di aver«voluto abbassare e rendere ridicola la borghesia»3.Molière caratterizza il borghese in generale come one-sto, aperto, intelligente, e anche arguto, e per lo piú lofa con una punta contro le classi piú elevate4. Nel dram-ma piú antico, tuttavia, un personaggio di origine bor-ghese non aveva mai avuto un destino esaltante e com-movente, né compiuto un’azione nobile ed esemplare.Ora i creatori del dramma borghese si affrancano a talpunto da queste limitazioni e dal pregiudizio che la tra-gedia diventi volgare assumendo un borghese a prota-gonista, ch’essi non riescono nemmeno piú a intendereil valore teatrale e drammatico dell’alta posizione socia-le dell’eroe rispetto alla media degli uomini. Essi giudi-cano tutto il problema da un punto di vista umanitarioe pensano che l’alto rango dell’eroe diminuirebbe la sim-patia dello spettatore, poiché questa si può sviluppareschietta soltanto fra uomini della stessa condizione5.Questo punto di vista democratico è già accennato nelladedica di The London Merchant* di Lillo, e i dramma-turghi borghesi per lo piú vi si attengono. Veramenteessi debbono sostituire l’alto rango, che esaltava l’eroedell’antica tragedia, con una maggiore profondità e ric-chezza della figura; il che porta a un sovraccarico di psi-cologia e crea una serie di altri problemi, prima affattoignoti ai drammaturghi.

L’ideale umano perseguito dai precursori della nuovaletteratura borghese era inconciliabile con l’idea tradi-zionale della tragedia e dell’eroe; perciò essi sottolinea-vano che il tempo della tragedia classica era passato econsideravano i suoi maestri, Corneille e Racine, comevuoti parolai6. Diderot esigeva che si sopprimessero letirate, che riteneva false e innaturali; e Lessing nello stile

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artificioso della tragédie classique combatteva anche ildissimulato carattere di classe. Si scopre ora il valoredella verità artistica come arma nella lotta sociale. Ci siaccorge che la fedele riproduzione dei fatti porta di persé alla distruzione dei pregiudizi sociali e alla fine deisoprusi; che lottando per la giustizia non si deve teme-re la verità in nessuna forma, che, insomma, fra l’ideadella verità artistica e quella della giustizia sociale esi-ste una certa armonia. E in quest’epoca nasce quell’al-leanza fra radicalismo e naturalismo che è cosí nota nel-l’Ottocento: quella solidarietà che gli elementi progres-sivi sentivano con i naturalisti, anche quando costoro,come Balzac, avevano altre idee politiche.

Già in Diderot troviamo formulati gli elementi fon-damentali della teoria naturalistica del dramma. Egliesige infatti non solo la motivazione naturale, psicolo-gicamente vera, del processo interiore, ma anche l’esat-tezza nella descrizione dell’ambiente e il verismo degliscenari. Egli auspica, presumibilmente in omaggio allospirito del naturalismo, che l’azione, anziché in un fina-le di grande effetto scenico, si risolva in una serie di qua-dri impressionanti per l’occhio, e pare che egli immagi-ni qualcosa come dei «quadri viventi», nello stile diGreuze. Evidentemente per lui il fascino dell’elementovisivo è piú forte, in un dramma, dell’efficacia pura-mente intellettuale della dialettica drammatica. Anchenel campo della parola e del suono preferisce effettinaturali, sensibili. Egli vorrebbe limitare l’azione allapantomima, e la dizione a frasi ed esclamazioni stacca-te. Ma soprattutto egli vuol sostituire al verso – al rigi-do, pomposo alessandrino – il linguaggio quotidiano sce-vro di retorica e di pathos. Sempre egli cerca di smor-zare la sonorità della tragedia classica, di attenuarne icolpi di scena. Senza dubbio lo guida la predilezione delgusto borghese per tutto quel che è intimo, immediato,sentimentale. La visione artistica borghese, che soprat-

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tutto mira a rappresentare la vita come fine a se stessa,tende a conferire anche alla scena l’aspetto del micro-cosmo in sé conchiuso. Per questa via s’intende l’idea diquella fittizia «quarta parete», che viene anch’essa indi-cata per la prima volta da Diderot. La presenza di spet-tatori sul palcoscenico disturbava, veramente, ancheprima; ma Diderot auspica addirittura che i drammivengano recitati come se non ci fosse pubblico affatto.Di qui s’inizia il dominio del totale illusionismo sul tea-tro, che mira a nasconderne e negarne il carattere di fin-zione.

La tragedia classica vede l’uomo isolato e lo rappre-senta come un’entità spirituale a sé stante, autonoma,solo esteriormente in contatto con la realtà materiale,ma nell’intimo affatto indipendente da essa. Il drammaborghese invece lo pensa come parte e funzione del-l’ambiente e lo descrive come un essere che, invece didominare la realtà delle cose, come nella tragedia, neviene dominato e assorbito. L’ambiente non è piú solosfondo e cornice, ma contribuisce attivamente a foggia-re il destino umano. I confini fra il mondo intimo e l’e-sterno, fra spirito e materia, diventano fluidi e a poco apoco si cancellano: alla fine ogni atto, ogni decisione,ogni sentimento contiene in sé qualcosa di estraneo, diestrinseco, di materiale, qualcosa che non viene dal sog-getto e fa apparire l’uomo come il prodotto di una realtàpriva di mente e d’anima. Soltanto una società che noncrede piú che le differenze sociali siano necessarie evolute da Dio né che siano in rapporto con virtú e meri-ti personali, una società che esperimenta il potere sem-pre crescente del denaro e intorno a sé altro non vede,se non che gli uomini diventano quel che ne fanno le cir-costanze; ma tuttavia consente a questa dinamica socia-le, perché o le deve la propria ascesa o se la ripromette;solo una società come questa poteva lasciar maturare ildramma nelle categorie dello spazio e del tempo reali, e

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sviluppare il carattere dei personaggi dal loro ambientemateriale. Quanto forti fossero le cause sociali di que-sto naturalismo e materialismo mostra chiaramente lateoria di Diderot sui personaggi del dramma: egli pensache la loro condizione sociale sia piú reale e importantedella loro psicologia individuale e il fatto che esercitinola professione di giudice, o di funzionario, o di mercanteabbia maggior peso che non la somma delle caratteristi-che personali. Il nocciolo di tutta la dottrina è costitui-to dalla supposizione che lo spettatore possa piú diffi-cilmente sottrarsi all’effetto del dramma, se vede rap-presentata sulla scena la sua stessa condizione, ch’eglideve logicamente riconoscere, piuttosto che il suo spe-ciale carattere, ch’egli può, volendo, rinnegare7. Nel-l’intento di costringere lo spettatore a identificarsi congli elementi della sua stessa classe, ha la sua vera origi-ne la psicologia del dramma naturalistico, che interpre-ta i caratteri come fenomeni sociali. Per quanto ricca diobiettiva verità possa essere una simile interpretazione,tuttavia, elevata a principio esclusivo, essa porta alla fal-sificazione dei fatti. L’assunto che l’uomo sia semplice-mente un essere sociale ci porta a costruirci dell’espe-rienza un’immagine non meno arbitraria di quella offer-ta da chi non vede nell’uomo che l’individuo, unico eincomparabile. Nei due casi si stilizza e si romanticizzala realtà. È indubbio che l’immagine, che un determi-nato tempo si foggia dell’uomo, dipende da fattori socia-li; e si tende a rappresentarlo ora come personalità auto-noma, ora come esponente di una classe, secondo l’o-rientamento sociale e i fini politici dei promotori dellacultura. Se il pubblico vuole che si accentui sulla scenal’origine sociale e il carattere di classe, è sempre segnoche, aristocratico o borghese, quel pubblico ha ormaiacquistato una coscienza di classe. E qui il problema, sel’aristocratico sia soltanto aristocratico e il borghese sol-tanto borghese, è del tutto indifferente.

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La concezione sociologica e materialistica per cuil’uomo appare come semplice funzione dell’ambiente,determina una nuova forma drammatica, del tuttodistinta dalla tragedia classica. Non solo essa degrada l’e-roe, ma pone in discussione la possibilità del dramma nelsenso tradizionale, poiché toglie all’uomo l’assoluta auto-nomia e quindi, in parte, anche la responsabilità delleazioni. E invero, che cosa può ancora venirgli attribui-to come azione reale, se la sua anima non è che il campodi battaglia di forze anonime? La valutazione moraledegli atti necessariamente perde ogni significato, o alme-no diviene assai dubbia, e l’etica del dramma deve risol-versi in pura psicologia e casistica. Infatti in un dram-ma in cui regna esclusiva la legge di natura non si puòfare ormai che un’analisi dei moventi e ricostruire lo svi-luppo psicologico per cui l’eroe giunge all’azione. A que-sto punto è l’intero problema della colpa ad essere rimes-so in discussione. I fondatori del dramma borghese ave-vano negato la tragedia, per introdurre nel dramma l’uo-mo con la sua umile colpa, determinata dalla realtà con-sueta; i loro successori negano la colpa, per salvare la tra-gedia. Il romanticismo elimina il problema persino nel-l’interpretare la tragedia antica e cosí l’eroe viene sca-ricato d’ogni colpa diventando una specie di superuomo,che manifesta la sua grandezza consentendo al propriodestino. L’eroe della tragedia romantica vince anchesoccombendo e supera il destino avverso, facendone lavera, perfetta soluzione del suo contrasto con la vita.Così, in Kleist, il principe di Homburg vince la pauradella morte e insieme abolisce l’apparente assurdità eincongruenza del suo destino, appena può decidere dellapropria vita. Egli si condanna a morte da sé, ricono-scendo in ciò l’unica possibile soluzione. L’accettazionedel destino, il non volerlo diverso, la prontezza, anzi laletizia del sacrificio sono la sua vittoria, pur nella rovi-na: la vittoria della libertà sulla necessità. Che poi alla

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fine egli non debba piú morire, risponde al processo diulteriore sublimazione e interiorizzazione che la trage-dia ha subito. Il riconoscimento della colpa o di queltanto che ne è rimasto, il passare dall’accecamento allaluce della ragione, basta per espiare e ristabilire l’equi-librio. In sostanza nella tragedia romantica la colpa siriduce alla pertinacia dell’eroe, alla sua volontà pura-mente personale, alla sua esistenza individuale che rin-nega l’unità originaria. Cosí Hebbel dichiara che per ildrammaturgo è affatto indifferente che l’eroe cada perun’azione buona o per un’azione cattiva. Quest’inter-pretazione romantica della tragedia, culminante nell’a-poteosi dell’eroe, è ormai profondamente lontana dalleopere commoventi di Lillo e di Diderot, ma sarebbeinconcepibile senza la revisione del problema della colpadovuta ai primi drammaturghi borghesi.

Hebbel era pienamente conscio del pericolo che lamentalità borghese costituiva per la struttura del dram-ma; invece, contrariamente ai neoclassici, non disco-nobbe le nuove possibilità drammatiche che la vita bor-ghese in sé poteva presentare. Erano chiari gli inconve-nienti formali del dramma fondato sulla psicologia. Peri greci, per Shakespeare e, in certa misura, ancora per iclassici francesi, l’azione tragica era un fenomeno sini-stro, inspiegabile, irrazionale; il suo effetto sconvolgen-te dipendeva soprattutto dal suo essere incomprensibi-le. La motivazione psicologica la ridusse a una misuraumana e cosí riuscí piú facile, come del resto volevanoi rappresentanti del dramma borghese, riviverla senti-mentalmente. Ma i loro avversari, quando deplorano chenella tragedia si sia perduto quel senso di tremendo, diimmane e di ineluttabile, dimenticano che questo non èstato provocato dalla introduzione della psicologia; semai il contrario, la motivazione psicologica a un certopunto è diventata necessaria proprio perché il contenu-

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to irrazionale della tragedia non produceva piú alcuneffetto.

Il maggior pericolo che, con lo sviluppo psicologico el’interiorizzazione dei temi, minacciava il dramma comeforma teatrale, era la perdita di quell’evidenza palmare,di quell’immediatezza brutalmente impressionante,senza cui era impossibile qualsiasi effetto scenico, comeun tempo lo si concepiva. La struttura drammatica sifaceva sempre piú intima, spirituale, sempre piú lonta-na dal teatro di massa, sempre piú rispondente al godi-mento privato individuale. Ma per questa via perdeva-no la loro nitidezza i personaggi, oltre che l’azione e lasceneggiatura; divenivano piú ricchi, ma meno eviden-ti, piú veri, ma meno facilmente comprensibili, menopresenti allo spettatore, e meno facilmente riducibili aschemi da tenere a mente. Tuttavia proprio in questadifficoltà stava l’attrattiva precipua del nuovo dramma,che si allontanò sempre piú dal teatro popolare e dal granpubblico.

Il carattere sfumato dei personaggi richiedeva cheanche i conflitti fossero imprecisi, le situazioni tali chenon vi fossero ben definiti né i personaggi in contrasto,né i problemi in discussione. Questo tono non deciso,senza contrapposizioni marcate, era particolarmentedovuto all’etica borghese, psicologicamente comprensi-va e conciliante, sempre in cerca di spiegazioni e di atte-nuanti, secondo la norma del «tutto comprendere etutto perdonare». Finora nel dramma aveva dominatoun’unica misura dei valori morali, ammessa anche daimalvagi e dai bricconi8; ora che il rivolgimento socialeha provocato un generale relativismo etico, spesso ildrammaturgo oscilla fra due diversi orientamenti e lasciainsoluto il vero problema, come fa Goethe nel contra-sto fra il Tasso e Antonio. Discutere gli impulsi e la lorogiustificazione indeboliva, certo, l’ineluttabilità del con-flitto, ma ravvivava la dialettica del dramma; cosí che

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non si può affermare che il relativismo etico del dram-ma borghese abbia avuto solo un effetto di disgregazio-ne formale. Tutto sommato, la nuova morale borghesenon fu meno feconda per il dramma di quella aristocra-tico-feudale. Questa non conosceva altri doveri che quel-li verso il signore e verso la propria casta: offriva cosí lospettacolo imponente di conflitti in cui possenti e vio-lente personalità infierivano contro se stesse e contro glialtri. Invece il dramma borghese scopre i doveri versola società9 e descrive la lotta per la libertà e la giustiziadi uomini, che, se pur piú costretti esteriormente, nonsono nell’intimo meno liberi e arditi: una lotta forsemeno teatrale di quelle cruente della tragedia eroica, main sé altrettanto drammatica. Qui l’esito non è cosí ine-luttabile come in quelle, dove l’etica elementare dellafedeltà feudale e dell’eroismo, cavalleresco non permet-teva scampo, né compromessi, né terze soluzioni. Ilnuovo atteggiamento morale è perfettamente caratte-rizzato dalle parole di Lessing in Nathan il saggio: «Nes-sun uomo deve dovere», parole che, naturalmente, nonsignificano che l’uomo è libero da doveri, ma che è inti-mamente libero, cioè libero di scegliersi i mezzi, eresponsabile dei suoi atti solo verso se stesso. Nell’an-tico dramma si accentuavano i legami interiori, nelnuovo quelli esterni; ma questi, per quanto opprimenti,lasciano libero corso all’azione drammatica. «La trage-dia di un tempo si fonda su un dovere inflessibile, – diceGoethe nel suo scritto Shakespeare und kein Ende: –Ogni dovere è dispotico... Il volere invece è libero... èil dio del tempo... Il dovere fa grande e forte la trage-dia, il volere la fa debole e meschina». Goethe assumequi un atteggiamento conservatore e giudica il drammasecondo lo schema dell’antica, quasi religiosa espiazio-ne, e non già come un conflitto di coscienza e di volontà,qual esso è ormai divenuto. Egli rimprovera al drammamoderno di lasciare troppa libertà all’eroe; piú tardi i cri-

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tici cadranno nell’errore opposto pensando che non sipossa parlare di libertà, e quindi neppure di conflitto,dato il determinismo del dramma naturalistico. Essi noncomprenderanno che, ai fini dell’effetto drammatico,non ha alcuna importanza l’origine della volontà né ilmovente che la guida, né quanto in esso vi può esseredi «materiale» o di «spirituale», purché sfoci in un con-flitto drammatico10.

Del resto, il principio che questi critici contrappon-gono alla volontà dell’eroe è tutt’altra cosa da quellogoethiano; si tratta di due specie di necessità totalmen-te diverse. Goethe pensa alle antinomie del drammatradizionale, al conflitto tra dovere e passione, lealtà eamore, moderazione e orgoglio e deplora che nel dram-ma moderno sia diminuita la forza dei principî obietti-vi di fronte alla soggettività. Piú tardi invece, per neces-sità s’intendono, per lo piú, le leggi empiriche, speciequelle dell’ambiente fisico e sociale, la cui ineluttabilitàfu appunto scoperta dal Settecento. Quindi si parla pro-priamente di tre cose distinte: volontà, dovere e costri-zione. Cioè nel dramma moderno all’impulso indivi-duale sono due e differenti gli ordini obiettivi che con-trastano: uno etico-normativo e uno fisico-effettuale.L’idealismo filosofico afferma che è puramente acci-dentale che l’esperienza, in contrasto con l’universalevalidità delle norme etiche, risulti pienamente conformealla legge; e, nello spirito di questo idealismo, la moder-na teoria classicista ritiene corruttore nel dramma ildominio delle condizioni materiali della vita. Ma è soloun pregiudizio romantico-idealistico affermare che ladipendenza dell’eroe dall’ambiente materiale vanificaogni manifestazione di volontà, ogni conflitto dramma-tico, ogni effetto tragico e mette persino in gioco lapossibilità del dramma. Il mondo moderno, data lamorale conciliante e il senso della vita essenzialmentealieno da ogni tragicità, propri del mondo borghese,

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offre naturalmente alla tragedia meno materia della vitadi un tempo. Il pubblico borghese preferisce i lavori alieto fine alle grandi tormentose tragedie e non sente,come osserva Hebbel nella prefazione alla Maria Mag-dalena, alcuna vera differenza fra tragico e triste. Sem-plicemente, non capisce che la tristezza non implica latragedia, né la tragedia implica la tristezza.

Il Settecento amava il teatro e arricchí straordina-riamente la storia del dramma; ma non fu un’epoca tra-gica, che si rappresentasse i problemi dell’esistenzaumana sotto forma di inesorabili alternative. I grandiperiodi della tragedia sono quelli in cui si compionoradicali sovvertimenti sociali e una classe dominanteperde a un tratto potere e prestigio. I conflitti tragici perlo piú s’imperniano sui valori che costituiscono le basimorali di quel predominio, e la rovina dell’eroe simbo-leggia e trasfigura la rovina che minaccia tutta la classe.Sia la tragedia greca, sia il dramma inglese, francese, spa-gnolo dei secoli xvi e xvii sorgono in momenti di crisie simboleggiano il tragico destino delle aristocrazie del-l’epoca. Il dramma ne eroicizza e idealizza la rovina,intonandosi al sentire di un pubblico che appartiene ingran parte alla classe soccombente. E anche nel caso deldramma shakespeariano, se il suo pubblico non appar-tiene alla classe ormai sconfitta, e il poeta non parteg-gia per essa, tuttavia la tragedia attinge la sua ispirazio-ne, il suo concetto dell’eroismo e – la sua idea dellanecessità proprio dallo spettacolo che offre il destinodegli antichi signori. Invece, quando nella società pre-vale una classe che crede nella propria vittoria e nellapropria ascesa, non fiorisce il dramma tragico. L’otti-mismo, la fede nella vittoria della ragione e del dirittoevitano la soluzione tragica dell’intreccio drammatico, ocercano di ridurre la necessità a tragico accidente e dellacolpa fanno semplicemente un tragico errore. Shake-speare e Corneille differiscono da Lessing e da Schiller

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in quanto il loro eroe soccombe a una necessità supe-riore, invece che a una pura necessità storica. Non si puòpensare alcun ordine sociale in cui Amleto o Antonionon siano votati alla rovina; invece gli eroi di Lessing edi Schiller, Sara Sampson ed Emilia Galotti, Ferdinan-do e Luisa, Carlos e Posa, potrebbero esser felici e con-tenti in ogni altra società, in ogni altro tempo, fuor chenel loro, cioè in quello del poeta. Ma un’epoca per cuil’infelicità dell’uomo è determinata da condizioni stori-che, e non viene concepita come inevitabile e inesora-bile destino, può produrre tragedie, anche importanti,ma non dirà certo nella tragedia la sua ultima e piúprofonda parola. Può ben darsi che «ogni tempo espri-ma le necessità sue proprie, e quindi un suo propriosenso tragico»11, ma è innegabile che il genere tipico del-l’illuminismo non fu la tragedia, bensí il romanzo. Nelleepoche in cui fiorisce la tragedia, sono i rappresentantidelle antiche istituzioni che combattono l’ideologia e leaspirazioni della nuova generazione; nei tempi propizi auna forma di dramma non tragico è, per lo piú, la nuovagenerazione che attacca le vecchie istituzioni. Natural-mente, queste possono stroncare il singolo, che può soc-combere del resto anche di fronte ai rappresentanti diun mondo nuovo. Tuttavia una classe che creda al suofuturo trionfo considererà il proprio sacrificio comeprezzo della vittoria; mentre l’altra, che sente avvici-narsi irresistibilmente la sua fine, scorge nel tragicodestino dei suoi eroi il segno di un mondo in declino, diun crepuscolo degli dèi. Per una borghesia ottimistica,fiduciosa nel trionfo della propria causa, i colpi dellacieca sorte non sono i motivi di esaltazione né di abbat-timento; solo i ceti agonizzanti delle epoche tragiche tro-vano conforto nel pensiero che in questo mondo ognicosa grande e nobile è votata alla rovina e questa rovi-na vogliono porre in una luce trasfigurante. Forse la filo-sofia romantica della tragedia con la sua apoteosi del-

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l’olocausto è già un segno del decadere della borghesia.In ogni caso, una forma di dramma veramente tragicoche nuovamente metta al suo centro il destino nonnascerà dalla borghesia prima che essa si senta minac-ciata nella sua stessa vita; allora soltanto, come avvienein Ibsen, il destino batterà alla sua porta nel minaccio-so aspetto della trionfante gioventú.

L’esperienza tragica dell’Ottocento si distingue daquella di tempi piú lontani soprattutto perché la moder-na borghesia, a differenza delle antiche aristocrazie,non si sentiva minacciata soltanto dall’esterno. Era unaclasse di composizione cosí varia, cosí eterogenea neisuoi elementi, che fin dall’inizio pareva sul punto didisgregarsi. Comprendeva non solo elementi che aderi-vano ai gruppi reazionari, e altri che si sentivano legatiagli umili, ma, specialmente, quegli intellettuali social-mente sradicati, che civettavano ora con i ceti superio-ri ora con gli inferiori, e quindi rappresentavano in partele idee del romanticismo reazionario e antilluminista, inparte peroravano la causa della rivoluzione permanente.Comunque fu per opera loro, se la borghesia cominciòa dubitare del proprio diritto all’esistenza e della soliditàdel proprio ordine sociale. Furono essi a dare origine aun modo di sentire antiborghese o «sovraborghese»,alla convinzione cioè che la borghesia aveva tradito lapropria idea originaria e doveva ormai superare se stes-sa, sforzandosi verso un ideale umano di valore univer-sale. Veramente queste tendenze «sovraborghesi» per lopiú avevano un’origine antiborghese e antidemocratica.L’evoluzione di Goethe, di Schiller e di molti altri scrit-tori, specie in Germania, dagli inizi rivoluzionari all’at-teggiamento degli anni maturi, conservatore e spessoreazionario, corrispondeva a un generale movimentoreazionario nel seno della stessa borghesia e al suo tra-dimento dell’illuminismo. Gli scrittori non erano in que-sto caso che interpreti del loro pubblico; ma non di rado

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avvenne che essi sublimassero lo spirito reazionario deilettori e, con la loro coscienza meno salda e con la loromaggior capacità di fingere, simulassero alti ideali«sovraborghesi», quando in realtà erano ricaduti a unlivello preborghese e antiborghese. Questa psicologiadella rimozione e della sublimazione, assunse spesso unastruttura cosí complicata da non lasciare piú distingue-re in molti casi le diverse tendenze. Si è potuto chiari-re che, ad esempio, in Cabala e amore di Schiller s’in-contrano tre generazioni, quindi tre diverse mentalità:quella preborghese degli ambienti di corte, quella bor-ghese della famiglia di Luisa e quella «sovraborghese»di Ferdinando12. Ma quest’ultima si distingue da quellaborghese soltanto perché piú larga e spregiudicata. Irapporti sono già assai piú complicati in un’opera comeil Don Carlos, dove Posa, con il suo spirito sovrabor-ghese, riesce a comprendere Filippo e, in certo modo,perfino a simpatizzare con l’«infelice» sovrano. Insom-ma, diventa sempre piú arduo stabilire se l’ideologia«sovraborghese» del drammaturgo risponda a una ten-denza progressista o reazionaria, e se qui si tratti di unautosuperamento del borghese o semplicemente di unadiserzione. Comunque, gli attacchi alla borghesia diven-tano un tratto essenziale del dramma borghese e il ribel-le alla morale e al costume borghesi, il derisore delle con-venzioni e della meschinità filistee, è ormai una figurastereotipa. Per seguire il graduale sottrarsi della lettera-tura moderna allo spirito borghese, sarebbe grande-mente illuminante un’indagine sulle successive meta-morfosi di questo personaggio dallo Sturm und Drangfino a Ibsen e a Shaw. Infatti qui non si tratta sempli-cemente del tradizionale ribelle contro l’ordine costi-tuito, che è una delle figure originarie del dramma, nédi una variante di quella ribellione contro i potenti checostituisce una delle fondamentali situazioni drammati-che, bensí dell’attacco deliberato e sistematico alla bor-

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ghesia, alle basi della sua vita spirituale e alla sua pre-tesa di rappresentare una morale universalmente valida.In breve, siamo di fronte a una forma letteraria che èstata l’arma piú efficace della borghesia e si è mutata inpericoloso strumento che la estrania da se stessa e ladeprime.

1 george lillo, The London Merchant or the History ot GeorgeBarnwell, 1731, IV, 2.

2 leslie stephen, English Literature ecc. cit., p. 66.3 mercier, Du Théâtre ou Nouvel essai sur l’art dramatique, 1773;

citato da f. gaiffe Le Drame en France ecc. cit., p. 91.4 clara stockmeyer, Soziale Probleme im Drama des Sturmes und

Dranges, 1922, p. 68.5 beaumarchais, Essai sur le genre dramatique sérieux, 1767.6 rousseau, La Nouvelle Héloïse, II, Lettera xvii,7 diderot, Entretiens sur le Fils naturel, in Œuvres, VII, p. 150.* Il mercante di Londra.8 g. lukács, Zur Soziologie des modernen Dramas, in «Archiv für

Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», vol. XXXVIII, 1914, pagine330 sgg.

9 arthur elösser, Das bürgerliche Drama cit., p. 13. paul ernst,Ein Credo, 1912, I, p. 102.

10 Cfr. g. lukács, Zur Soziologie ecc. cit., p. 343.11 a. elösser, Das bürgerliche Drama cit., p. 215.12 fritz brüggemann, Der Kampt um die bürgerliche Welt- und

Lebensanschauung in der deutschen Literatur des 18. Jahrhunderts, in«Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geiste-sgeschichte», iii, 1925, i.

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Capitolo quarto

La Germania e l’illuminismo

Dal punto di vista sociologico, il romanticismo set-tecentesco fu in tutta Europa un fenomeno pieno di con-traddizioni. Da un lato continuò, intensificandolo, ilprocesso di emancipazione della borghesia iniziatosi conl’illuminismo, e diede espressione a un sentimentalismoe a un’esuberanza plebea, che venivano a opporsi all’a-ristocratico e sostenuto intellettualismo dei ceti supe-riori; dall’altro rappresentò la reazione di questi ultimicontro il razionalismo «disgregatore» e il riformismoilluministico. La sua fortuna cominciò fra quella classemedia che l’illuminismo aveva appena sfiorata, e quellaparte della borghesia che riteneva il pensiero illumini-stico ancor troppo legato alla cultura classica; ma a pocoa poco se ne impadronirono quei ceti che intendevanovalersi delle inclinazioni sentimentali del tempo per iloro fini ostili all’illuminismo, reazionari in religione ein politica. Tuttavia, mentre in Francia e in Inghilterrala classe borghese fu sempre conscia della sua posizionee non rinunziò mai del tutto alle conquiste dell’illumi-nismo, in Germania si abbandonò alla corrente del pen-siero romantico irrazionale prima di aver vissuto a fondol’esperienza razionalistica. Il che non vuol dire che ilrazionalismo, come dottrina accademica, non avesseesponenti in Germania: anzi, nelle università tedeschela teoria era forse piú fortemente rappresentata chealtrove; ma rimaneva appunto dottrina accademica, spe-

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cialità di eruditi e di poeti convenzionali. Mai il razio-nalismo era riuscito a permeare di sé la vita pubblica, ilpensiero politico-sociale di larghi strati, il costume dellaborghesia. Certamente non mancarono in Germaniafigure di grandi illuministi, come Lessing, forse la figu-ra piú schietta e umanamente attraente di tutto il movi-mento; ma i seguaci sinceri, chiaroveggenti e fermi delleidee illuministiche vi furono sempre fenomeni isolati, erappresentarono delle eccezioni anche fra gli intellet-tuali. I piú fra costoro e fra i borghesi erano incapaci dicomprendere l’importanza dell’illuminismo in rapportoai loro interessi di classe; era facile travisare ai loroocchi il carattere del movimento, facile mettere in cari-catura i limiti e le insufficienze del razionalismo. Certo,non bisogna immaginare questo fenomeno come unacongiura in cui gli scrittori fossero mercenari e compli-ci dei dirigenti politici. Probabilmente neppure i verimanovratori dell’opinione pubblica ammettevano nelloro intimo che qui si compiva una falsificazione ideo-logica dei fatti; in ogni caso è certo che gli intellettualiaraldi della borghesia erano ben lungi dall’esser conscidi un inganno o di un tradimento.

Ma come sorse negli intellettuali questa erronea visio-ne, questa imprevidenza politica, che finì col portare laGermania alla tragedia? Come spiegare che la borghe-sia tedesca non abbia mai veramente accolto l’illumini-smo, e che sia mancato del tutto un ceto compatto d’in-tellettuali progressisti, con una viva coscienza di classe?L’illuminismo rappresentò la prima educazione politicadella moderna borghesia, la sua scuola primaria, senzala quale sarebbe inconcepibile la parte da essa avutanella storia intellettuale degli ultimi due secoli. Per suasventura, la Germania a suo tempo trascurò questa scuo-la e la perdita fu irreparabile. Quando in Europa vennel’ora dell’illuminismo, in Germania il ceto colto non eraabbastanza maturo per intenderlo; e dopo, non fu piú

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cosí facile sorvolare sulle sue ingenuità e sui suoi pre-giudizi. Ma il ritardo degli intellettuali tedeschi insostanza non spiega niente; è anch’esso un fenomeno daspiegare. Nel corso del Cinquecento la borghesia tede-sca aveva perduto il suo influsso economico e politico,che era venuto aumentando dalla fine del Medioevo, econ esso la sua importanza culturale. Il commercio inter-nazionale si spostò dal Mediterraneo verso l’Atlantico,le città anseatiche e della bassa Germania vennero sop-piantate dagli Olandesi e dagli Inglesi; e quelle meri-dionali, come Augusta, Norimberga, Ratisbona e Ulma– capitali della cultura tedesca – decaddero insieme conle città mercantili d’Italia, a cui i Turchi tagliarono, coltempo, le vie del commercio mediterraneo. La deca-denza delle città tedesche significò il tramonto dellaborghesia; i principi non ebbero piú nulla da sperarne,né da temerne. L’assolutismo, già nell’ultimo Cinque-cento, si era sostanzialmente rafforzato anche all’Ove-st, dando luogo a una restaurazione aristocratica. Ma lemonarchie occidentali non cessarono mai del tutto diappoggiarsi ai ceti medi nella loro lotta contro la fron-da nobiliare; quanto alla nobiltà, o lasciò alla borghesiatutto il campo dell’industria e del commercio, comeavvenne in Francia, o le si associò nello sfruttamentodella congiuntura economica, come in Inghilterra. Inve-ce i principi tedeschi, che dopo la repressione delle rivol-te contadine erano rimasti padroni incontrastati delpaese, vedevano un pericolo nei contadini e nei bor-ghesi, non certo nella nobiltà, di cui facevano parte, edi cui rappresentavano la politica di fronte all’impera-tore. In Germania i signori, a differenza dei re di Fran-cia e d’Inghilterra, erano latifondisti con prevalenti inte-ressi feudali, e piú o meno indifferenti al benessere dellaborghesia e delle città. Queste furono annientate, eco-nomicamente e politicamente, dalla guerra dei Trent’an-ni, che completò la rovina del commercio tedesco1. La

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pace di Westfalia venne a suggellare il particolarismotedesco, consolidando la sovranità dei principi maggio-ri e minori; con ciò si sanzionarono situazioni, al cui con-fronto si può considerare progredito l’Occidente, dovein certo modo il re rappresentava l’unità della nazionee talvolta ne difendeva gli interessi anche contro l’ari-stocrazia. Tra il re e l’insubordinata nobiltà rimase sem-pre in Occidente una certa tensione, benché le due partisi fossero riconciliate e la borghesia ne traesse un nettovantaggio; in Germania invece principi e nobili eranosempre uniti, quando si trattava di spogliare le altreclassi di qualche diritto. Nelle monarchie occidentali laborghesia si era insediata nell’amministrazione, e non fupiú possibile escluderla del tutto; ma in Germania, dovela lealtà dell’esercito e della burocrazia costituí la basedi un nuovo feudalesimo, le cariche, ad eccezione degliimpieghi subalterni, erano riservate all’alta nobiltà e aisignorotti di provincia. Il popolo subiva l’oppressionedei funzionari della Corona, alti o bassi che fossero, pro-prio come un tempo aveva subito quella degli ammini-stratori feudali, e anche piú duramente. In Germania icontadini non avevano mai conosciuto altro che la ser-vitú della gleba, ma ora anche la borghesia perdettetutto quello che si era conquistata nel corso dei secolixiv e xv. Cominciò con l’impoverirsi e fu spogliata deisuoi privilegi, poi smarrí anche la fiducia in se stessa ela stima di sé. Infine sviluppò dalla sua miseria quegliideali di sudditanza, quella lealtà e fedeltà che permet-teva a ogni borghesuccio strisciante nella polvere di sen-tirsi al servizio di una sublime idea.

Come lo sviluppo dal mercantilismo alla libertà delcommercio e dell’industria in Germania procede congrande lentezza e non si conclude che nel 18502, cosísolo nella seconda metà dell’Ottocento il potere centra-le riesce a imporsi stabilmente sui vari principi. L’in-terregno, come osserva uno storico francese, dura in

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pratica fino al 18703. Nel Cinquecento l’impero rigua-dagna momentaneamente terreno e, portato dalla cor-rente del tempo incline all’assolutismo, Carlo V riesce aconsolidarne l’autorità, ma non a fiaccare la potenza deiprincipi. Troppi sono i problemi, perché possa dedicar-si a modificare le condizioni della Germania. Del resto,in vista dei suoi piú ampi interessi europei, egli devesenz’altro sacrificare la causa della Riforma tedesca a unriguardo per il papa, e così perde irrimediabilmente l’oc-casione di unificare la Germania, grazie a un vero movi-mento popolare4. Egli lascia che siano i principi tedeschiad approfittare dei vantaggi che si possono trarre da unappoggio alla Riforma, e ad essi infatti Lutero pronta-mente consegna lo strumento del potere ecclesiastico,preponendoli alle Chiese locali e conferendo loro l’au-torità di guidare, d’ora in poi, la vita dei sudditi anchein questo campo e di assumersi la cura della loro saluteeterna. I principi s’impadroniscono dei beni della Chie-sa, decidono delle nomine ecclesiastiche, prendono inmano l’educazione religiosa, e cosí non fa meraviglia chele Chiese locali diventino sostegni fidatissimi del loropotere. Esse predicano il dovere dell’obbedienza all’au-torità, confermano il favore divino all’augusto signore ecreano cosí quello spirito ottuso, meschino, conservato-re, che sarà tipico del luteranesimo tedesco del Seicen-to. Lo staterello dispotico, a cui nel paese non vi è ormaiforza che si opponga, estrania anche dalla Chiesa i cetiprogressisti.

Lo spirito borghese del Quattro e del Cinquecentosparisce dall’arte e dalla cultura tedesche, se possiamoancora dirle tedesche dopo la pace di Westfalia. Orainfatti, non soltanto ci si ispira come discepoli e segua-ci allo stile aulico-aristocratico di Francia, ma lo si faproprio importando direttamente artisti e opere, o imi-tando servilmente modelli francesi. Tutti i duecentostaterelli vorrebbero emulare il re di Francia e la corte

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di Versailles. Cosí nella prima metà del Settecento sor-gono gli splendidi castelli dei principi tedeschi:Nymphenburg, Schleissheim, Ludwigsburg, Pommer-sfelden, lo Zwinger di Dresda, l’Orangerie di Fulda, leresidenze di Würzburg, Bruchsal, Rheinsberg, Sans-souci – tutti costruiti con una grandiosità e decorati conun lusso affatto sproporzionati alla forza e ai mezzi delpaese, in genere assai piccolo e povero. Grazie a talesfarzo si sviluppa nell’arte una varietà tedesca delRococò francese e italiano. Ma la letteratura poco sigiova dell’ambizione dei principotti e i poeti ne ricevo-no scarso incoraggiamento, se si eccettuano alcune cortidelle Muse, che tuttavia sorgono soltanto verso la finedel secolo. «La Germania brulica di principi, che per trequarti mancano affatto di buonsenso, e sono la vergo-gna e il flagello dell’umanità – scrive un contemporaneo.– Per quanto piccoli siano i loro paesi, essi s’immagina-no che l’umanità sia fatta per loro»5. C’erano tuttaviavarie specie di principi: piú e meno colti, piú e menodispotici, illuminati e retrogradi, amanti dell’arte e avidisoltanto di sfarzo; ma certo non ce n’era uno che nonfosse pienamente convinto che per un semplice morta-le il senso della vita consistesse nel lasciarsi dominare esfruttare.

Il denaro che non veniva consumato nel lusso pazze-sco, nelle presuntuose costruzioni, nelle spese di corte enelle amanti del principe, si usava per l’esercito e per laburocrazia. L’esercito, naturalmente, aveva solo compi-ti di polizia e costava relativamente poco; tanto piúpesava la burocrazia sulla nazione. Il particolarismo diquesti stati già di per sé determinava il moltiplicarsi deifunzionari, e il fenomeno si aggravava ancor piú per lagenerale burocratizzazione dello stato, per il passaggiodelle funzioni un tempo proprie delle corporazioniall’apparato statale, per la predilezione per rescritti eordinanze e per la generale tendenza a regolamentare la

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vita pubblica e privata. Anche in Francia dominava lostesso sistema politico, economico e sociale, anche làl’intervento e la cattiva amministrazione statale incep-pavano gli affari e l’attività del borghese e lo danneg-giavano, e, come in Germania, egli era spogliato deisuoi diritti e trascurato; ma nei piccoli principati tede-schi tutto ciò opprimeva e umiliava assai di piú. Nel-l’immediata vicinanza della corte, sotto la pressione diun gretto apparato statale e di un principe esigente eprodigo, sotto gli occhi di funzionari meno influenti, maugualmente inumani, il borghese in Germania ha unavita ancor piú travagliata e precaria. È vero che il ser-vizio di stato assorbe nelle funzioni subalterne una partenotevole del ceto medio, ma corrompe i piccoli impie-gati, perché l’impiego statale è per la maggior parte diloro l’unica possibilità di vita decorosa. Per un borghe-se che non si occupi di commercio o d’industria nonresta che diventare funzionario dello stato, legale del-l’amministrazione, sacerdote della chiesa locale o inse-gnante in un istituto pubblico.

L’impotenza della classe borghese, esclusa dal gover-no e, si può dire, da ogni attività politica, genera unapassività che si estende a tutta la vita culturale. Il cetointellettuale, composto d’impiegati subalterni, maestri discuola e poeti estraniati dal mondo, si abitua a traccia-re una linea divisoria tra la vita privata e la politica, e arinunziare senz’altro a ogni influsso pratico. Se ne com-pensa aumentando il proprio idealismo e accentuando-ne il disinteresse, e abbandona il timone dello stato aipotenti. In tale rinunzia si manifesta non solo una com-pleta indifferenza verso la situazione sociale, apparen-temente immutabile, ma anche un netto disprezzo dellapolitica come professione. In tal modo l’intellettualeborghese perde ogni contatto con la realtà sociale, ridu-cendosi sempre piú isolato, eccentrico, stravagante. Ilsuo pensiero diventa puramente contemplativo e specu-

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lativo, irreale e irrazionale; la sua espressione si fa biz-zarra, presuntuosa, incomunicabile, senza alcuna consi-derazione per gli altri e riluttante ad ogni correzione dal-l’esterno. Egli si ritrae su un piano «genericamenteumano», al disopra delle classi, dei ceti e dei gruppi, fauna virtú del proprio difetto di senso pratico, e lo chia-ma idealismo, interiorità, trionfo sui limiti spaziali etemporali. Dall’involontaria passività si sviluppa unideale di vita idilliaca, dalla costrizione esteriore l’ideadell’intima libertà e della sovranità dello spirito sullacomune realtà empirica. Si giunge cosí in Germania allacompleta scissione della letteratura dalla politica e scom-pare quel rappresentante dell’opinione pubblica, bennoto all’Occidente, che è insieme scrittore e uomo poli-tico, pubblicista e studioso, buon filosofo e buon gior-nalista.

L’evoluzione sociale, che dalla fine del Medioevo eravenuta dividendo la borghesia tedesca in vari ceti net-tamente graduati, si arrestò nel Cinquecento. S’iniziòuna nuova integrazione, che fu in sostanza un processoinvolutivo, che riportò a una classe borghese piuttostoindifferenziata, quale ci appare nel Seicento. Gli stratipiú larghi di essa avevano rinunziato alle loro esigenzeculturali e l’alta borghesia si era cosí diradata, che noncontava piú gran che come fattore di cultura. Di un ele-vato stile di vita proprio del ceto medio e di una sua par-ticolare visione che si esprimesse nell’arte o nella lette-ratura non si poté piú parlare. Piuttosto si diffuse unlivello medio molto modesto, che ricordava le primitivecondizioni dell’alto Medioevo. I rivolgimenti del Cin-quecento, specie lo spostarsi dei centri dell’economiamondiale e il rafforzarsi dell’assolutismo, distrussero ifrutti di quelle che erano state epoche auree della bor-ghesia, il tardo Medioevo e il Rinascimento. Nulla rima-se di quella cultura che si fondava sulla concezione bor-ghese della vita; nulla dei suoi principî né del suo idea-

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le artistico; nulla dell’atmosfera intellettuale di un’epo-ca in cui gli indirizzi generali, le piú avanzate tendenzeartistiche e filosofiche, si esplicavano nelle forme delpensiero e dell’esperienza borghesi, e le personalità dimaggior rilievo, come Dürer e Altdorfer, Hans Sachs eJakob Böhme, erano esponenti di esse.

La borghesia, che con lo sviluppo dell’economiamonetaria, il rigoglio delle città e la decadenza del feu-dalesimo aveva acquistato ricchezza e prestigio, coldenaro e con la lotta si era assicurata l’autonomia dellemaggiori città, assumendone l’amministrazione, e avevaoccupato importanti posizioni anche nel governo dellostato, nel consiglio privato del principe e nella magi-stratura. Ma per il declino delle città tedesche, cheimplicò la decadenza della borghesia, e la progressivarovina economica della nobiltà, già alla fine del Cin-quecento gli elementi borghesi vennero rimossi dagliuffici dello stato e della corte, dove li sostituirono inobili6. La guerra dei Trent’anni, peggiorando anche lacondizione delle classi feudali, rinnovò e affrettò l’as-salto alle cariche da parte della nobiltà e precluse allaborghesia i gradi piú alti della carriera burocratica. InFrancia la nobiltà di toga, per lo piú d’origine borghe-se, si sviluppò accanto alla nobiltà di campagna e dicorte; in Germania invece fu la nobiltà terriera e caval-leresca a trasformarsi in casta burocratica, e nel Sette-cento la borghesia venne respinta a uffici subalterniassai piú radicalmente di quanto avveniva altrove. Lavittoria dei principi significò la fine degli «stati» comeforze politiche, cioè spodestò nobiltà e ceto medio. Daallora, il potere politico fu uno solo: quello del princi-pe. Ma avvenne ciò che suole avvenire in questi casi: iprincipi compensarono la nobiltà e lasciarono a manivuote la borghesia. Il quadro della società tedesca èormai dominato da due gruppi: gli alti funzionari delgoverno e della corte, che intorno ai principi costitui-

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scono quasi un nuovo vassallaggio, e la burocrazia subal-terna, composta dei loro servi piú docili. Del servilismoverso i superiori gli uni si rivalgono con una sfrenatabrutalità verso gl’inferiori, gli altri con un culto delladisciplina che fa del capo un «intimo censore», e del-l’adempimento del dovere burocratico una religione.

Ma il progresso del commercio e dell’industria, nono-stante gl’impedimenti che la piccolezza degli stati, i lorointeressi particolaristici e le loro finanze trascurate,oppongono allo sviluppo economico, alla lunga non sipuò trattenere. La borghesia torna ad arricchirsi e rico-mincia a differenziarsi a seconda del patrimonio. Dap-prima spicca sul ceto medio una borghesia che puòpagarsi la protezione dei funzionari di corte e adottareanch’essa la moda di Francia. Unica fonte di cultura nelpaese, accanto alla nobiltà di corte, essa diffonde fra gliintellettuali il gusto francese e il disprezzo delle tradi-zioni locali. La letteratura francese acquista il predomi-nio nelle università e trova in Gottsched, il dotto poeta,tipico del tempo, il suo piú ardente fautore; l’arte bor-ghese del Rinascimento tedesco e le scarse tracce che nesono rimaste come tradizione viva, gli sembrano, in con-fronto con l’ideale dell’arte francese, rozze, poco svi-luppate e di cattivo gusto. Eppure Gottsched non puòaffatto esser considerato il portavoce letterario dell’ari-stocrazia; piuttosto egli è l’esponente della borghesiache, del resto, non ha ancora un suo ideale artistico enon possiede né uno spiccato carattere nazionale, né unachiara coscienza di classe. Non bisogna dimenticare, èvero, che anche la cultura dell’aristocrazia, presa amodello dai borghesi, e persino quella della nobiltà dicorte non è che pseudocultura, messa insieme sulla fal-sariga di luoghi comuni, spesso vacui7. La letteraturaamena d’argomento profano che, si può dire, costituiscel’unica esigenza culturale di quei ceti, intorno al 1700si limita ancora ai generi in voga alla corte e fra la

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nobiltà di Francia, e soprattutto al romanzo eroico,pastorale, amoroso, e alla tragedia eroica. Ma gli auto-ri, a differenza di quel che accade in Francia e in Inghil-terra, sono in Germania per lo piú uomini di culturaaccademica, cioè docenti universitari, giuristi e funzio-nari di corte, e in gran parte appartengono all’alta bor-ghesia. Fra loro ci sono anche aristocratici come il baro-ne von Canitz, Friedrich von Spee e Friedrich vonLogau, ma quasi nessun rappresentante dei ceti inferio-ri8. A parte i grandi signori, che scrivono per diletto per-sonale e passatempo, tutti questi autori dipendono diret-tamente o indirettamente dalle corti, o perché al servi-zio dei principi, o perché insegnanti in qualche univer-sità.

Klopstock è il primo tedesco che sia poeta di profes-sione nel senso europeo del termine, sebbene neppurelui riesca ad affrancarsi del tutto da protettori privati.Prima di Lessing e dello sviluppo della letteratura dalgrembo fertile della grande città, non ci sono in Ger-mania scrittori liberi. Per molto tempo l’alta borghesiaresta fedele alla moda di Francia e alle forme della poe-sia aulica. Sappiamo che perfino in una città mercanti-le come Lipsia, il gusto del Rococò dominava ancoraquando Goethe vi era studente. Tuttavia furono propriole città mercantili, anzitutto Amburgo e Zurigo, a libe-rarsi per prime dalla dittatura del gusto aulico, dandoasilo alla letteratura borghese. Dopo la metà del secolo,c’è ancora qualche residenza principesca in cui la poe-sia trova protezione (Weimar ne è l’esempio classico);ma la poesia di corte vera e propria scompare. Non soloper l’origine e le simpatie, ma anche per le forme dellasua attività letteraria (egli è principalmente critico egiornalista) Lessing è il rappresentante della borghesiae della vita urbana. Berlino ha già i caratteri della gran-de città, quando egli vi si stabilisce. Ha centomila abi-tanti e gode – effetto, in parte, della guerra dei Sette

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anni – di una certa libertà di discussione e di critica.Certo Federico II interviene non appena la critica scon-fina dall’argomento religioso9. A questi limiti piuttostosignificativi della libertà di discussione accenna ancheLessing in una lettera a Nicolai: .«Codesta libertà ber-linese, – egli scrive, – si riduce... alla libertà di portareal mercato quante sciocchezze si vogliono contro la reli-gione... Vada a Berlino uno che voglia elevare la suavoce per i diritti dei sudditi, contro lo sfruttamento e ildispotismo... e presto farà l’esperienza del paese piúschiavista d’Europa». Eppure Lessing sapeva benissimoperché andava a Berlino: in quella gran città si respira-va un’aria diversa da quella delle anguste corti di pro-vincia e delle università segregate dal mondo, i soli luo-ghi che si offrissero a uno scrittore per esplicarvi la suaattività10. È vero che Lessing faceva la vita del lettera-to che lavora a giornata, ordinando biblioteche, disim-pegnando funzioni di segretario, facendo traduzioni;ma in complesso era indipendente. Che cosa quell’indi-pendenza gli costasse, lo si può immaginare dalla suarisposta a chi gli domandava perché la sua scrittura fossecosí minuta: i suoi onorari non avrebbero coperto lespese di carta e d’inchiostro, s’egli avesse scritto incaratteri piú grandi. Alla fine, passata la quarantina, nongli rimase che piegarsi al giogo, contro cui fino alloraaveva recalcitrato. Egli entrò al servizio di un principee passò gli ultimi tormentosi anni della sua vita a Wol-fenbüttel, come bibliotecario del duca di Brunswick.Tuttavia migliorano le sorti della letteratura tedesca.Cresce il numero degli scrittori (nel 1773 in Germaniane esistevano circa tremila, il doppio nel 1787) e negliultimi decenni del secolo molti potevano già vivere delloro lavoro letterario11. Ma i piú, ancora nell’età roman-tica, dovevano esercitare anche un’altra professione.Gellert, Herder, Lavater erano teologhi; Hamann,Winckelmann, Lenz, Hölderlin, Fichte, precettori;

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Gottsched, Kant, Schiller, Görres, Schelling e i fratel-li Grimm, professori universitari; Novalis, A. W. Sch-legel, Schleiermacher, Eichendorff, E. T. A. Hoffman,impiegati statali.

Con lo Sturm und Drang la letteratura tedesca diven-ta interamente borghese, sebbene i giovani ribelli sianotutt’altro che riguardosi verso la borghesia. Ma in lorola protesta contro i soprusi dei despoti e l’entusiasmo perla libertà sono genuini e sinceri, come è sincera la loroostilità all’illuminismo. E sebbene essi costituiscano sol-tanto un gruppo non molto coerente di esaltati ignari delmondo e di stravaganti, tuttavia le loro radici borghesisono profonde ed essi non possono rinnegare la propriaorigine. In Germania tutta la cultura dello Sturm undDrang fino al romanticismo è un portato della borghe-sia; le guide spirituali del tempo pensano e sentono daborghesi, e soprattutto di elementi borghesi è compostoil pubblico a cui si rivolgono. Anche se non comprende,veramente, tutti gli strati della borghesia, anzi spesso silimita a un’élite non molto numerosa, tuttavia rappre-senta una tendenza progressista e segna la fine dellacultura aulica. La borghesia si sviluppa cosí in classecolta, che si distingue non solo dalla nobiltà, ma anchedagli ambienti accademici, e costituisce un collegamen-to fra il mondo della prassi e quello dello spirito, comepure fra gli intellettuali piú autorevoli e la massa dellanazione. Ora la Germania diventa quel «paese del cetomedio» in cui l’aristocrazia si rivela sempre piú impro-duttiva, mentre la borghesia, benché politicamentedebole, s’impone intellettualmente e con il suo raziona-lismo va scalzando ogni altra forma di cultura. Il razio-nalismo settecentesco è di quei movimenti, che posso-no venir rallentati, ma non arrestati dalle controcorren-ti reazionarie. Nessun gruppo sociale può rifiutarlo deltutto, e tanto meno il ceto intellettuale tedesco, inclineall’irrazionale solo perché fraintende i suoi veri interes-

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si. In breve, questa è la situazione in Germania: la vitadei ceti responsabili della cultura s’imborghesisce, leforme del loro pensiero e della loro esperienza si razio-nalizzano, e subiscono un profondo rivolgimento. Nasceun nuovo tipo d’intellettuale, intimamente libero datradizioni e convenzioni, ma che nella realtà politico-sociale non può, e spesso non vuole, esercitare un ade-guato influsso. Egli cosí finisce per opporsi al razionali-smo, di cui è l’involontario portatore, e in parte sostie-ne quelle tendenze conservatrici, che egli crede di com-battere. Qui, tratti conservatori e reazionari dappertut-to si confondono con quelli progressisti e liberali12.

Lessing sapeva che il «superamento» del razionalismoper opera dello Sturm und Drang era un’aberrazionedella borghesia; per questo si mantenne cosí riservatoanche di fronte alle opere giovanili di Goethe, special-mente di fronte al Gœtz e al Werther13. Le critiche dellanuova generazione alla razionalistica filosofia popolareerano senza dubbio giustificate, ma in quelle condizio-ni sorvolare sulle insufficienze era piú intelligente cheinsistervi. L’illuminismo, nella sua lotta contro la Chie-sa alleata dell’assolutismo, si era fatto insensibile a tuttociò che si connetteva con la religione e con le forze irra-zionali della storia: ora gli esponenti dello Sturm undDrang, alla realtà «disincantata» con cui essi non senti-vano alcun legame contrapposero proprio queste forzeirrazionali. Ma con ciò essi non facevano che assecon-dare i desideri delle classi dominanti, che cercavano distornare l’attenzione da quella realtà, di cui tenevanosaldamente il possesso. Queste classi favorivano ogniconcezione che rappresentasse come inesplicabile eimprevedibile il significato del mondo, e incoraggiava-no ogni tendenza a trasferire i problemi in una sferainteriore, cosí da deviare l’inclinazione sovversiva dellanuova cultura e portare la borghesia a contentarsi di unasoluzione ideologica anziché pratica14. Sotto l’azione di

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questa droga, l’intellettuale tedesco perdette il gustodella conoscenza positiva e razionale, cui venne sosti-tuendo l’intuizione e le visioni metafisiche. L’irrazio-nalismo fu certamente un fenomeno paneuropeo, madappertutto altrove si manifestò essenzialmente comeuna delle forme particolari del sentimentalismo; solo inGermania assunse una speciale impronta idealistica espiritualistica, solo qui esso divenne una metafisica spre-giatrice del mondo empirico e volta all’infinito, all’e-terno, all’assoluto. In quanto esaltazione del sentimen-to, il movimento romantico aveva ancora un rapportoimmediato con le tendenze rivoluzionarie della borghe-sia, per i suoi aspetti idealistici e trascendenti invece siallontanò sempre piú dal pensiero progressista borghe-se. È vero che l’idealismo tedesco prese le mosse dallateoria kantiana della conoscenza, teoria antimetafisica eprofondamente radicata nell’illuminismo, ma il sogget-tivismo proprio di questa teoria venne sviluppato inun’assoluta rinunzia alla realtà obiettiva fino a posizio-ni opposte a quelle del realismo illuministico. Già a par-tire da Kant la filosofia tedesca si estraniò dal pubblicodei profani colti, anzitutto per il suo gergo, semplice-mente incomprensibile ai non iniziati, e nel qualeprofondità e difficoltà si confondono. Il linguaggioscientifico tedesco assunse a poco a poco quel caratterespesso vago, ricercato, trascolorante in allusioni, che lodivide cosí nettamente dal linguaggio scientifico del-l’Occidente europeo. Nello stesso tempo i Tedeschismarriscono anche il gusto delle semplici, sicure, sobrieverità cosí apprezzate nell’Europa occidentale, e la loropreferenza per le costruzioni e le complicazioni menta-li diventa una vera passione.

L’abito intellettuale che noi indichiamo come «pen-siero tedesco», «scienza tedesca», «stile tedesco» nonpuò, veramente, considerarsi manifestazione di uncostante carattere nazionale, ma solo un modo di pensa-

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re e di esprimersi sorto in un determinato periodo dellacultura tedesca, cioè nella seconda metà del Settecento,e per opera di un determinato ceto, quello degli intellet-tuali esclusi dal governo e praticamente privi di ogniinfluenza. Questo ceto ebbe, nello sviluppo della classecolta, una parte non meno importante di quella dei let-terati illuministi per il pubblico dei lettori francesi. Quelche afferma Tocqueville sull’origine della mentalità fran-cese, cioè ch’essa deve allo straordinario influsso della let-teratura illuministica la propria inclinazione alle ideerazionali, astratte, generali15, si può affermare, mutatismutandis, anche di quella tedesca, con la sua stravagan-za amante di sorprese e di complicazioni. Sono entram-be frutto di un’epoca in cui letterati in via d’emancipa-zione agiscono in modo decisivo sullo sviluppo intellet-tuale del paese. In tutto l’Occidente, in Francia e inInghilterra come in Germania, il Settecento vide nasce-re il moderno pensiero scientifico e certe impostazioni dicultura complessivamente valide anche oggi. Queste sor-sero con la moderna borghesia e ad essa debbono la lorotenacia. Così, ad esempio, ancora Thomas Mann nellaMontagna incantata giudica l’illuminismo secondo i crite-ri dello Sturm und Drang. Anch’egli parla di «superfi-ciale ottimismo» del secolo pedagogico e nella figura diSettembrini caratterizza l’illuminista dell’Europa occi-dentale, retore vanitoso, compiaciuto filantropo.

L’irrealismo che si manifesta nel pensiero astratto enel linguaggio esoterico dei poeti e dei filosofi tedeschi,si esprime anche nell’esaltato individualismo e nella sma-nia di originalità. Questa, come il loro gergo, non è cheuna manifestazione della loro indole asociale. Le paroledi Madame de Staël, «trop d’idées neuves, pas assezd’idées communes»*, costituiscono la diagnosi piú con-cisa dello spirito tedesco. Quel che mancava ai tedeschinon era la torta domenicale, ma il pane quotidiano.Mancava loro la sana, vigile guida dell’opinione pubbli-

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ca, che nei paesi dell’Europa occidentale fin da princi-pio pose dei limiti e diede un comune indirizzo alle aspi-razioni individuali. Già Madame de Staël riconobbe chela libertà individuale o, come diceva Goethe, il «sancu-lottismo letterario» dei poeti tedeschi non era che unacompensazione della mancata attività politica. Anchel’ermetismo e l’«amore della profondità», il culto deldifficile e del complicato, risalivano a quest’origine.Tutto tradiva un’aspirazione a rifarsi della situazioneche li escludeva da ogni influenza in campo politico esociale mediante l’indirizzo esoterico ed eccentrico delpensiero, e a crearsi nelle piú elevate forme della vita spi-rituale una sorta di dominio riservato che fosse un equi-valente del privilegio politico.

L’intellettuale tedesco era incapace di comprendereche il razionalismo e l’empirismo erano i naturali allea-ti di un ordine sociale incompatibile con l’oppressione.Egli non poteva rendere miglior servigio alle forze con-servatrici che partecipando alla loro manovra per scre-ditare la «fredda cultura della ragione». A confonderee distogliere gl’intellettuali dai loro obiettivi contribui-rono da parte loro i principi tedeschi, che apparente-mente fecero proprio l’illuminismo e seppero ammo-dernare il razionalismo dell’antico regime assoluto sullenuove formule illuministiche; ma anche, le tradizionireligiose della famiglia piccolo-borghese tanto piú vin-colanti quando (e il caso non era infrequente) il padreera un pastore. I piú fra gli intellettuali tedeschi eranoeredi di queste tradizioni, allora, per opera del pietismo,avviate a un promettente risveglio. Nella loro campagnacontro l’illuminismo gli intellettuali, naturalmente, sitennero essenzialmente in quei campi in cui i motivi irra-zionali potevano avere piú gioco, e trassero le loro armidi preferenza dalla sfera estetica e religiosa. L’esperien-za religiosa era di per sé irrazionale, quella artistica lodiveniva via via che ci si allontanava dai criteri del gusto

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aulico. Dapprima, richiamandosi al modello neoplatoni-co, si fusero le due sfere, poi però il primato, nellanuova immagine del mondo, venne assegnato alle cate-gorie estetiche. I caratteri per cui l’opera d’arte si sot-trae all’indagine razionale e alla definizione logica nonerano una scoperta del tempo; già il Rinascimento liaveva rilevati e messi in evidenza. Ma solo col Sette-cento l’irrazionalità e l’assenza di regole furono indica-ti come tratti essenziali della creazione artistica. Soloquest’epoca antiautoritaria, consapevolmente e pro-grammaticamente avversa all’accademismo aulico, seppecontestare che le facoltà della riflessione e del razioci-nio, la perizia e l’intelligenza del giudizio critico con-tribuiscano alla nascita dell’opera d’arte. L’affermazio-ne dell’irrazionalismo fu meno contrastata qui che nelcampo propriamente filosofico. Le tendenze antillumi-nistiche si ritirarono dunque sulla linea estetica e di quiconquistarono il mondo intellettuale. L’armonica strut-tura dell’opera d’arte fu estesa a tutto il cosmo e alCreatore si attribuí – come nel neoplatonismo – una spe-cie di intento artistico. «Il bello è una manifestazionedi occulte forze naturali», giunse ad affermare Goethe,di solito affatto alieno dal misticismo; e su quest’ideas’impernia tutta la filosofia della natura dei romantici.L’estetica divenne scienza fondamentale, organo dellametafisica. Già nella teoria della conoscenza di Kant l’e-sperienza era creazione del soggetto conoscente, analo-gamente all’opera d’arte, considerata sempre un pro-dotto dell’artista che opera legato alla realtà e tuttaviadi questa realtà è dominatore. Lo stesso Kant credevadi non poter dire quasi nulla sulla natura dell’oggetto insé, moltissimo invece sulla spontaneità del soggetto; etrasformò la conoscenza, che tutta l’antichità e ilMedioevo avevano sempre concepito come l’immaginedi una realtà, in un’attività della ragione. Col tempo, laresistenza dell’obiettività all’arbitrio del soggetto andò

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diminuendo e l’oggetto della conoscenza finí col diven-tare dominio assoluto dell’io creatore. Come poté matu-rare un simile mutamento nell’immagine del mondo? Isistemi filosofici si mettono in carta nelle biblioteche enegli studi, ma non nascono qui; o, se mai ciò avviene– come effettivamente avvenne per l’idealismo tedesco– anche questo ha un suo reale significato, determinatodalla vita pratica. Gli studi dei filosofi tedeschi eranoermeticamente chiusi e l’esperienza da cui essi svilup-parono i loro sistemi era appunto l’isolamento, la soli-tudine, l’assenza di ogni influsso pratico. La loro visio-ne estetica era in parte un segregarsi dal mondo, in cuilo «spirito» si rivelava impotente; in parte, la via indi-retta per giungere a un ideale umano che non si potevaattuare per la via maestra dell’educazione politica esociale.

Voltaire e Rousseau furono d’attualità in Germaniaquasi contemporaneamente; ma l’influsso di Rousseau fuincomparabilmente piú profondo e vasto di quello delrivale. Neppure in Francia Rousseau trovò seguaci cosìnumerosi e fervidi come in Germania. Tutto lo Sturmund Drang, Lessing, Kant, Herder, Goethe e Schiller nedipendono e vi si riconoscono. In lui Kant vedeva «ilNewton del mondo morale» e Herder lo chiamò «santoe profeta». E su scala minore lo stesso accadde per Shaf-tesbury, la cui autorità fu in Germania assai maggioreche in patria. In Inghilterra gli esperti del Settecentonon gli attribuiscono particolare importanza e trovanoaddirittura incomprensibile che quell’autore «disecond’ordine» sia giunto, in Germania, a tanta cele-brità16. Ma, conoscendo meglio la situazione tedesca,non fa gran meraviglia che un irrazionalista come Shaf-tesbury, con il suo spiritualismo apertamente polemicocontro Locke, con il suo entusiasmo per Platone e la suaplotiniana idea della bellezza come intima essenza deldivino, abbia fatto cosí profonda impressione sui tede-

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schi. Shaftesbury era il tipo dell’aristocratico whig, e lasua mentalità si espresse nel modo piú chiaro in quellakalokagathìa che è alla base del suo ideale pedagogico edella sua morale estetizzante. Il suo self-breeding non fache applicare alla mente e all’anima l’idea di un’aristo-cratica selezione del sangue. L’origine sociologica del suoideale della personalità si riflette inconfondibile, sia nel-l’identificazione del vero e del bene con il bello, sia nelpensiero che il conflitto fra impulsi egoistici e altruisti-ci, corruttore degli strati piú bassi dell’umanità, trovi unequilibrio armonico nei ceti alti affinati dalla cultura.L’idea che la vita sia un’opera d’arte, a cui si lavora gui-dati da un istinto infallibile (moral sense), come l’artistanell’opera sua è guidato dal genio, era un’idea aristo-cratica, che gli intellettuali tedeschi poterono accoglie-re con tanto entusiasmo, solo perché essa si prestava adessere del tutto fraintesa e il suo carattere aristocraticopoteva interpretarsi come consapevolezza di una nobiltàspirituale.

Per l’illuminismo il mondo era perfettamente intelli-gibile, tale da potersi e doversi spiegare; per lo Sturmund Drang, invece, era qualcosa di essenzialmente oscu-ro, misterioso e, dal punto di vista della ragione, privodi senso. Tali opposte concezioni non nascono sempli-cemente dalla meditazione e dall’elaborazione logica.L’una nasce dalla persuasione di poter conquistare edominare la realtà, l’altra da un sentimento di smarri-mento e abbandono. Ceti e generazioni intere nonrinunziano spontaneamente al mondo; e, quando vi soncostrette, inventano spesso splendide filosofie, favole,miti, attraverso le quali riescono a sublimare la costri-zione a cui soggiacciono nella sfera interiore della libertàe della spiritualità. Per questa via è sorta anche la teo-ria dell’idea che si realizza nella storia, dell’imperativocategorico, dell’artista creatore che impone a se stessola sua propria legge, e altre. Ma nulla rispecchia cosí niti-

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damente e da tanti lati i motivi da cui lo Sturm undDrang sviluppa la sua visione, come il concetto del genioartistico, che ora viene posto al vertice dei valori umani.Anzitutto il genio è irrazionale e soggettivo, caratteriche il preromanticismo sottolinea nella sua polemicacontro l’illuminismo dogmatico e generalizzatore; ilgenio converte la costrizione esteriore in libertà inte-riore, ribelle e dispotica a un tempo, e afferma infine ilprincipio dell’originalità che, affiorando proprio nelmomento in cui nasce la classe dei letterati indipenden-ti e si acuisce d’ora in ora la concorrenza, diventa l’ar-ma piú importante dell’intellettuale nella lotta per lavita. La creazione artistica, sia per il classicismo aulicoche per l’illuminismo, era una attività intellettuale chia-ramente definibile, fondata su regole di gusto spiegabi-li e apprendibili; ora invece si configura come un pro-cesso misterioso, derivato da fonti imperscrutabili, qualil’ispirazione divina, la cieca intuizione, l’imprevedibileinclinazione dell’animo. Per il classicismo e l’illuminismoil genio era un’intelligenza superiore, disciplinata dallaragione, dalla teoria, dalla storia, dalla tradizione e dallaconvenzione; per i preromantici e per lo Sturm undDrang esso diventa la personificazione di un idealecaratterizzato anzitutto dall’assenza di tali vincoli. Ilgenio si sottrae alla miseria quotidiana rifugiandosi nelmondo fantastico dell’arbitrio illimitato. Qui non sol-tanto è libero dai ceppi della ragione, ma è in possessodi virtú mistiche, per cui può fare a meno della comuneesperienza sensibile. «Il genio è presago, cioè il suo sen-timento precorre l’osservazione. Il genio non osserva.Egli vede, sente», dice Lavater. Nel suo aspetto irrazio-nale, inconscio, creatore, il genio è concetto già noto aipreromantici dell’Europa occidentale, e illustrato anzi-tutto nelle Conjectures on original Composition diEdward Young (1759); ma qui il genio sta al semplicetalento come un «mago» a un buon «architetto»; nel-

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l’estetica dello Sturm und Drang esso diventa invece untitano in rivolta, sovrumano e simile a Dio. Non è piúil negromante, dalle pratiche oscure, ma non certo inna-turali, bensí il custode di una misteriosa sapienza, coluiche «dice l’ineffabile», il legislatore di un mondo suoproprio da lui stesso legittimato17. Questo concetto sidistingue da quello di Young anzitutto per il soggetti-vismo estremo, determinato dalle speciali condizionitedesche. Gli aspetti personali della creazione artisticaerano già noti all’ellenismo e al Rinascimento; mai tut-tavia si era giunti a un concetto dell’arte il cui soggetti-vismo fosse paragonabile a quello del Settecento18. Ma,anche allora, solo in Germania esso giunse a quell’ansiadi originalità, che non si può spiegare del tutto con laprotesta contro il dogmatismo illuministico e l’esibizio-nismo pubblicitario di ciascuno dei letterati in gara. Perben capirlo, si deve anche tener presente la smodatavenerazione che qui si tributava all’uomo forte, al tiposplendido d’energia virile. Naturalmente questo sogget-tivismo esasperato, che non senza motivo è stato defi-nito «frenesia borghese»19, poteva sorgere solo in unmondo borghese, relativamente libero, indipendentedalla morale di casta e dalla solidarietà di classe dell’a-ristocrazia, e dominato dallo spirito di libera concor-renza; ma senza l’intimo dissidio dell’intellettuale tede-sco, conculcato e intimidito, sempre in cerca di com-pensazioni e oscillante fra soggezione e orgoglio, pessi-mismo ed energia virile, non avrebbe assunto la formapatologica propria dello Sturm und Drang. Senza que-sto contrasto interiore e questa tendenza all’ipercom-pensazione, sarebbe impensabile non solo il soggettivi-smo, ma anche la dissoluzione formale del preromanti-cismo tedesco, la sua fuga nell’eccessivo e nell’informe,la sua dottrina della fondamentale falsità e insufficien-za di ogni forma. Il mondo, fatto estraneo e nemico, nonvoleva comporsi in una forma chiusa. E il preromanti-

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cismo in questa sua visione di un mondo disgregato enella frammentarietà della sua esperienza vide il simbo-lo della vita. Il detto di Goethe sulla falsità di ogniforma discende appunto dal modo di sentire di questagenerazione e in sostanza corrisponde alle parole diHamann, che ogni sistema «già di per sé è impedimen-to alla verità»20.

Lo Sturm und Drang nella sua struttura sociologicafu ancor piú complicato del preromanticismo occiden-tale; e non solo perché in Germania borghesi e intellet-tuali non furono mai profondamente partecipi del motoilluministico, cosí da vederne nettamente gli scopi e fer-mamente perseguirli; ma perché la loro lotta contro ilrazionalismo del regime assoluto fu anche una lotta con-tro le correnti progressiste dell’epoca. Essi non com-presero mai che il razionalismo dei principi costituivaper il futuro un pericolo minore del loro proprio irra-zionalismo. Così, da nemici del despota, essi divennerostrumenti della reazione e con i loro attacchi contro ilcentralismo burocratico non fecero che favorire gli inte-ressi di casta.

Naturalmente, del sistema accentratore essi non com-battevano la tendenza al livellamento sociale, controcui cozzavano gli interessi della nobiltà e dell’alta bor-ghesia, ma il suo effetto generalizzatore, che violava lediversità di cultura e d’ingegno. Al rigido formalismodell’amministrazione razionalizzata essi opponevano idiritti della vita vera, della crescita naturale, dello svi-luppo organico; e con ciò non intendevano soltantonegare lo stato burocratico con la sua tendenza a rego-lare tutto meccanicamente e quindi tutto uguagliare,ma anche il riformismo, incline ai piani e ai regolamen-ti degli illuministi. E benché quest’idea della vita spon-tanea, irrazionale fosse ancora non ben definita e, perquanto ostile all’illuminismo, non avesse ancora mireesplicitamente conservatrici, tuttavia conteneva in

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germe la filosofia dei conservatori. Infatti non ci vollemolto per giungere ad attribuire a questo principio della«vita» un mistico aspetto soprarazionale, di fronte a cuiil razionalismo illuministico appariva artificioso, rigidoe dottrinario, e per rappresentare il sorgere delle istitu-zioni sociali e politiche dalla vita storica come qualcosadi «naturale», cioè superiore all’uomo e alla ragione, cosída proteggerle contro ogni arbitrario intervento e assi-curare lo statu quo.

A prima vista sorprende che la tendenza conserva-trice, che di solito noi associamo all’idea della continuitàe della stabilità, qui sottolinei il valore della vita e deldivenire, mentre il liberalesimo, che noi siamo avvezzia collegare con l’idea del movimento e del dinamismo,afferma le sue esigenze in nome della ratio. Si è volutospiegare questo apparente paradosso dicendo che, datoche il pensiero rivoluzionario della borghesia era «espli-citamente» alleato del razionalismo, la contro-correnteanche solo «per pura contraddizione» ha fatto proprial’ideologia contraria21. Ma la difficoltà del problema staappunto in questo, che il rapporto dei vari gruppi socia-li e delle varie correnti politiche con il razionalismo set-tecentesco è piuttosto ambiguo, e anche la tendenzaconservatrice dell’epoca ha un carattere piú o menorazionalistico. La peculiare posizione dello Sturm undDrang fra illuminismo e romanticismo è determinataappunto dal fatto che razionalismo e irrazionalismo nonsi possono identificare semplicemente con progresso ereazione, e il razionalismo nell’era moderna non è unfenomeno univoco e specifico, ma piuttosto un caratte-re generale di tutta l’epoca. Dal Rinascimento in poiesso è presente in tutti i tempi e in tutti i ceti, e mostraora una tendenza all’elasticità mentale e al dinamismo,ora un’aspirazione all’universalità e alla stasi. Il razio-nalismo del Rinascimento italiano era diverso da quellodel classicismo francese, e a sua volta quello dell’illumi-

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nismo era tutt’altro da quello dell’aristocrazia di cortee della monarchia assoluta. C’è stato un razionalismoborghese e progressista, ma anche un razionalismo con-servatore dei privilegi di casta. La borghesia del Rina-scimento aveva da combattere contro tradizioni e abi-tudini paralizzanti, quindi il suo razionalismo assunse uncarattere dinamico, antitradizionale e una tendenza almassimo rendimento. La nobiltà allora era cavalleresca,romantica, irragionevole e priva di senso pratico; ma piútardi, specialmente sotto la pressione dello sviluppo eco-nomico, dalla fine del Cinquecento in poi essa si adeguòsempre piú al razionalismo della borghesia, non senzamodificarlo in certi aspetti sia della teoria che della pra-tica. Cosí essa lasciò cadere anzitutto l’antitradizionali-smo borghese, eliminando però, in compenso, tutto quelche di fantastico e romanzesco c’era nella sua visionemedievale, e nel corso del Seicento giunse a sviluppareun sistema di valori dell’ordine e della disciplina, chesostanzialmente era altrettanto statico che «ragionevo-le». La borghesia illuministica da principio subí l’in-flusso di questa nobiltà razionalistica nel pensiero e nel-l’azione e da essa derivò l’ideale di una condotta seve-ramente disciplinata ed esemplare, sebbene per altroverso si attenesse al razionalismo piú antico, di cepporinascimentale, e nell’economia sviluppasse coerente-mente la dottrina della produttività e della concorren-za. Ma nella seconda metà del Settecento il medio cetodisertò in parte il razionalismo, lasciandolo per ilmomento nelle mani della nobiltà e dell’alta borghesia;esso si volse invece agli ideali roussoviani, sentimentalie romantici, mentre l’alta società disprezzava tutti queifumi sentimentali e restava fedele al suo intellettuali-smo. Nonostante questo la borghesia progressista con-servò un suo modo di sentire antitradizionale, e quindidinamico, proprio come i ceti conservatori, pur con illoro razionalismo etico ed estetico, restavano fermi nel

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fondo al tradizionalismo della loro filosofia sociale. Aun’indagine piú accurata il dinamismo, che si suole attri-buire alla mentalità progressista e liberale, si rivela unametafora quanto la stasi, attribuita ai conservatori.Entrambe le tendenze sono dinamiche e razionalistichea un tempo, né potrebb’essere altrimenti in questa fase,che liquida definitivamente il Medioevo. Irrazionalisti,ora, sono soltanto i poeti e i filosofi, disorientati dallacomplessa situazione sociale.

Nella letteratura tedesca del Settecento, Herder èforse la figura piú caratteristica. Egli unisce in sé le piúimportanti tendenze dell’epoca ed esprime chiarissimoquel conflitto ideologico, quella mescolanza di correntiprogressiste e reazionarie che domina la società deltempo. Egli disprezza l’illuminismo, «fredda culturadella ragione», ma parla del suo tempo come di un«secolo veramente grande», e crede di poter conciliarequel suo disprezzo con l’entusiasmo per la Rivoluzionefrancese, a cui per lo piú gli intellettuali e gli scrittoritedeschi – fra gli altri Kant, Wieland, Schiller, Friedri-ch Schlegel, Fichte – dapprima aderiscono appassiona-tamente, per staccarsene soltanto al tempo della Con-venzione. L’evoluzione di Herder è la stessa della cul-tura tedesca, dalla ribellione dello Sturm und Drang,infatuata del «genio» fino all’atteggiamento piú consa-pevole, sebbene borghesemente piú rassegnato, delperiodo classico. Il suo esempio mostra ottimamenteche cosa significasse Weimar per la letteratura tedesca.In lui l’influsso di Goethe soppianta quello di Hamanne di Jacobi, avvicinandolo al razionalismo. Egli scriveun’entusiastica commemorazione di Lessing, l’impavidocampione della verità, e non soltanto supera l’ortodos-sia d’un tempo, ma colora di estetismo tutto il suomondo religioso, e applica ai documenti della religionela sua teoria della lirica popolare, fino a considerare laBibbia null’altro che un prototipo di tale poesia. Vera-

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mente egli non può rinnegare del tutto il suo passato;l’impegno religioso dalla sua gioventú si muta in gret-tezza moraleggiante, la sua filosofia della storia haprofonde radici nel pensiero conservatore, e presentainnegabilmente molti punti di contatto con le idee diBurke. Anch’egli, come Burke, anziché dominare, muta-re, soverchiare le forme della vita storica, vuol com-prenderle, interpretarle, abbandonarvisi22. La sua con-cezione morfologica della storia, che considera l’evolu-zione come un ciclo vegetativo, dal germe al fiore edalla fioritura alla morte, nonostante l’amorosa pietàdell’indagine, rivela una visione pessimistica in cui è giàcontenuta l’idea fondamentale del declino, che Spenglersvilupperà nella sua teoria23.

Il classicismo di Herder, di Goethe e di Schiller èstato considerato un Rinascimento tedesco in ritardo, unparallelo del classicismo francese. Tuttavia è un movi-mento che si distingue da ogni altro analogo fuori diGermania, anzitutto perché rappresenta una sintesi ditendenze classiche e romantiche e, specialmente se vistodalla Francia, appare decisamente romantico24. I classi-ci tedeschi, quasi tutti in gioventú seguaci dello Sturmund Drang, e comunque inconcepibili senza l’evangeloroussoviano della natura, tuttavia rinunziano alla roman-tica ostilità di Rousseau per la vita civile e ne rifiutanoil nichilismo. Dai tempi degli umanisti nessuna genera-zione di poeti era vissuta in una simile orgia di civiltà edi cultura, che per loro non è opera dell’individuo, perquanto dotato, ma proprio della società civile25. L’idea-le di cultura di Goethe solo nella cultura di società puòtrovare la sua attuazione e il grado di adeguamentoall’ordine borghese diventa per lui proprio un criterioper valutare l’opera individuale. Questo è appunto ilconcetto che della cultura si fanno letterati ormai giun-ti al successo e al prestigio, soddisfatti dei loro allori eliberi da ogni risentimento verso la società. Ma questo

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non significa affatto che i classici tedeschi fossero popo-lari; i loro scritti non hanno avuto fra il popolo neppu-re la diffusione delle opere classiche della letteraturafrancese o inglese. E Goethe era il poeta meno popola-re di tutti. Da vivo, la sua fama non uscí da un ambien-te innegabilmente ristretto, e anche piú tardi non furo-no che gli intellettuali a leggerne gli scritti. Egli deplo-ra piú volte la propria solitudine, essendo, come diceSchiller, «il piú socievole degli uomini», avido di sim-patia e di comprensione, bramoso di esercitare un suoinflusso. Il gran numero di lettere e di colloqui traman-dati per iscritto ci dimostra che cosa significassero perlui la comunione intellettuale, lo scambio delle idee e losvilupparle in comune. Eppure Goethe era pienamenteconsapevole dell’inefficacia del suo lavoro; e spiegava ilparticolare carattere non solo di tutta la letteratura tede-sca, ma anche quello della propria poesia con la man-canza di una vita intellettuale collettiva. Il suo momen-to di popolarità lo ebbe da giovane, pubblicando il Gœtze il Werther. Quando si trasferí a Weimar e iniziò la suaattività ufficiale, in certo modo egli scomparve dallavita letteraria26. A Weimar il suo pubblico erano mezzadozzina di persone – il duca, le due duchesse, la signo-ra von Stein, Knebel e Wieland – a cui egli leggeva lesue opere nuove, non certo numerose né di gran mole:singoli capitoli e frammenti di opere. E non s’immagi-ni che fosse un pubblico particolarmente intelligente27.Il caso dell’ammaestratore di cani che, malgrado l’ener-gica protesta di Goethe, poté esibirsi nel teatro di corte,illustra chiaramente la situazione. Figuriamoci comeandavano le cose nelle altre corti! La letteratura tede-sca non godeva particolare considerazione a Weimar;anche qui, come in tutti i circoli di corte e della nobiltà,si leggevano per lo piú le novità di Francia28. Fra il granpubblico (per quanto questo poteva sapere di letteratu-ra seria) durante il viaggio di Goethe in Italia, fu Schil-

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ler ad accentrare l’interesse; il Don Carlos, per esempio,fu accolto con ben piú calore del Tasso. Il massimo suc-cesso letterario, tuttavia, non l’ebbero né Goethe néSchiller, ma Gessner e Kotzebue. Solo dopo l’avventodei romantici e il loro entusiasmo soprattutto per ilWilhelm Meister, Goethe non ha piú rivali nella lettera-tura tedesca29. Il favore dei romantici per Goethe è ilsegno piú evidente della comunione profonda e indi-struttibile, nonostante ogni contrasto ideologico e per-sonale, che esiste non solo fra classicismo e romantici-smo, ma in tutta la cultura tedesca, a partire dallo Sturmund Drang. L’arte è la grande esperienza comune, enon solo come oggetto del piú alto godimento spiritua-le e unica via ancora aperta al perfezionamento della per-sona, ma anche come l’organo per cui l’umanità puòrecuperare l’innocenza perduta e assicurarsi il possessodella natura e della civiltà nello stessa tempo. Per Schil-ler l’educazione estetica è l’unica salvezza dal male ine-sorabile scoperto da Rousseau; e Goethe va ancora piúlontano, affermando che l’arte è il tentativo dell’indivi-duo «di resistere alla forza distruttiva del Tutto». L’e-sperienza artistica assume cioè l’ufficio finora esercita-to esclusivamente dalla religione: protegge l’uomo con-tro il caos.

Una frase come questa basta a rivelare la visionegoethiana del tutto areligiosa, sebbene forse non proprioirreligiosa. Infatti, pur col suo idealismo «faustiano», ilsuo estetismo aristocratico e il suo fanatismo per l’ordi-ne, di stampo conservatore, egli era in Germania uno frai piú intransigenti illuministi; e sebbene non lo si possacerto chiamare un freddo razionalista, si deve scorgerein lui il nemico giurato di ogni oscurantismo e l’appas-sionato combattente contro tutto quel che è nebuloso emistico, contro ogni forma di regresso o di ritardo. Ben-ché legato allo Sturm und Drang, egli sentiva unaprofonda avversione per ogni sorta di romanticismo,

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per ogni negazione radicale della ragione, e una simpa-tia altrettanto profonda per le virtú borghesi: il solidorealismo, la disciplina, l’ethos del lavoro, la tolleranza.Certo, lo slancio rivoluzionario del tempo del Werther,l’infiammata protesta contro l’ordine dominante e lamorale convenzionale, si placano con gli anni; maGoethe rimane l’avversario di ogni oppressione e diogni ingiustizia diretta contro lo spirito della culturaborghese. Solo tardi egli ne riconobbe il reale valore, esolo nel Wilhelm Meister l’apprezzò. Non è il caso dinegare né di tacere le inclinazioni aristocratiche del pen-siero goethiano, né le sue ambizioni mondane, il suo ego-centrismo olimpico e l’indifferenza politica, e nemme-no l’infelice frase «meglio l’ingiustizia del disordine»;eppure, Goethe rimase un uomo della libertà e del pro-gresso, e non solo per il realismo dell’arte sua, per la sua«ristrettezza innamorata del reale». Ci sono modi diver-si di combattere contro la reazione e per il progresso.Chi odia il papa e i preti, chi i principi e i loro vassalli,chi gli sfruttatori e gli oppressori del popolo; ma c’èanche chi, nella reazione, sente soprattutto la confusio-ne mentale e l’impedimento alla verità, ed è special-mente sensibile all’ingiustizia sociale in quanto «pecca-to contro lo spirito», e lottando per la libertà di coscien-za, di pensiero, di parola, combatte per la libertà una eindivisibile in ogni aspetto della vita. Goethe non avevamolta simpatia per i tirannicidi, ma era sensibilissimo aogni minaccia contro la libertà di pensiero e non si pre-stò mai ad aiutare chi voleva limitarla. Nel 1794, quan-do la parte conservatrice chiese agli intellettuali tede-schi, e specialmente a Goethe, di porsi al servizio dellanuova federazione dei principi per salvare il paese dallaminaccia dell’«anarchia», Goethe rispose di ritenereimpossibile una simile unione fra principi e scrittori30.

Tutto quel che concorse all’educazione del giovaneGoethe – l’origine, le impressioni infantili, Francofor-

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te città imperiale, Lipsia mercantile e universitaria, lagotica Strasburgo, l’ambiente renano, Darmstadt, Düs-seldorf, la casa della Klettenberg e della Schönemann– tutto questo era borghese, magari in parte d’alta bor-ghesia e addirittura spesso già vicino alle sfere aristo-cratiche, ma non mai senza un intimo rapporto con lospirito del ceto medio31. Tuttavia questo intimo senti-re borghese non si tradusse in un atteggiamento mili-tante, né mai si rivolse contro la nobiltà come tale, nep-pure nella giovinezza, neppure nel Werther32. Gli sem-brava piú importante proteggere il costume borghesedall’oscurantismo e dall’irrealismo, che dall’influsso deiceti superiori. L’aspetto piú interessante e originalenella concezione goethiana della vita borghese è cheesso si riflette nello spirito dell’artista moderno, cheaccoglie pienamente l’ethos borghese del lavoro neiriguardi della produzione artistica. Goethe non si stan-ca di sottolineare la natura artigiana della creazionepoetica e prima d’ogni altra cosa richiede all’artista unaprovata abilità tecnica. A partire dal Rinascimento furo-no per lo piú borghesi a coltivare l’arte e la poesia. Laloro qualità di gente del mestiere appariva cosí natura-le che non avrebbe avuto senso insistervi. Era, se mai,il caso di incitare artisti e poeti a innalzarsi oltre quellivello. Soltanto nel Settecento, quando la borghesiaacquistò una piú forte coscienza di classe, e, d’altraparte, lo sfrenato soggettivismo del genio ribelle a ogniregola e norma venne prendendo l’aspetto di formaaberrante dell’emancipazione borghese, di una specie disleale concorrenza, allora apparve necessario ricordarel’origine borghese e artigiana della professione. Non eracerto piú il caso di accentuare l’alto rango del poeta,anzi era urgente proteggere i letterati dal soverchiaredel dilettantismo e della ciarlataneria. Al tempo dellaemancipazione degli scrittori, le pose geniali eranomezzi pubblicitari nella lotta per la vita; proteste con-

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tro tali metodi si levarono soltanto quando non se neebbe piú bisogno. Poter essere «geniale» era un sinto-mo della raggiunta indipendenza; non volere né dove-re piú esserlo è il segno di una condizione in cui lalibertà dell’artista è ormai naturale. La dignità di rispet-tabile borghese e di artista onorato è già cosí forte inGoethe, che nell’arte e nella vita egli cerca di evitareogni stravaganza e prova una singolarissima avversionecontro tutto quel che manca di solidità e di schiettez-za, contro l’inclinazione al caotico e al patologico, carat-teri in certa misura propri di tutti i gruppi artistici33.Con ciò egli precorre una tendenza dell’Ottocento edell’artista moderno che, giunto al successo, reagiscecon un’esagerata cautela agli eccessi della bohème e, pertimore di apparire infido, adotta le forme del costumeborghese, spesso anzi piccolo-borghese.

L’ideale artistico del classicismo tedesco, che, inaccordo con le tendenze dei ceti piú fortunati, avversaogni forma di capriccio e di anarchia, mostra una chia-ra tendenza al tipico e all’universale, al regolare e alnormativo, al durevole e all’eterno. In contrasto con loSturm und Drang, la forma è sentita in esso comeespressione dell’essenza, del contenuto ideale dell’ope-ra, cessa di essere identificata con l’esteriore armoniadei rapporti, con l’eufonia e con la bellezza della linea.Per forma ormai s’intende «forma interiore», l’equiva-lente microcosmico della vita universale. Goethe allafine supera anche questa formulazione della visioneestetica e si avvia a una filosofia della vita affatto rea-listica, secondo lo spirito della società borghese. Il con-tenuto del Wilhelm Meister non è che questa evoluzio-ne dall’arte alla società, dalla concezione estetico-indi-vidualistica all’esperienza della comunità spirituale, daun rapporto col mondo di tipo estetico-contemplativoa una vita-attiva, socialmente utile34. Negli ultimi anni,Goethe si allontana dalla posizione puramente perso-

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nale di fronte alla letteratura, avvicinandosi a una con-cezione sovraindividuale, sovranazionale, diretta a com-piti universali di civiltà. Viene da lui, com’è noto, ilnome e in parte il concetto di «letteratura universale»;ma la cosa esisteva ancor prima che se ne avesse coscien-za. La letteratura illuministica, le opere di Voltaire e diDiderot, di Locke e di Helvetius, di Rousseau e diRichardson erano già letteratura universale nel verosenso della parola. Fin dalla prima metà del Settecentosi era avviato un «colloquio europeo» a cui partecipa-vano tutte le nazioni civili, sebbene per lo piú passiva-mente. La letteratura del tempo era un fatto comune atutta l’Europa, espressione di una comunità spirituale,quale in Occidente non era piú esistita dopo il Medioe-vo. Ma era cosa diversa dalla letteratura medievalecome era diversa dai movimenti internazionali dellaletteratura moderna. La letteratura del Medioevo dove-va la sua universalità al latino, quella del Barocco e delRococò al francese; la prima era limitata ai dottiambienti ecclesiastici, la seconda al gran mondo e allacorte. Entrambe erano indifferenziate, prodotti di unatteggiamento intellettuale piú o meno unitario, non giàun concerto di voci diverse, come voleva Goethe, ecome l’illuminismo seppe far sorgere fra le letteraturedelle grandi nazioni europee. La teoria e la prassi dellaletteratura universale furono creazione di una civiltàcondizionata dagli scopi e dai metodi del commerciomondiale. Le parole stesse di Goethe, che paragona alcommercio lo scambio di beni intellettuali fra le nazio-ni, toccano questo nesso e accennano all’origine delconcetto. Quando poi Goethe parla del carattere «velo-ciferico» della produzione spirituale e materiale e delritmo accelerato con cui si scambiano i beni spiritualie materiali, si vede quanto diretto sia il rapporto di que-ste idee con l’esperienza della rivoluzione industriale35.Meraviglia soltanto che i Tedeschi, che fra le grandi

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nazioni meno di ogni altra avevano contribuito a que-sta letteratura universale, fossero i primi ad afferrarnee svilupparne il significato.

1 karl biedermann, Deutschland im 18. Jahrhundert, 1880, 2a ed.,I, pp. 276 sgg.

2 w. sombart, Der Bourgeois, 1913, pp. 183-84.3 jacques bainville, Histoire de deux peuples, 1933, p. 35.4 Cfr. geoffrey barraclough, Factors in German History, 1946,

p. 68.5 Il conte Manteuffel in una lettera al filosofo Wolf; citato da k.

biedermann, Deutschland im 18. Jahrhundert cit., II, i, p. 140.6 Ibid., p. 23.7 Ibid., p. 134.8 w. h. bruford, Germany in the 18th Century, 1935, pagine 310-11.9 wilhelm dilthey, Leben Schleiermachers, I, 1870, pp. 183 sgg.

id., Das Erlebnis und die Dichtung, 1910, p. 29.10 id., Das Erlebnis und die Dichtung cit., p. 30.11 johann goldfriedrich, Geschichte des deutschen Buchbandels,

1908-909, pp. 118 sgg.12 Cfr. g. lukács, Fortschritte und Reaktion in der deutschen Litera-

tur, in «Internationale Literatur», xv, 1945, 8-9, p. 89.13 franz mehring, Die Lessing-Legende, 1893, p. 371.14 Cfr. karl mannheim, Das konservative Denken, I, in «Archiv für

Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», vol. LVII, 1927, p. 91.15 a. de tocqueville, L’Ancien Regime et la Revolution cit., pp.

247-48. Cfr. k. mannheim, Das Konservative Denken cit.* «Troppe idee nuove, troppo poche idee comuni».16 christian friedrich weiser, Shaftesbury und das deutsche Gei-

stesleben, 1916, pp. ix, xii.17 Cfr. rudolf unger, Hamann und die Aufklärung, 1925, 2a ed., I,

pp. 327-28.18 Cfr. b. schweitzer, Der bildende Künstler und der Begriff des

Künstlerischen in der Antike, 1925, p. 130; alfred stange, Die Bedeu-tung des subjektivistischen Individualismus für die europäische Kunst von1750-1850, in «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaftund Geistesgeschichte», ix, i, p. 94.

19 l. balet - e. gerhard, Die Verbürgerlichung ecc. cit., p. 228.20 Hamann’s Leben und Schriften, a cura di c. h. gilden-meister,

1857-73, V, p. 228.21 k. mannheim, Das Konservative Denken cit., p. 470.

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22 friedrich meusel, Edmund Burke und die französische Revolution,1913, pp. 127-28.

23 hans weil, Die Entstehung des deutschen Bildungsprinzips, 1930,p. 75.

24 julius petersen, Die Wesensbestimmung der deutschen Romantik,1926, p. 59.

25 h. a. korff, Die erste Generation der Goethezeit, in «Zeitschriftfür Deutschkunde», vol. XLII, 1928, p. 641.

26 viktor hehn, Gedanken über Goethe, 1887, p. 65.27 Ibid., p. 74.28 Ibid., p. 89.29 heine, Die romantische Schule, I, 1833.30 thomas mann, Goethe als Repräsentant des Bürgertums, 1932, p.

46 (trad. it., Goethe quale esponente dell’età borgbese, in Saggi, Mila-no 1946).

31 Cfr. alfred nollau, Das literarische Publikum des jungen Goethe,1935, p. 4.

32 georg keferstein, Bürgertum und Bürgerlichkeit bei Goethe, 1933,pp. 90-91.

33 Ibid., pp. 174-75.34 Cfr. h. a. korff, Geist der Goethezeit, II, 1930, p. 353;

ludwig w. kahn, Social Ideals in German Literature (1770-1830),1938, pp. 32-34.

35 Cfr. fritz strich, Goethe und die Weltliteratur, 1946, p. 44.

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Capitolo quinto

La Rivoluzione e l’arte

Il Settecento è pieno di contraddizioni. Non solo lasua filosofia oscilla fra razionalismo e irrazionalismo, maanche il suo intento artistico è dominato da due correntiopposte, e si volge ora a un severo classicismo, ora a unosfrenato pittoricismo. Come il razionalismo del tempo,anche il classicismo è un fenomeno difficilmente defi-nibile e variamente interpretabile dal punto di vistasociologico; i suoi esponenti li trova ora nei ceti auli-co-aristocratici, ora in quelli borghesi, per svilupparsiinfine in stile tipico della borghesia rivoluzionaria. Chela pittura di David diventi l’arte ufficiale della Rivolu-zione può apparire strano o addirittura incomprensibi-le solo se si ha un’idea ristretta del classicismo e lo siriduce al gusto dell’alta società conservatrice. L’arteclassicheggiante è, sì, incline all’atteggiamento conser-vatore e si adatta benissimo a rappresentare ideologieautoritarie, ma il senso aristocratico della vita di per sétrova nella sensualità e nell’esuberanza barocca un’e-spressione piú diretta che nel ritegno e nella freddezzadel classicismo. Invece la borghesia razionalista, mode-rata, disciplinata preferisce le forme semplici, schiette echiare dell’arte classicheggiante, e di fronte all’inflazio-ne indiscriminata e informe della realtà si sente cosípoco attratta come di fronte alla sfrenata arte fantasti-ca dell’aristocrazia. Il suo naturalismo si muove entroconfini relativamente angusti e, di regola, si attiene al

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razionalismo, cioè a una rappresentazione che non pre-senti intime contraddizioni. Naturalezza e disciplinaformale qui son quasi la stessa cosa. Soltanto col classi-cismo aristocratico il principio d’ordine dell’arte bor-ghese si trasforma in rigida obbedienza alla norma, l’a-spirazione alla semplicità e alla sobrietà in disciplina ecostrizione, la sana logica in freddo intellettualismo.Nella classicità dei Greci o di Giotto la fedeltà al veronon è mai inconciliabile con la sintesi formale; soltantonell’arte dell’aristocrazia aulica la forma domina a spesedella naturalezza, soltanto qui essa viene concepita comelimitazione e barriera. Ma in sé e per sé il classicismonon rappresenta né una tendenza espansiva, naturali-stica, né uno stile tipicamente borghese1, benché spessocominci come movimento borghese e sviluppi i suoicanoni formali nel senso della naturalezza. In ogni caso,esso va oltre i limiti del gusto borghese e le premesse delnaturalismo. L’arte di Racine e di Claudio Lorenese èclassicheggiante, senz’essere borghese o naturalistica.

La moderna storia dell’arte trae il suo carattere dalcoerente e quasi ininterrotto progresso del naturalismo;le correnti di rigorismo formale vi affiorano piuttosto dirado e sempre per breve tempo, sebbene ne accompa-gnino sotterranee tutta l’evoluzione. La perfetta unio-ne di naturalismo e classicità formale raggiunta da Giot-to si dissolve già nel Trecento e l’arte dei due secoli suc-cessivi, sostanzialmente borghese, sviluppa il naturali-smo a spese della forma. Il primo Cinquecento si preoc-cupa nuovamente dei principî formali, ma non vede piú,come Giotto, nella composizione un mezzo per chiariree semplificare, bensì, seguendo la sua tendenza aristo-cratica, un modo per esaltare e idealizzare la realtà. Nonsi tratta certo di un’arte anti-naturalistica; è soltantoun’arte piú scarsa di particolari naturalistici e menopreoccupata di differenziare il materiale dell’esperienza,ma non per questo meno vera e giusta. Invece nel

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Manierismo, la cui visione risponde all’ulteriore pro-gresso della restaurazione aristocratica, il classicismo siaccompagna a una serie di convenzioni antinaturalisti-che determinando un influsso cosí profondo sul gustodell’alta società, che il suo modo di concepire la bellez-za rimarrà piú o meno canonico per tutta l’arte aulica.Nella seconda metà del Cinquecento, il Manierismo è lostile predominante in Francia, come in Italia e in Spa-gna. In Francia tuttavia il suo sviluppo subisce una bru-sca interruzione, a causa delle guerre civili e religiose deltempo di Enrico IV, e questa interruzione, prolungatanel periodo successivo dalla politica del governo ostilealla nobiltà, permette alla borghesia di esercitare, sia purper breve tempo, un influsso che sarà decisivo per l’ul-teriore sviluppo dell’arte. La tradizione rinascimentaledella cultura aulica si spezza, e con l’involuzione dellavita di corte vi si diradano anzitutto gli spettacoli tea-trali, che alla fine cessano completamente. Invece, anchein quest’epoca di crisi, il teatro popolare continua la suamodesta esistenza. Accanto ai misteri e alle moralités, iteatri popolari rappresentano anche drammi d’argo-mento classico, che d’altronde debbono adattarsi aldinamismo del teatro medievale e accoglierne le licenzeformali. La borghesia, che al tempo di Luigi XIII e diRichelieu, e ancora nei primi anni del regno di LuigiXIV, gode il favore della Corona e impiega i letterati deltempo, riesce a riformare anche questa forma di teatromedievale senza regola né misura. Essa sviluppa un pro-prio stile letterario, fondamentalmente diverso dalManierismo dell’aristocrazia; e nel dramma – genere acui la uniscono i vincoli piú antichi e profondi – fondail suo nuovo classicismo, che s’impronta di naturalezzae razionalità. La tragédie classique non è dunque il frut-to dell’umanesimo aulico e dotto, o dell’aristocraticaPléiade, come è stato detto cosí spesso, ma sorge dal vivoe comune teatro borghese. Le sue restrizioni formali,

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specie la regola delle tre unità, non derivano dallo stu-dio della tragedia antica, o almeno non direttamente, masi sviluppano come accorgimenti intesi ad esaltare l’ef-fetto scenico e a rendere piú verosimile l’azione. Sitrova sempre piú strano che i luoghi in cui si svolgonole scene – case, città e paesi diversi – siano divisi sol-tanto da un assito, e che la breve pausa fra due atti rap-presenti giorni, mesi e anni. Sulla base di simili rifles-sioni razionalistiche si comincia a considerare tanto piúverosimile un’azione drammatica, quanto piú breve è iltempo e unitario lo spazio in cui essa si svolge. Si ridu-ce quindi la durata degli avvenimenti e l’estensione deiluoghi mirando a un’illusione sempre maggiore; e a pocoa poco ci si avvicina al massimo dell’illusionismo, quan-do il tempo reale della recita equivale al tempo idealedell’azione. Quindi le unità sorgono proprio da un’esi-genza naturalistica, e anche i drammaturghi del tempole presentano sempre come criteri di verosimiglianza.Ma è certo strano che questi accorgimenti, che porta-rono alla massima stilizzazione e alla piú violenta alte-razione della realtà, in origine significassero il trionfodella visione naturalistica e del pensiero razionalisticosulla sfrenata e confusa curiosità di un pubblico di sen-sibilità ancor medievale.

Come nel dramma, cosí nelle altre arti il classicismoequivale al trionfo del naturalismo e del razionalismo, siasulla stravaganza e l’indisciplina, sia sull’affettazione eil convenzionalismo della produzione artistica di allora.Alla lirica di Du Bartas, d’Aubigné e Théophile de Viaula borghesia contrappone il dramma di Hardy, Mairet eCorneille, mentre al Manierismo di Jean Cousin e Jac-ques Bellange succedono il naturalismo di Louis Le Naine il classicismo di Poussin. Il classicismo naturalisticonelle arti figurative s’impone assai meno che nel dram-ma, anzitutto perché i legami storici della borghesiafrancese sono molto meno stretti con la pittura che con

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il teatro, poi perché essa non dispone ancora dei mezzirichiesti per esercitare un tale influsso. Il Manierismo apoco a poco passa di moda anche per la pittura e la scul-tura, ma qui vi subentra uno stile piú barocco che clas-sicheggiante. Frattanto nel dramma il classicismo bor-ghese vede il trionfo delle tre unità. Il Cid, che Cor-neille, l’avvocato di Rouen, presenta nel 1636, si puòconsiderare la sua vittoria definitiva. Anch’esso da prin-cipio urta contro l’opposizione degli ambienti di corte;ma il razionalismo e il realismo dominanti nell’economiae nella politica del tempo non si arrestano nella loro mar-cia trionfale. L’aristocrazia, che ancora è dominata dalgusto spagnolo, è costretta dalle cose a vincere la pro-pria inclinazione all’avventuroso, allo stravagante e alfantastico e piegarsi al gusto borghese, schietto e sobrio.Veramente ciò non avviene senza che essa modifichi talegusto secondo i propri ideali e i propri fini.

Essa mantiene l’equilibrio, la regolarità e la natura-lezza del classicismo borghese, poiché la nuova etichet-ta di corte già di per sé rifiuta tutto ciò che è stridente,chiassoso, bizzarro, ma interpreta l’economia artistica diquesto stile in un modo suo particolare, intendendo persintesi e precisione non già rigorosi principî di ordine,ma difficoltose regole del gusto, che vengono contrap-poste alla «rozza», indomita e imprevedibile naturacome norme di una realtà autonoma e superiore. Cosí ilclassicismo, che in origine doveva soltanto mantenere esottolineare l’unità organica e la severa «logica» dellanatura, viene ad essere un freno all’istinto, un argineall’impeto del sentimento e viene a gettare un velo suquanto è comune e troppo naturale.

Nelle tragedie di Corneille, che sono fra le piú matu-re espressioni del nuovo razionalismo artistico, ma cheevidentemente non trascurano le esigenze del teatroaulico, questa nuova interpretazione è in parte già com-piuta. In seguito le sobrie, rigorose tendenze del classi-

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cismo andranno scomparendo dall’arte di corte, sia per-ché acanto al rigorismo – e spesso contro di esso – tornaad affermarsi il desiderio di un maggiore sfarzo; sia per-ché in generale l’indirizzo estetico del secolo muta, e cosíprendono il sopravvento tendenze barocche meno con-tenute, anzi piú appassionate e sensuali. Nell’arte e nellaletteratura francese appare quindi una strana contiguitàe commistione di tendenze classicheggianti e barocche,e ne risulta uno stile in sé contraddittorio: il classicismobarocco. Il Barocco maturo di Racine e di Le Brun èfrutto del contrasto – nell’uno completamente risolto,nell’altro tutt’altro che risolto – fra il nuovo stile auli-co e il rigorismo artistico che deriva i suoi principî for-mali dal classicismo borghese. È dunque insieme classi-co e anticlassico, e si vale della materia e della forma,dell’esuberanza e della contenutezza, della dilatazione edella concentrazione. Verso il 1680 a questo stile auli-co e accademico viene a contrapporsi una nuova correntedi opposte tendenze: opposte, sia alle pose grandiose eagli ambiziosi soggetti, sia alla presunta fedeltà ai model-li antichi. Si afferma cosí una concezione piú libera,individualistica e intima, che dirige il suo spirito dilibertà soprattutto contro il classicismo, non contro ilbarocchismo dell’arte aulica. Il successo degli innovato-ri nella querelle des anciens et des modernes non è che unsintomo di tale evoluzione. La Reggenza determina iltrionfo della corrente anticlassica e rinnova il gustodominante. L’origine sociale della nuova arte non è deltutto chiara. Il rivolgimento è in parte dovuto allanobiltà, liberale di pensiero e antimonarchica di senti-mento, in parte all’alta borghesia. Ma via via che l’artedella Reggenza si evolve nel Rococò, assume sempre piúi caratteri di uno stile aulico-aristocratico, benché findall’inizio porti in sé gli elementi disgregatori della cul-tura aulica. Anzitutto essa perde il carattere sintetico,preciso, saldo del classicismo, si mostra sempre piú

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avversa a ogni aspetto regolare, geometrico, strutturalee sempre piú incline all’improvvisazione, al colpo d’oc-chio, all’epigramma. «Si quelqu’un est assez barbare –assez classique!»* dice persino Beaumarchais, ben lon-tano da tendenze auliche. Dal Medioevo in poi, mai l’ar-te si era allontanata in forma cosí scoperta dagli idealiclassici, mai era stata piú complicata e artificiosa. Eallora, verso il 1750, in pieno Rococò, s’inizia un’altrareazione. Gli elementi progressisti propugnano, di con-tro alla moda del tempo, un ideale artistico nuovamen-te ispirato a un carattere di razionale classicismo. Einvero nessuna forma di classicismo fu mai piú severa,piú sobria, piú metodica di questa; mai la riduzionedelle forme, la linearità e l’importanza della strutturafurono perseguite con maggior coerenza; mai il tipo e lanorma furono maggiormente accentuati. Nessun classi-cismo fu cosí chiaro, perché nessuno ebbe mai un carat-tere cosí rigidamente programmatico, né una cosí reci-sa volontà di confutare l’arte del tempo, in questo casoil Rococò. Neppure qui è del tutto evidente da quali cetisociali tragga origine il nuovo movimento. I suoi primiesponenti, Caylus e Cochin, Gabriele Soufflot, cresco-no sul terreno della cultura aulico-aristocratica, ma pre-sto si vedrà che dietro di loro sta la forza propulsivadegli elementi sociali piú avanzati. Una definizionesociologica del neoclassicismo è tanto piú difficile inquanto la tradizione del vecchio classicismo barocco nonfu mai del tutto interrotta e nell’eleganza di Vanloo odi Reynolds essa è viva quanto nella correttezza di Vol-taire o di Pope. Certi schemi classici restano in uso, nellapittura e nella poesia, per tutto il periodo dello stile auli-co, che si estende dal secolo xvii al xviii, e, quanto allinguaggio poetico, il seguente passo di Pope2 rappre-senta il classicismo del tempo, cosí perfettamente comequalunque testo del secolo di Luigi XIV:

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See, through this air, this ocean, and this earth, All matter quick, and bursting into birth. Above, how high, progressive life may go! Around, how wide! how deep extend below! Vast chain of being! which from God began, Natures ethereal, human, angel, man, Beast, bird, fish, insect, what no eye can see, No glass can reach; from infinite to thee, From thee to nothing**.

Il riserbo razionalistico e la forma levigata, cristalli-na di questi versi si distinguono invece alla prima daltono vibrante di Andrea Chénier in queste righe, altret-tanto ineccepibilmente classiche, ma già pervase da unapassione nuova:

Allons, étouffe tes clameurs; Souffre, o cœur gros de haine, affamé de justice. Toi, Vertu, pleure, si je meurs***.

Quelli sono ancora echi dell’intellettualismo aulicoa-ristocratico, queste esprimono già il nuovo pathos bor-ghese, e proprio per bocca di un poeta su cui pesa l’om-bra della ghigliottina e che cadrà vittima di quella bor-ghesia rivoluzionaria, il cui gusto classicheggiante trovain lui il primo grande se pur involontario interprete.

Il neoclassicismo non sorge affatto improvviso, comespesso è stato detto3. Dalla fine del Medioevo la storiadell’arte si evolve fra una concezione rigidamente strut-turale e un’altra formalmente piú libera; l’una affine,l’altra opposta alla classicità. Nell’arte moderna non c’èmutamento che apra un’era completamente nuova;ognuno fa capo all’una o all’altra di queste due tenden-ze che si avvicendano nel predominio, senza mai giun-gere a una vittoria definitiva. Quegli studiosi che pre-sentano il neoclassicismo come una novità assoluta, di

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solito fanno notare che esso sorge in un modo tutto par-ticolare e cioè la sua apparizione non significa uno svi-luppo dal semplice al complicato, cioè dal lineare al pit-torico, o dal pittorico al piú intensamente pittorico, mainvece una frattura nel processo di differenziazione, ecioè, in certo modo, rappresenta un «salto indietro».Wölfflin pensa che in questo fenomeno di regressione«la spinta provenga da condizioni esterne piú chiara-mente» che non nell’ininterrotto processo di complica-zione delle fasi precedenti. In realtà non esiste alcunadifferenza essenziale tra i due tipi di sviluppo, solo chel’influsso delle «condizioni esterne» in un’evoluzionediscontinua è piú evidente che in una rettilinea. Di fattoqueste condizioni hanno sempre un’importanza decisi-va. In ogni punto, in ogni momento dell’evoluzione, èsempre aperto il problema dell’indirizzo che la creazio-ne artistica deve prendere. Anche lo sviluppo nella stes-sa direzione è una forma di processo dialettico e il risul-tato di «condizioni esteriori» non meno che i muta-menti di direzione. La tendenza a ritardare o interrom-pere lo sviluppo del naturalismo presuppone fattori nondiversi nella sostanza da quelli che determinano il desi-derio di continuarlo e affrettarlo. L’arte dell’epoca rivo-luzionaria si distingue dai precedenti classicismi anzi-tutto per il suo rigorismo formale che giunge a un gradodi esclusiva intransigenza prima sconosciuto, e poi per-ché conclude definitivamente quell’evoluzione tre voltesecolare che va dal naturalismo del Pisanello all’impres-sionismo di Guardi4. Eppure non sarebbe giusto negareogni tensione, ogni dissidio stilistico nell’arte di David:la dialettica delle diverse correnti vi pulsa febbrilmentecome nei versi di Chénier e in tutte le opere importan-ti del periodo rivoluzionario.

Il neoclassicismo, che cronologicamente si situa tra lametà del Settecento e la Rivoluzione di luglio, non è unmovimento omogeneo, ma si sviluppa in piú fasi esatta-

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mente distinguibili, sebbene senza soluzione di conti-nuità. La prima, che dura press’a poco dal 1750 al 1780,e si suol chiamare del «Rococò classicheggiante» per ilsuo ibrido carattere, rappresenta la tendenza storica-mente piú importante fra quelle che si designano sottoil termine complessivo del Louis-Seize, ma non è in realtàche una sottocorrente nella vita artistica del tempo. L’e-terogeneità delle tendenze in gara si rivela crudamentenell’architettura che unisce interni rococò a facciateclassicheggianti, senza che tale promiscuità urti i con-temporanei. In nessun altro fenomeno come in questoeclettismo si rivela altrettanto chiara l’indecisione deltempo, incapace di scegliere fra le alternative proposte.Tra razionalismo e sensualismo, formalismo e sponta-neità, antico e moderno oscillava già il Barocco, chetuttavia cercò ancora di risolvere questo dissidio in unostile unico, benché non perfettamente omogeneo. Quiinvece si tratta di un’arte che non tenta neppure diridurre a un comun denominatore i vari elementi distile. Infatti, come vengono immediatamente accostatel’architettura degli esterni e quella degli interni, cosíanche nella pittura e nella poesia stanno l’una accantoall’altra opere di stile affatto diverso: quelle di Boucher,Fragonard e Voltaire accanto a quelle di Vien, Greuzee Diderot. Il tempo produce tutt’al piú forme ibride, manon giunge a un equilibrio tra gli opposti principî for-mali. Questo eclettismo corrisponde alla generale strut-tura della società, in cui i vari strati si mescolano e spes-so cooperano, pur rimanendo intimamente estranei l’unoall’altro. Quale sia il rapporto delle forze in arte, lodimostra anzitutto la persistente fortuna dell’aulicoRococò, favorito dalla gran maggioranza degli acqui-renti, mentre il neoclassicismo rappresenta soltanto unatteggiamento polemico e costituisce il programma arti-stico di un gruppo di amatori relativamente esiguo, insi-gnificante per l’andamento del mercato.

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Piú di ogni analoga tendenza precedente, questonuovo movimento, detto anche «neoclassicismo archeo-logico», dipende dalla rinnovata esperienza dell’artegreca e romana. L’interesse teorico per l’antichità clas-sica neppure qui però è l’elemento primario; esso pre-suppone un mutamento di gusto, e questo, a sua volta,uno spostamento nei valori della vita. Per il Settecentol’arte classica assume tanta attualità, perché, fattasiormai troppo morbida e fluida la tecnica pittorica, trop-po frivoli colori e toni, ci si sente attratti verso un’artepiú aspra, piú severa e piú obiettiva. Verso la metà delsecolo, all’apparire delle nuove tendenze classicheg-gianti, il classicismo del grand siècle è morto da cin-quant’anni: l’arte si è abbandonata alla stessa sensualitàche domina tutto il secolo. La severità dell’ideale neo-classico che ora si riafferma non è, o almeno non è inprima istanza, questione di gusto e di valutazione este-tica; è invece un fatto di costume, esprime un intentodi semplicità e di schiettezza. Il mutamento di gusto chefa dimenticare il fascino della sensualità visiva, la varietàe la sfumatura dei colori, l’irruente pienezza e la fugatravolgente delle impressioni e comincia a far dubitaredel valore di tutto quel che da mezzo secolo costituiscela quintessenza dell’arte per gli intenditori, questa inau-dita semplificazione, questo livellamento dei criteri este-tici significa il trionfo di un nuovo ideale di vita, oppo-sto all’edonismo dell’epoca. L’aspirazione di Winckel-mann alla pura, chiara, semplice linea, alla regolarità ealla disciplina, alla quiete e all’armonia, alla «nobilesemplicità e alla tranquilla grandezza» è anzitutto unaprotesta contro la finzione e l’artificio, il vacuo virtuo-sismo e gli orpelli del Rococò, che ora si comincia a con-siderare abietto e degenerato, morboso e contro natura.

Accanto a quelli che, come Vien e Falconet, Mengse Batoni, Benjamin West e William Hamilton, seguonocon entusiasmo in tutta Europa la nuova corrente, ci

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sono innumerevoli artisti e amatori, critici e collezioni-sti, che si limitano a civettare con la rivolta contro ilRococò e solo esteriormente vanno con la moda neo-classica. Per lo piú non fanno che diffondere un movi-mento la cui vera origine e il fine ultimo rimangono lorocelati. Teoricamente, anche il direttore dell’Accademia,Antoine Coypel, si accosta al classicismo, e il conte Cay-lus, l’illustre collezionista e archeologo, si mette anzi acapo del movimento. Nel 1748 il surintendant de Mari-gny, fratello di Madame de Pompadour, intraprende,con Soufflot e Cochin, un viaggio di studio in Italia,dando inizio all’usanza dei pellegrinaggi nel Sud. ConWinckelmann comincia la ricerca archeologica sistema-tica, per opera di Mengs la corrente neoclassica ha ilsopravvento a Roma e in Piranesi l’esperienza archeo-logica diventa soggetto dell’arte. Il neoclassicismo sidistingue dai movimenti classicheggianti piú antichisoprattutto perché concepisce l’antico e il modernocome due tendenze nemiche, inconciliabili5. Mentre tut-tavia in Francia si stabilisce un equilibrio fra le tenden-ze antagonistiche, e il classicismo, specie in David, èanche un progresso del naturalismo, per lo piú neglialtri paesi d’Europa il nuovo movimento non produceche un’esangue accademia, senz’altro fine che l’imita-zione dell’antico.

Generalmente si ritiene che siano stati gli scavi diPompei (1748) a dare la spinta, decisiva al nuovo clas-sicismo archeologico. Ma quest’impresa ha potuto averetali conseguenze perché essa stessa era stata promossa daun nuovo interesse e una sensibilità nuova: del resto iprimi scavi, condotti a Ercolano già nel 1737, eranorimasti senza effetti di rilievo. Il nuovo orientamento siproduce appunto verso la metà del secolo. Di qui comin-cia l’attività internazionale della scienza archeologica eil movimento, ugualmente internazionale, dell’arte neo-classica, che non sarà piú dominata dai francesi, benché

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la scuola di David abbia propaggini in tutta Europa. Gliscavi sono all’ordine del giorno; tutti gl’intellettualid’Occidente se ne interessano. La raccolta di antichitàè ormai una vera passione; per opere d’arte classica sipagano somme notevoli e dappertutto sorgono gliptote-che, collezioni di vasi e di gemme. Un viaggio di studioin Italia non è piú soltanto un’esperienza mondana, malo si considera elemento indispensabile nell’educazionedi un giovane della buona società. L’artista, il poeta echiunque abbia interessi di natura intellettuale si ripro-mettono il piú gran profitto dall’esperienza diretta deimonumenti antichi. Il viaggio in Italia di Goethe, la suacollezione di antichità, la stanza di Hera nella sua casadi Weimar, con il busto colossale della dea, che minac-cia di far scoppiare le pareti di quell’ambiente borghe-se, tutto questo è come un simbolo di quest’epoca. Mail nuovo culto dell’antico, proprio come l’entusiasmo,quasi contemporaneo, per il Medioevo, è una manife-stazione essenzialmente romantica; ora infatti anchel’antichità classica appare una impareggiabile primave-ra della civiltà umana, scomparsa per sempre, come lo«stato di natura» di Rousseau. In questa concezione siritrovano concordi Winckelmann, Lessing, Herder,Goethe e tutti i romantici tedeschi. Tutti scorgono nel-l’antico una fonte di salute e di rinnovamento, un esem-pio di genuina e perfetta umanità, quale non sarebbe piútornata. Non è un caso che il preromanticismo coincidacon gli inizi dell’archeologia, e Rousseau e Winckel-mann siano contemporanei; lo spirito dell’epoca si espri-me in una medesima filosofia nostalgica sia quando guar-da all’antichità, sia quando guarda al Medioevo. Il neo-classicismo, come il preromanticismo, si oppongono alRococò frivolo e raffinato; entrambi sono permeati dellostesso spirito borghese. Il Rinascimento vedeva l’anti-chità con gli occhi degli umanisti e ne rifletteva le ideeantiscolastiche e anticlericali; l’arte del Seicento inter-

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pretava il mondo dei Greci e dei Romani secondo l’eti-ca feudale della monarchia assoluta; il classicismo dellaRivoluzione è legato all’ideale repubblicano e stoicodella borghesia progressista e vi rimane fedele in tuttele sue manifestazioni.

Nel terzo venticinquennio del secolo è ancora vivis-simo l’antagonismo degli stili. Il classicismo è ancoraimpegnato nella lotta ed è la piú debole delle due ten-denze rivali. Fin verso il 1780 in realtà si limitò per lopiú a una polemica teorica con l’arte aulica; soltanto piútardi, specialmente dall’avvento di David, il Rococò sipuò dire superato. Il successo degli Orazi nel 1785 con-clude un trentennio di battaglie e segna il trionfo delnuovo stile monumentale. Con l’arte della Rivoluzione,che all’incirca va dal 1780 fino al 1800, s’inizia per ilclassicismo una nuova fase. Alla vigilia della Rivoluzio-ne, queste, press’a poco, erano le tendenze della pittu-ra francese: 1) la tradizione del Rococò sensuale e colo-ristico, viva nell’arte di Fragonard; 2) il sentimentali-smo, rappresentato da Greuze; 3) il naturalismo bor-ghese di Chardin; 4) il classicismo di Vien. La Rivolu-zione scelse quest’ultimo stile come il piú adeguato,benché si debba ammettere che assai meglio le conve-nissero le tendenze rappresentate da Greuze e Chardin.Ma occorre tener presente che la scelta non fu fatta inbase a criteri di gusto e di forma, non tenendo presen-te quel principio dell’interiorità e dell’intimità chediscendeva dall’ideale dell’arte borghese nel tardoMedioevo e nel primo Rinascimento; ci si chiese invecequale fosse lo stile piú appropriato a rappresentare conla massima efficacia l’ethos della Rivoluzione, i suoiideali patriottici ed eroici, le sue virtú civili memori diRoma e la sua libertà repubblicana. Amore di libertà edi patria, eroismo e abnegazione, rigore spartano e stoi-cismo subentrano ora a quei concetti morali, che la bor-ghesia aveva sviluppato nel corso della sua ascesa eco-

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nomica e che infine si erano indeboliti e svuotati a talpunto, che l’alta borghesia aveva potuto diventare unodei maggiori sostegni della cultura rococò. Quindi i pre-cursori e i campioni della Rivoluzione dovevano oppor-si con ugual rigore alle aspirazioni dei fermiers générauxe alla douceur de vivre dell’aristocrazia. Ma non poteva-no neppure appoggiarsi alla visione amabile, patriarca-le, antieroica della borghesia dei secoli precedenti: solograzie a un’arte militante potevano sperare di giungereai loro scopi. Ma a questo si prestava, piú che ogni altratendenza del momento, il classicismo di Vien e della suascuola.

Del resto, anche l’arte di Vien era ancora piena di fri-volezza e di civetteria, e legata per tanti aspetti alRococò, come d’altronde lo era anche la pittura borghe-se-sentimentale di Greuze. Il classicismo in lui non erache un tributo alla moda, che l’artista seguiva con zelopedantesco. Nelle sue leziose scene erotiche, classico erasoltanto il tema, e pseudoclassica la maniera; ma lo spi-rito e il gusto erano puro Rococò. Nessuna meraviglia seil giovane David intraprese il suo viaggio in Italia riso-luto a non incappare nelle seduzioni dell’antico6. Un pro-posito che meglio d’ogni altra cosa dimostra qualeprofonda differenza corra tra il Rococò classicheggiantee il classicismo rivoluzionario della generazione succes-siva. Se David ha potuto nonostante tutto diventare ilpropugnatore e il massimo esponente dell’arte neoclassi-ca, ciò si deve al nuovo significato che il neoclassicismovenne assumendo, sí da perdere il suo primitivo caratte-re estetizzante. Ma David con la sua nuova interpreta-zione non riuscí subito ad affermarsi. Dapprima nullafaceva prevedere che avrebbe raggiunto quell’autoritàassoluta, ch’egli acquistò con gli Orazi e che perse sol-tanto con la Restaurazione. Insieme con David c’era aRoma tutto un gruppo di giovani artisti francesi, cheebbero uno sviluppo simile al suo. Il Salon del 1781 fu

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dominato da questi giovani «romani» orientati verso unpiú severo classicismo, che ancora consideravano comeloro capo Ménageot. I quadri di David erano tropporigidi, troppo seri per il gusto del tempo. Solo a poco apoco la critica s’accorse che proprio essi rappresentava-no il trionfo di quelle idee, che si cercava di affermarecontro il Rococò7. Ma per David i tempi furono prestomaturi ed egli ebbe intera soddisfazione. Il Giuramentodegli Orazi fu uno dei piú grandi successi della storia del-l’arte. Il trionfo di quest’opera cominciò in Italia, doveDavid l’espose nel suo studio. Si andava in pellegrinag-gio a vederla, vi si deponevano fiori, e Vien, Batoni,Angelica Kauffmann, Wilhelm Tischbein, cioè i piú sti-mati artisti di Roma, erano concordi nel lodare il giova-ne maestro. A Parigi, al Salon del 1785, il trionfo conti-nuò. Gli Orazi furono detti «il piú bel quadro del seco-lo» e si considerò l’impresa di David veramente rivolu-zionaria. Ai contemporanei l’opera parve quanto di piúardito e nuovo si potesse immaginare, la perfetta attua-zione dell’ideale neoclassico. La scena era ridotta apochissime figure, quasi senza comparse, senza accesso-ri. I protagonisti del dramma, a dimostrare la loro con-cordia e la loro risoluzione di morire insieme, se neces-sario, per il loro fine, erano inclusi in una sola linea, rigi-da e ininterrotta: intransigenza formale che permettevaal pittore un effetto senza precedenti in tutta l’espe-rienza artistica della sua generazione. Egli sviluppò il suoclassicismo in linearismo puro, rinunziando a ogni effet-to sensualmente pittorico e ad ogni concessione che ridu-cesse il quadro a una festa per gli occhi. I mezzi di cuiegli si serviva erano rigorosamente razionali, precisi,puritani e subordinavano al principio dell’economia tuttala struttura dell’opera. La precisione e l’obiettività, lariduzione al puro necessario e l’energia spirituale cheemanava da tale concentrazione espressiva, rispondeva-no allo stoicismo della borghesia rivoluzionaria meglio di

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qualunque altra corrente artistica. Qui si univano gran-dezza e semplicità, dignità e sobrietà. Gli Orazi sono statigiustamente chiamati «il quadro neoclassico per eccel-lenza»8. L’opera rappresenta l’ideale stilistico del suotempo, cosí compiutamente come la Cena leonardesca l’e-stetica del Rinascimento, Se mai è possibile interpreta-re sociologicamente una pura forma artistica, è questo ilcaso. Questa espressione chiara, intransigente, netta,indubbiamente ha la sua radice nelle virtú repubblicane;qui davvero la forma non è che un veicolo, un mezzo ade-guato allo scopo. Che tuttavia i ceti superiori aderisseroa questo classicismo – dopo quanto sappiamo sulla forzadi attrazione dei movimenti fortunati – non stupisce,come non stupisce il fatto che il governo lo favorisse.Com’è noto, il Giuramento degli Orazi fu dipinto per ilMinistero delle Belle Arti. Di fronte alle tendenze sov-versive, non si era in arte meno ignari o irresoluti che inpolitica.

Nel 1789 viene esposto il Bruto, l’opera per cui Davidgiunge al colmo della gloria; ma nel favore con cui il pub-blico accoglie l’opera non entrano affatto considerazio-ni formali. Le fogge e il patriottismo romano sono diven-tati la moda dominante e un simbolo universale, cui siricorre tanto piú volentieri, in quanto ogni altra analo-gia, ogni altro parallelo storico ricorderebbe l’idealeeroico della cavalleria. Ma le premesse vere del moder-no amor di patria non hanno nulla a che vedere con iRomani. Le sue radici sono nell’atmosfera di quest’e-poca in cui la Francia deve difendere la sua libertà noncontro un avido vicino o un sovrano straniero di tipofeudale, ma contro un mondo ostile, diverso da essa intutta la sua struttura sociale e che nella Francia combattela Rivoluzione. La Francia rivoluzionaria pone l’arte alservizio di questa lotta con perfetta ingenuità; «l’artpour l’art» è un’invenzione dell’Ottocento. Proprio nel-l’ambito dell’opposizione romantica all’illuminismo e

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alla Rivoluzione viene formulato per la prima volta ilprincipio dell’arte «pura», «gratuita», e solo quando leclassi dominanti temono di perdere il loro influsso sul-l’arte si comincia ad esigere l’indifferenza dell’artista. IlSettecento continua a servirsi dell’arte per i suoi finipratici, con la stessa disinvoltura dei secoli precedenti;ma fino alla Rivoluzione questa prassi era stata incon-scia negli artisti, e tanto meno essi pensavano di farneun programma. Soltanto con la Rivoluzione l’arte diven-ta una professione di fede politica, solo allora si dichia-ra espressamente che essa non deve essere un «sempli-ce ornamento dell’edificio sociale», ma «parte fonda-mentale» di esso9. L’arte, si dice, non dev’essere unvano passatempo, un vellicamento dei sensi, né un pri-vilegio dei ricchi e degli oziosi ma deve istruire e miglio-rare, spronare all’azione e servire d’esempio. Dev’esse-re pura, vera, ispirata ed esaltante, contribuire alla feli-cità di tutti e diventare patrimonio dell’intera nazione.Era un programma ingenuo, come ogni riforma astrattain campo artistico, e la sua sterilità dimostrò che unarivoluzione deve mutare una società prima di poternemutare l’arte, benché anche l’arte sia un mezzo per quelmutamento e sia legata al processo sociale da un com-plicato gioco di interazioni. Del resto, in arte il pro-gramma rivoluzionario non mirava a estendere il godi-mento estetico ai ceti esclusi dal privilegio della cultu-ra, ma appunto a mutare la società, ad approfondire ilsentimento di un vincolo comune e a creare la coscien-za delle conquiste rivoluzionarie10. La tutela dell’artecostituí d’ora in poi uno strumento di governo, e vi sidedicò un’attenzione che prima si riservava agli affari distato. Finché la repubblica è in pericolo e combatte perla propria vita, ognuno deve servirla con tutte le sueforze. In un indirizzo di David alla Convenzione èdetto: «Ognuno di noi deve render conto alla Nazionedel talento che ha ricevuto dalla Natura»11. E Hassen-

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fratz, membro della giuria nel Salon del 1793, cosí for-mula la corrispondente teoria estetica: «Tutto il talen-to di un artista è nel suo cuore; ciò ch’egli fa con le maninon ha importanza»12.

In questo campo la parte di David è senza preceden-ti. Egli è membro della Convenzione e, già come tale,esercita un influsso notevole; ma è anche l’uomo di fidu-cia e il portavoce del governo rivoluzionario in ogniquestione d’arte. Dopo Le Brun nessun artista era statocosí potente; ma il prestigio personale di David è incom-parabilmente maggiore della considerazione che circon-dava il factotum di Luigi XIV. Non solo egli è il ditta-tore artistico della Rivoluzione e l’autorità da cui dipen-dono tutta la propaganda artistica, l’organizzazione ditutte le grandi feste e solennità, l’Accademia con tuttele sue funzioni, l’intero complesso dei musei e dellemostre; ma è il promotore di una particolare rivoluzio-ne artistica, quella révolution davidienne da cui, in parte,procede l’arte moderna. È il fondatore di una scuolasenza pari nella storia per ampiezza, prestigio e durata.Vi appartengono quasi tutti i giovani d’ingegno; e,nonostante le avversità toccate al maestro, nonostantela fuga, l’esilio e il cedimento della sua forza creativa,essa rimane fino alla Rivoluzione di luglio non solo lascuola piú importante, ma la «scuola» della pittura fran-cese. Anzi, essa diventa la scuola di tutto il classicismoeuropeo, e il suo fondatore, che è stato chiamato ilNapoleone della pittura, esercita per mezzo suo un’au-torità che, nella sua sfera, può ben paragonarsi a quelladel conquistatore del mondo. L’influsso del maestro vaoltre il 9 termidoro, oltre il 18 brumaio e l’avvento diNapoleone al trono; e non perché allora David sia il piúgrande pittore di Francia, ma perché il suo classicismorappresenta la concezione artistica meglio rispondenteagli scopi politici del Consolato e dell’Impero. Questosviluppo, unitario per quanto riguarda i compiti asse-

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gnati all’arte, subisce un’interruzione solo durante ilperiodo del Direttorio che, diversamente dall’epocadella Rivoluzione e da quella dell’Impero, presenta uncarattere straordinariamente frivolo, edonistico, este-tizzante e gaudente13. Sotto il Consolato, quando i fran-cesi vengono continuamente esortati all’eroismo roma-no, e durante l’Impero, che nella propaganda politica sirichiama all’Impero romano come un tempo la Rivolu-zione si richiamava alla repubblica, il classicismo rima-ne lo stile ufficiale dell’arte francese. Ma la pittura diDavid, pur coerente nel suo sviluppo, porta i segni diquella trasformazione che vanno subendo la società e ilgoverno del paese. Già sotto il Direttorio il suo stile –soprattutto nelle Sabine – si mostra piú tenero, piace-vole, deviando dall’intransigente severità degli annirivoluzionari. E sotto l’Impero egli rinunzia di nuovoall’elegante lusinga e all’artificio del suo stile Direttorio,ma devia dalle mete giovanili in un’altra direzione. Lostile Impero del maestro contiene in realtà, portate incampo artistico, tutte le contraddizioni del potere napo-leonico. Questo infatti non rinnega mai del tutto la suaorigine rivoluzionaria e distrugge una volta per semprela speranza di una restaurazione dei privilegi di casta; manello stesso tempo continua inesorabilmente la liquida-zione del patrimonio rivoluzionario, cominciata il 9 ter-midoro, e non solo assicura la potenza della borghesiacapitalistica e dei contadini ricchi, ma instaura una dit-tatura politica che limita i diritti di queste classi al Codi-ce civile. Analogamente anche l’arte di David durantel’Impero è una sintesi che non risolve le opposte ten-denze, e nella quale a poco a poco il carattere ufficialeprevale sul naturalismo, la convenzione sulla sponta-neità.

I compiti che David, come premier peintre di Napo-leone, deve assolvere, innegabilmente giovano alla suaarte, che ritrova in questo modo l’immediato contatto

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con la realtà storica, e gli offrono l’occasione di cimen-tarsi con il problema del grande quadro celebrativo; manello stesso tempo irrigidiscono il suo classicismo e sve-lano per la prima volta i segni di quell’accademia che riu-scirà fatale a lui e alla sua scuola. Delacroix chiamòDavid «padre dell’intera scuola moderna», e tale egli fusotto un duplice aspetto: come creatore del nuovo natu-ralismo borghese che, specie nel ritratto, esprimeva ladignità di un costume severo, semplice, alieno da ogniteatralità; e come rinnovatore appunto del quadro sto-rico e della pittura di cerimonia. Grazie a questi com-piti di corte, David, dopo la superficiale eleganza e i fri-voli esercizi formali del tempo del Direttorio, riacqui-sta molto dell’antica obiettività e naturalezza. I proble-mi ch’egli ora ha da risolvere non sono piú campati inaria come nel caso delle Sabine, ma nascono dall’imme-diata, attuale realtà. Soggetti come l’Incoronazione(1805-808) o le Aquile (1810) riescono per l’artista piústimolanti di quanto egli stesso forse si aspettasse. Inqueste scene manca l’impeto drammatico del Giura-mento nella sala della pallacorda, ma in compenso vi èun’impostazione piú semplice, meno teatrale, piú giusta.Cosí David si allontana sempre piú dal Settecento edalla tradizione del Rococò e, in contrasto con il genia-le individualismo delle sue opere giovanili, crea uno stileobiettivo, di cui l’Accademia potrà fare cattivo uso, mache troverà continuatori. Per altro l’intimo dissidio, cheminaccia la sua arte dai tempi del Direttorio, nemmenoin questa fase viene del tutto superato. Accanto allecerimonie ufficiali per cui trova una soluzione soddi-sfacente, egli dipinge scene di soggetto classico, come laSaffo (1809) o il Leonida (1812), artificiosi e manieratiquanto le Sabine. L’antico ha cessato di ispirare Davide anche per lui, come per i suoi contemporanei, diven-ta pura convenzione. Quando gli si assegnano compiti

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pratici, egli produce ancora opere magistrali; ma quan-do vuole elevarsi al di sopra della realtà, fallisce.

L’intima contraddizione dell’arte davidiana, il con-trasto fra l’astratto, esangue idealismo delle composi-zioni mitologiche e classiche e il succoso naturalismo deiritratti si acuisce ancora negli anni dell’esilio a Bruxel-les. Quando egli riprende contatto con la vita, ognivolta che dipinge un ritratto, continua ad essere il gran-de maestro d’un tempo; quando invece s’abbandona alleillusioni neoclassiche, prive ormai di ogni rapporto conil presente e ridotte a un gioco artificioso, non solo eglici appare fuori moda, ma spesso anche di cattivo gusto.Per la sociologia dell’arte il caso di David è di specialeimportanza, perché forse nella storia dell’arte non c’è unaltro esempio che confuti in modo cosí perentorio la tesidell’incompatibilità tra fini politici e schietta qualitàartistica. Quanto piú intimamente David fu legato allapolitica, quanto piú l’arte sua fu al servizio di compitidi propaganda, tanto piú valide furono le sue opere. Altempo della Rivoluzione, quando ogni suo pensiero face-va capo alla politica, dipingendo il Giuramento della pal-lacorda e il Marat, egli raggiunse le sue espressioni piúalte. Durante l’Impero, quando almeno egli poteva farpropri i fini patriottici di Napoleone e non aveva dubbisu quanto, nonostante tutto, la Rivoluzione dovesse aldittatore, la sua arte rimase, quando si trattava di com-piti pratici, viva e creatrice. Ma piú tardi, a Bruxelles,quand’egli perdette ogni rapporto con la realtà politicae non fu piú che un pittore, toccò il livello piú bassodella sua carriera. Ora, anche se ciò non prova che unartista debba nutrire interessi politici e sentimenti pro-gressisti per dipinger buoni quadri, prova tuttavia chetali interessi e sentimenti non impediscono affatto ibuoni quadri.

Spesso si è detto che artisticamente la Rivoluzione èstata sterile e non è uscita dai limiti di uno stile che non

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era se non la continuazione e il perfezionamento del vec-chio Rococò classicheggiante. Si è detto e ripetuto chequell’arte si poteva chiamar rivoluzionaria solo per isoggetti e le idee, ma non per le forme e lo stile14.

Piú o meno, la Rivoluzione aveva effettivamente tro-vato il neoclassicismo bell’e pronto, ma gli diede inparte un contenuto e un senso nuovo. Il classicismorivoluzionario apparirà poco originale e sterile solo nellaprospettiva livellatrice dei posteri; i contemporaneierano perfettamente consci della differenza stilistica checorreva tra David e i suoi predecessori. Quanto audacie sovversive apparissero allora le innovazioni davidiane,lo provano meglio di tutto le parole del Pierre, diretto-re dell’Accademia, che chiamò la composizione degliOrazi un «attacco al buon gusto», perché deviava dalsolito schema piramidale15. Ma il vero portato stilisticodella Rivoluzione non è questo classicismo, bensí ilromanticismo; non l’arte di cui essa si servì, ma quellaa cui preparò il terreno. La Rivoluzione in sé non pote-va attuare il nuovo stile, perché poteva certo vantareprospettive politiche, nuove istituzioni sociali, nuovenorme giuridiche, ma non una nuova società con un suoproprio linguaggio. Per un’arte nuova esistevano sol-tanto le premesse. Di fronte all’evoluzione politica l’ar-te non riuscí a tenere il passo e in parte, come già nota-va Marx, continuò a esprimersi in forme antiquate16.Non sempre scrittori e artisti sono profeti e l’arte oraarranca dietro i tempi, ora li precorre.

Anche il romanticismo preparato dalla Rivoluzione sifonda in realtà su un analogo movimento piú antico; mapreromanticismo e romanticismo sono fra loro ancorameno affini delle due forme del neoclassicismo. Noncostituiscono affatto le due fasi di un movimento omo-geneo, che abbia subito un’interruzione nel suo natura-le sviluppo17. Il preromanticismo con la Rivoluzionesubisce l’ultima e definitiva sconfitta. L’irrazionalismo

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rinasce poi, ma la sensibilità settecentesca è già defini-tivamente morta. Il romanticismo che fiorisce dopo laRivoluzione rispecchia un nuovo senso del mondo edella vita, e matura anzitutto una nuova interpretazio-ne della libertà artistica. Questa non è piú un privilegiodel genio, ma il diritto innato di ogni artista e di ogniindividuo d’ingegno. I preromantici riconoscevano soloal genio il diritto di scostarsi dalla regola; i romanticinegano in generale la validità delle regole. Ogni espres-sione individuale è unica, insostituibile e ha in sé le sueleggi e la sua misura: questa è nell’arte la grande con-quista della Rivoluzione. Il romanticismo diventa cosílotta per la libertà, condotta non solo contro le accade-mie, le Chiese, le corti, i mecenati, gli amatori, i criti-ci, i maestri, ma contro il principio stesso della tradi-zione, dell’autorità e della regola. Questa lotta non èconcepibile senza l’atmosfera spirituale creata dallaRivoluzione da cui essa ebbe inizio ed efficacia. Tuttal’arte moderna, in certa misura, risulta da questo movi-mento romantico di liberazione. Per quanto ancora siparli di immortali norme estetiche, di valori artisticieternamente umani, della necessità di criteri obiettivi edi convenzioni vincolanti, l’emancipazione dell’indivi-duo, il rifiuto di ogni autorità estranea, l’insofferenza diogni barriera, di ogni divieto sono e rimangono i prin-cipî vitali dell’arte moderna. L’artista del nostro tempo,per quanto possa aderire con entusiasmo a scuole, grup-pi, movimenti, partecipando alla loro lotta e al lorodestino, appena dipinge, compone musica o poesia, èsolo e conscio della sua solitudine. L’arte moderna è l’e-spressione dell’uomo solitario, dell’individuo che sisente diverso dagli altri come un essere tragico o bene-detto. La Rivoluzione e il romanticismo significano lafine di un’epoca in cui l’artista si volgeva ancora a una«società», a un gruppo piú o meno vasto ma in com-plesso omogeneo, a un pubblico di cui egli riconosceva

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per principio l’autorità assoluta. L’arte non ha piú quelcarattere sociale per cui il giudizio si conforma a criteriobiettivi e convenzionali, è ormai un’espressione, chetrae da se stessa la misura secondo la quale vuol essergiudicata; insomma, essa diventa il mezzo che permet-te al singolo di parlare ai singoli. Fino all’età romanticanon ebbe mai grande importanza se e in qual misura ilpubblico si componesse di veri intenditori; artisti e poeticercavano comunque di soddisfare i suoi desiderî; inve-ce romantici e postromantici non si sottomettono piú algusto e alle richieste di alcun gruppo, sempre pronti adappellarsi contro il giudizio di un foro a un altro foro.C’è una continua tensione, un’eterna polemica fra ilpubblico e l’opera loro; si costituiscono sempre nuovigruppi di esperti e di amatori, ma sempre instabili, sí cherimane distrutta ogni continuità di rapporti fra il pub-blico e l’arte.

La comune origine rivoluzionaria del classicismo davi-diano e della pittura romantica si rivela anche nel fattoche questa non comincia come atteggiamento contrarioai neoclassici, né disgrega dall’esterno la scuola di David,ma nasce proprio fra gli allievi piú dotati e piú vicini almaestro, Gros, Girodet, Guérin. Le due tendenze siseparano nettamente solo tra il 1820 e il 1830, quandoil romanticismo diventa lo stile dell’avanguardia artisti-ca, il classicismo quello degli elementi conservatori chegiurano ancora sull’assoluta autorità di David. Al gustopersonale di Napoleone e alla natura dei compiti ch’egliassegnava al suoi artisti rispondeva ottimamente l’ibri-da forma classico-romantica trovata da Gros. Nelleopere romantiche Napoleone cercava uno svago dal suopratico razionalismo ed era incline al sentimentale, appe-na cessava di veder l’arte come strumento di propagan-da. Questo spiega la sua predilezione per Ossian e Rous-seau in letteratura e per il pittoresco nell’arte figurati-va18. Nominando David suo pittore di corte, egli non

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fece che seguire l’opinione pubblica; le sue, simpatie inrealtà andavano a Gros, a Gérard, a Vernet, a Prudhone ai pittori «aneddotici» del suo tempo19. Tutti del resto,il delicato Prudhon come il robusto David, dovevanodipingere battaglie e vittorie, cerimonie e festeggia-menti. Ma il vero pittore dell’Impero, il pittore napo-leonico per eccellenza, era Gros, che dovette la sua fama– riconosciutagli concordemente da aderenti e avversa-ri della scuola davidiana – in parte al suo modo impres-sionante di rappresentare una scena, spesso con pano-ramica immediatezza, in parte alla sua nuova concezio-ne morale della scena di battaglia. Com’è noto, egli fuil primo a rappresentare la guerra da un punto di vistaumanitario, mostrando anche i lati per nulla eroici deifatti cruenti. Lo strazio era cosí grande, che non lo sipoteva piú dissimulare; la cosa piú ragionevole era nontentarlo neppure.

In arte l’ideologia dell’Impero si espresse in un eclet-tismo che combinava e variava le tendenze stilistiche giàesistenti. Le contraddizioni interne di quest’arte corri-spondevano alle antinomie politiche e sociali del gover-no napoleonico. Il gran problema che l’Impero tentò dirisolvere era quello di conciliare le conquiste democra-tiche della Rivoluzione con le forme dell’assolutismomonarchico. Un ritorno puro e semplice all’ancien régi-me era per Napoleone impensabile, come era impossibi-le perdurare nell’«anarchia» rivoluzionaria. Occorrevatrovare una forma politica che rappresentasse una con-ciliazione e un compromesso fra il vecchio e il nuovostato, la nuova e l’antica nobiltà, il livellamento socialee la nuova ricchezza che si andava costituendo. All’an-cien régime erano estranee sia l’idea di libertà che quel-la di uguaglianza. La Rivoluzione tentò di realizzarleentrambe, ma finí col rinunziare alla seconda. Napoleo-ne volle salvare il principio di uguaglianza, ma vi riuscísolo sul piano giuridico; su quello economico e sociale

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l’antica disuguaglianza prerivoluzionaria finí per preva-lere. Politicamente l’uguaglianza si risolse nel fatto chetutti ugualmente erano privati di ogni diritto. Delle con-quiste rivoluzionarie non sopravvissero che la libertàcivile della persona, l’uguaglianza di fronte alla legge, l’a-bolizione dei privilegi feudali, la libertà di culto e l’ac-cessibilità delle cariche per ogni cittadino. Il che, certo,non era poco; ma la logica dell’autoritarismo e le ambi-zioni auliche di Napoleone condussero alla riabilitazio-ne della nobiltà e della Chiesa e, nonostante lo sforzodi tener fede ai principî fondamentali della Rivoluzio-ne, crearono alla fine un’atmosfera antirivoluzionaria20.La conclusione del Concordato e la conseguente rina-scita religiosa diedero un potente impulso al romantici-smo. Già in Chateaubriand esso appare strettamenteconnesso con idee di rinnovamento cattolico e inclina-zioni legittimistiche. Il Génie du Christianisme, cheapparve l’anno dopo il Concordato e fu la prima operatipica del romanticismo francese, conobbe un successoignoto a qualsiasi opera letteraria del Settecento. TuttaParigi lo lesse, e il Primo Console passò molte sere adascoltare la lettura di certe parti. La sua pubblicazionesegna il sorgere del partito clericale e il tramonto dei«filosofi»21. Con Girodet la reazione romantico-clerica-le si estende all’arte e affretta la disgregazione del neo-classicismo. Durante gli anni della Rivoluzione non siesponevano quadri di soggetto sacro22. La scuola diDavid da principio respinse questo genere; ma la diffu-sione del romanticismo moltiplicò le scene sacre, e que-sti soggetti finirono col penetrare anche nell’ambienteneoclassico.

La rinascita religiosa ha inizio con la reazione politi-ca sotto il Consolato. Anch’essa contribuisce a liquida-re la Rivoluzione e viene accolta con entusiasmo dallaclasse dominante. Ma presto l’universale giubilo ammu-tolisce sotto il peso dei sacrifici durissimi, che l’avven-

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tura napoleonica impone al paese; inoltre la creazionedella nuova nobiltà militare e i tentativi di riconcilia-zione con la vecchia aristocrazia smorzano la baldanzadei ricchi borghesi. Ma i giorni aurei per i fornitori del-l’esercito, i mercanti di cereali e gli speculatori comin-ciano appena, e nella lotta per il predominio sociale lavittoria alla fine è della borghesia, benché non sia piú lastessa dei tempi della Rivoluzione. Del resto, anchenella Rivoluzione i suoi fini non erano mai stati cosíaltruistici come di solito si pretende. La borghesia facol-tosa già da gran tempo era creditrice dello stato e avevasempre piú ragione di temerne la bancarotta, protraen-dosi la cattiva amministrazione della corte. Combatten-do per un ordine nuovo, essa mirava soprattutto a garan-tirsi le proprie rendite. Questa circostanza spiega l’ap-parente paradosso di una Rivoluzione compiuta inveceche dai meno abbienti, da una delle classi piú ricche23.Non fu certo la rivoluzione del proletariato e della pic-cola borghesia povera, bensí dei ceti possidenti e mer-cantili, cioè di una classe di cui i privilegi nobiliaridisturbavano l’espansione economica, ma non minac-ciavano l’esistenza24. Probabilmente però la lotta rivo-luzionaria non sarebbe stata vittoriosa senza l’aiuto deilavoratori e degl’infimi strati della borghesia. E se è veroche l’alta borghesia non appena ebbe conseguito i suoifini, si liberò dei suoi alleati e volle esser sola a goderei frutti della lotta comune, pure la vittoria della Rivo-luzione finí col giovare a tutti i ceti privi di diritti eoppressi, poiché, dopo tante sommosse e rivolte sfortu-nate, essa fu la prima a determinare nella società unrivolgimento radicale e durevole. Ma gli effetti imme-diati dell’evento non furono certo confortanti. La Rivo-luzione era appena finita, che un’immensa delusiones’impadroní degli animi, né rimase traccia dell’ottimi-smo illuministico. Il liberalismo settecentesco partivadall’identità di libertà e uguaglianza e da questa fede sca-

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turiva il suo ottimismo: il pessimismo dell’epoca postri-voluzionaria nasce appunto quando questa fede vienemeno.

Il segno piú evidente del trionfo dell’idea liberale siha nel fatto che solo dopo la Rivoluzione vincoli, limitie regole nella sfera intellettuale vengono sentiti comeparalizzanti. Prima poteva accadere che la piú alta fio-ritura artistica si accompagnasse al piú rigido assoluti-smo; d’ora in poi, ogni tentativo di cultura autoritariaurta contro invincibili resistenze. La Rivoluzione hadimostrato che nessuna istituzione umana è immutabi-le; ma cosí sono venute a perdere ogni pretesa di supe-riore necessità anche le idee che venivano imposte all’ar-tista, e invece di confidare nella loro verità si dubitaormai del loro carattere vincolante. In arte i principî diordine e disciplina hanno perso il loro effetto di stimo-li, e da questo momento – da questo momento soltanto– l’idea di libertà diviene fonte d’ispirazione poetica.Napoleone, nonostante i premi, i doni e le onorificen-ze, che distribuiva ai suoi artisti, non poteva spingerliad alcun’opera importante. Gli scrittori veramentefecondi, come Madame de Staël e Benjamin Constant,erano dei dissidenti e degli isolati25.

Nel campo dell’arte il risultato piú importante del-l’Impero fu quello di stabilizzare il rapporto creatosiall’epoca della Rivoluzione fra produttore e acquirente.Il pubblico borghese che si era venuto costituendo nelcorso del Settecento si consolidò, e d’ora in poi ancheper l’arte ebbe un’influenza veramente decisiva. Il pub-blico dei lettori nel Seicento francese comprendeva alcu-ne migliaia di persone; era una cerchia di amatori e diesperti: da due a tremila, secondo Voltaire26. Veramen-te questo non significa che fosse tutto composto di gentecapace di un giudizio proprio, ma solo di gente in pos-sesso di certi criteri di gusto, con cui poteva, entro certilimiti, per lo piú abbastanza ristretti, distinguere il

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buono dal cattivo. Naturalmente il pubblico dell’artefigurativa era ancora piú esiguo, componendosi soltan-to di collezionisti e di esperti. Solo al tempo della con-tesa fra poussinistes e rubénistes il pubblico cominciò adampliarsi uscendo un po’ dalla cerchia degli specialisti27,e solo nel Settecento comprese anche gente che s’inte-ressava di quadri senza pensare al loro acquisto. Que-st’evoluzione s’accentua sempre piú dopo il Salon del1699, e nel 1725 il «Mercure de France» annunzia cheall’esposizione si vede un foltissimo pubblico, di ogniceto e di ogni età, che ammira, loda, critica e biasima28.Secondo le fonti contemporanee il concorso è senzaesempio, e sebbene i piú vogliano andarvi perché la visi-ta al Salon è diventata di moda, cresce tuttavia anche ilnumero dei veri amatori. Lo si deduce anzitutto dalmoltiplicarsi di pubblicazioni d’arte, riviste e riprodu-zioni29.

Parigi, già da gran tempo centro della vita mondanae letteraria, ora diventa anche la capitale artistica d’Eu-ropa, assumendo in pieno la funzione che in Occiden-te, fin dal Rinascimento, era stata dell’Italia. È vero cheRoma rimane il centro e la scuola dell’arte classica; tut-tavia per studiare l’arte moderna si va a Parigi30. Ma lavita artistica parigina, che interessa ormai tutto il mondocolto, riceve il piú energico impulso dalle esposizioni,che non si limitano certo ai Salons. Esposizioni ce n’e-rano state anche prima in Italia e nei Paesi Bassi, manella Francia del Sei e del Settecento divennero un fat-tore essenziale dell’attività artistica31. Mostre d’arte ven-nero allestite regolarmente a partire dal 1673, cioè daquando, diminuendo gli appoggi statali, gli artisti fran-cesi furono costretti a cercarsi degli acquirenti. Al Salonpotevano esporre solo i membri dell’Accademia; gli altridovevano presentare al pubblico le loro operenell’«Accademia», assai meno illustre, della Compagniadi san Luca o nell’Exposition de la jeunesse. Queste

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mostre di secessionisti divennero superflue nel 1791,quando la Rivoluzione aprí a tutti il Salon; e la vita del-l’arte, che da esse e da numerose altre, personali, di stu-dio e di scuola, derivava il suo carattere inquieto ed ecci-tante, divenne piú ordinata e piú sana, benché forsemeno interessante e varia.

La Rivoluzione pose fine alla dittatura dell’Accade-mia e al monopolio della corte, dell’aristocrazia e del-l’alta finanza sul mercato artistico. Si sciolsero gli anti-chi vincoli che si opponevano al rinnovamento dell’ar-te in senso democratico e scomparvero insieme con lasocietà e la cultura del Rococò. Non è affatto vero,come invece spesso è stato detto, che tutti i gruppi chedirigevano un tempo la cultura, tutti i rappresentanti del«buon gusto» fossero spariti a un tratto. Poiché la bor-ghesia, già assai prima della Rivoluzione, partecipava inmisura sempre maggiore alla vita artistica, una certacontinuità di sviluppo poté mantenersi nell’arte, nono-stante i profondi rivolgimenti. La vita artistica divennepiú democratica di quanto fosse mai stata, non solo nelsenso di una maggior diffusione ma anche in quello diun maggior livellamento, per quanto anche questo feno-meno fosse già avviato prima della Rivoluzione. Il belloè quel che piace ai piú, affermava già Mengs nei suoiGedanken über die Schönheit und über den Gesch-mack**** del 1765. Ma il vero mutamento provocatodalla Rivoluzione consiste in questo, che il pubblico diun tempo rappresentava una classe per cui l’arte avevaancora una diretta funzione pratica, era una di quelleforme in cui si esprimeva la distanza dai ceti inferiori ela comunanza con la corte e il sovrano; il pubblico d’orainvece è un pubblico di amatori con interessi puramen-te estetici, per cui l’arte diviene oggetto di libera sceltae di mutevoli inclinazioni.

L’Assemblea legislativa fin dal 1791 abolì i privile-gi dell’Accademia, estendendo a tutti gli artisti il dirit-

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to di esporre al Salon; e l’Accademia stessa fu soppres-sa due anni piú tardi. Il provvedimento corrispondevain campo artistico all’abolizione dei privilegi feudali eall’attuazione della democrazia. Ma anche qui, come giàin campo sociale, il processo era cominciato già primadella Rivoluzione. L’Accademia a ogni liberale è sem-pre apparsa la quintessenza della tendenza conservatri-ce; in realtà, specie dopo la fine del Seicento, essa nonera affatto cosí ristretta e inaccessibile come spessovenne dipinta. Nel Settecento le nuove ammissioni,come è noto, furono decise con spirito molto aperto;però il diritto di esporre al Salon era esclusivamenteriservato ai membri dell’Accademia. Ma proprio controquest’uso si accanirono gli artisti novatori guidati daDavid. Fu semplice sciogliere l’Accademia, molto piúdifficile fu trovare con che sostituirla. Fin dal 1793David fondò la «Commune des Arts», associazionelibera e democratica senza speciali gruppi, classi o mem-bri privilegiati. Ma per il segreto lavorio dei monarchi-ci nel suo seno, già l’anno dopo si dovette sostituirlacon la «Société populaire et républicaine des Arts».Questa fu la prima associazione veramente rivoluzio-naria degli artisti francesi e fu considerata come l’or-gano ufficiale che doveva assumersi le funzioni del-l’Accademia. Ma non era un’Accademia; era un club,di cui ciascuno poteva esser membro, senza riguardoalla posizione o al mestiere. Nello stesso anno sorse il«Club révolutionnaire des Arts» a cui, fra gli altri,appartennero David, Prudhon, Gérard e Isabey e che,grazie alla celebrità dei suoi membri, godette gran pre-stigio. Tutte queste associazioni dipendevano diretta-mente dal Comitato dell’Istruzione pubblica, sotto l’e-gida della Convenzione, del Comitato di Salute pub-blica e del comune di Parigi32. Dapprima all’Accademiafu tolto solo il monopolio delle esposizioni, mentre potéesercitare ancora per qualche tempo la sua funzione

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didattica, conservando buona parte della sua autorità33.Tuttavia ben presto vi subentrò l’«École nationalesupérieure des Beaux-Arts», e si prese a insegnar l’ar-te anche in scuole private e corsi serali. Inoltre l’inse-gnamento del disegno fu incluso nel piano didatticodelle scuole superiori (écoles centrales). Ma forse nullaha contribuito a rendere democratica l’educazione arti-stica quanto la costituzione e l’organizzazione deimusei. Fino alla Rivoluzione quegli artisti che non ave-vano avuto modo d’intraprendere un viaggio in Italiaben poco avevan potuto vedere delle opere dei grandimaestri. Per la massima parte queste si trovavano nellegallerie del re e dei maggiori collezionisti ed erano inac-cessibili al pubblico. Le cose mutarono con la Rivolu-zione. Nel 1792 la Convenzione decise di creare unmuseo al Louvre. Qui, a due passi dal loro studio, d’orain poi i giovani artisti potevano ogni giorno studiare ecopiare i capolavori dell’arte e completare nel modomigliore l’insegnamento dei loro maestri.

Dopo il 9 termidoro il principio d’autorità vennerestaurato a poco a poco anche in arte, e finalmentel’Accademia delle Arti figurative fu sostituita dalla IVSezione dell’Istituto. Lo spirito antidemocratico di que-sta riforma risulta nel modo piú chiaro anche dal sem-plice fatto che l’antica Accademia aveva centocinquan-ta membri, la nuova soltanto ventidue. Vi appartene-vano tuttavia anche David, Houdon e Gérard ed essariacquistò ben presto l’autorità di un tempo. Natural-mente, anche il mondo degli artisti fu indotto a rive-dere i suoi rapporti con la Rivoluzione, che, del resto,non erano mai stati del tutto unitari. C’erano artisti chefin dal principio erano stati onesti e sinceri rivoluzio-nari, e non solo gente come David, che grazie alla for-tuna della moglie godeva dell’indipendenza economicae poteva quindi non preoccuparsi della momentaneacongiuntura sul mercato artistico, ma anche altri come

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Fragonard, che fu rovinato dal corso degli eventi, e chetuttavia rimase fedele alla Rivoluzione. Ma, accanto acostoro, non mancavano naturalmente i contro-rivolu-zionari convinti, ad esempio la Vigée-Lebrun, che lasciòil paese insieme con la sua nobile clientela. In realtà ipiú, a destra e a sinistra, non erano che compagni diviaggio che, a seconda di quel che ritenevano opportu-no, parteggiavano per gli emigrati o per i rivoluziona-ri. Dapprima gli artisti si sentirono gravemente minac-ciati dalla Rivoluzione; l’emigrazione li privò dei clien-ti piú facoltosi e piú esperti34. Il numero degli emigraticresceva di giorno in giorno, e a chi rimaneva in Fran-cia ormai mancavano i mezzi e la voglia di acquistareopere d’arte. In principio i piú degli artisti conobberodure privazioni, e quindi non è strano che non semprefossero entusiasti della Rivoluzione. Se nonostante que-sto la Rivoluzione trovò fra loro tanti fautori, fu per-ché l’artista sotto l’antico regime, dove per lo piú eraannoverato tra i servi, si sentiva umiliato e sacrificato.Quest’inferiorità cessò con la Rivoluzione, che finí colrisarcirlo anche dei danni materiali. Infatti, a prescin-dere dalla crescente cura del governo per l’arte, ben pre-sto intervennero anche i privati, e quasi inaspettata-mente si ebbe un nuovo pubblico, che s’interessavavivamente al lavoro degli artisti di grido35. In queglianni i Salons furono piú frequentati che mai. Nellevendite all’asta i prezzi delle opere d’arte raggiunseroben presto il livello prerivoluzionario, che doveva poiessere superato durante l’Impero36. Crebbe il numerodegli artisti e la critica deplorava che ce ne fosserotroppi. Presto – troppo presto – la vita artistica si erariavuta dalle scosse della Rivoluzione. L’attività degliartisti si era riordinata prima che ci fosse un’arte nuova.Si rinnovarono le antiche istituzioni senza un criteriooriginale in fatto di gusto, e senza il coraggio di crear-selo. Ciò spiega perché l’epoca postrivoluzionaria abbia

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avuto sostanzialmente solo un’arte di epigoni e perchésiano dovuti passare ancora piú di vent’anni, prima chein Francia il romanticismo potesse affermarsi.

1 Come per esempio wilhelm hausenstein, Der nackte Mensch,1913, p. 151, e f. antal, Reflections on Classicism and Romanticism,in «The Burlington Magazine», vol. LXVI, 1935, p. 161.

* «Se qualcuno è abbastanza barbaro – abbastanza classico!»2 pope, Essay on Man, I, vv. 233 sgg.** «Vedi attraverso l’aria, l’oceano e la terra | Ogni cosa pregnan-

te e prossima a sbocciare. | In alto, quanto in alto può progredir la vita,| Come si espande intorno, come profonda in basso. | Infinita catena,ch’ebbe principio in Dio, | Essere etereo, umano, angelo, uomo, |Fiera, uccello, pesce, insetto, quel che occhio non vede | Né lente puòraggiungere; dall’infinito a te, | Da te al nulla».

*** «Su, cheta ogni querela; | soffri, o cuore pien d’odio, di giu-stizia affamato. | Virtú, piangi, s’io muoio».

3 heinrich wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, 1927, 7a

ed., p. 252 [trad. it., Concetti fondamentali di storia dell’arte, Milano1953]; hans rose, Spätbarock, 1922, p. 13.

4 Cfr. h. wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe cit., p. 35.5 karl justi, Winckelmann und seine Zeitgenossen, 1923, 3a ed., III,

p. 272.6 maurice dreyfous, Les arts et les artistes pendant la période révo-

lutionnaire, 1906, p. 152.7 albert dresdner, Die Entstehung der Kunstkritik, 1915, pp.

229-30.8 walter friedländer, Hauptströmungen der französischen Malerei

von David bis Cézanne, I, 1930, p. 8.9 françois benoit, L’art français sous la Révolution et l’Empire,

1897, p. 3.10 Ibid., pp. 4-5.11 jules david, Le peintre David, 1880, p. 117.12 edmond e jules goncourt, Histoire de la société française pendant

la Révolution, 1880, p. 346.13 louis madelin, La Révolution, 1911, pp. 490 sgg.14 george plekhanov, Art and Society, 1937, p. 20; louis hourticq,

La peinture française. XVIIIe siècle, 1939, pp. 145 sgg.; a. thibaudet,Histoire de la littérature française de 1789 à nos jours, 1936, p. 5.

15 jules david, Le peintre David cit., p. 57.16 karl marx, Der 18. Brumaire des Louis Napoleon, 1852.

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17 louis hautecoeur, Les origines du Romantisme, in Le Romanti-sme et l’art, 1928, p. 18.

18 léon rosenthal, La peinture romantique, 1903, pp. 25-26.19 f. benoit, L’art français ecc. cit., p. 171.20 louis madelin, La contre-révolution sous la Révolution, 1935,

p. 329.21 Ibid., pp. 162, 175.22 jules renouvier, Histoire de l’art pendant la Révolution, 1863,

p. 31.23 joseph aynard, La Bourgeoisie française, 1934, p. 396.24 Cfr. étienne fajon, The Working Class in the Revolution of

1789, in Essays on the French Revolution, a cura di T. A. Jackson,1945, p. 121.

25 petit de julleville, Histoire de la langue et de la littérature françai-se, VII, 1899, p. 110.

26 henry peyre, Le classicisme français, 1942, p. 37.27 a. dresdner, Die Entstehung ecc. cit., p. 128.28 Ibid., pp. 128-29.29 andré fontaine, Les doctrines d’art en France, 1909, p. 186; f.

benoit, L’art français ecc. cit., p. 133.30 a. dresdner, Die Entstehung ecc. cit., p. 180.31 Ibid.; p. 150.**** Pensieri sulla bellezza e sul gusto.32 joseph billiet, The French Revolution and the Fine Arts, in Essays

on the French Revolution, a cura di T. A. Jackson, 1945, p. 203.33 f. benoit, L’art français ecc. cit., p. 180.34 m. dreyfous, Les arts et les artistes ecc. cit., p. 155.35 f. benoit, L’art français ecc. cit., p. 132.34 Ibid., p. 134.

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