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COMMENTARIA CLASSICA Studi di lologia greca e latina V 2018

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COMMENTARIA CLASSICA

Studi di filologia greca e latina

V 2018

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COMMENTARIA CLASSICA

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DIREZIONE Vincenzo Ortoleva Maria Rosaria Petringa

DIRETTORE RESPONSABILE Vincenzo Ortoleva

COMITATO SCIENTIFICO Klaus-Dietrich Fischer (Mainz) David Langslow (Manchester) Luigi Lehnus (Milano) Antonio V. Nazzaro (Napoli) Heikki Solin (Helsinki)

REDAZIONE Donato De Gianni Giuseppe Marcellino Rosario Scalia

SEDE - CONTATTI Prof.ssa Maria Rosaria Petringa Prof. Vincenzo Ortoleva Università di Catania Dipartimento di Scienze Umanistiche Piazza Dante 32 I-95124 Catania ITALIA [email protected] www.commentariaclassica.altervista.org ISBN 9788894227154 ISSN 2283-5652 Commentaria Classica adopts a policy of blind and anonymous peer review. Pubblicazione realizzata con il patrocinio del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania © dicembre 2018 Litterae Press, Catania

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COMMENTARIA CLASSICA Studi di filologia greca e latina

V

2018

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SOMMARIO

STUDI

G. M. Chesi, Polifemo e Filottete: mostruosità e selvatichezza in Omero e Sofocle 9

F. Fiorucci, Osservazioni sul lanciapietre in Bitone 47,1-5 29

N. Adkin, Virgil’s Cacus and Etymology 39

V. Ortoleva, Nota a Curzio Rufo 3,2,15 49

M. R. Petringa, Particolarità lessicali nel poema dell’Heptateuchos 57

G. Marcellino, Filologia, antiquaria e propaganda nel Quattrocento. Il caso del tempio di Apollo in Circo 61

L. Silvano, Tordi, pappagalli, venti anomali e botti che rotolano: proverbi greci vecchi e nuovi nelle prefazioni aldine 81

RICORDI

F. Karfík, Cristiano Castelletti: in memoriam 95

NOTE DI LETTURA

Clavigero nostro, per Antonio V. Nazzaro, a cura di R. Palla, M. G. Moroni, C. Crimi, A. Dessì, ...et alia. Studi di filologia classica e tardoantica, 4, Pisa 2014 (I. D’Auria) 103

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STUDI

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«Commentaria Classica» 5, 2018, 9-28. ISSN 2283-5652 ISBN 9788894227154

Polifemo e Filottete: mostruosità e selvatichezza in Omero e Sofocle

GIULIA MARIA CHESI

I mostri che popolano il materiale immaginario della letteratura greca e latina sono oggetto di rinnovato interesse critico da parte degli studiosi. Basti ricordare, a titolo di esempio, l’articolo di Bettini (2013) sulle creature fanta-stiche della letteratura classica, le monografie di Hopman (2012) e di Lowe (2015) rispettivamente su Scilla e su mostri e mostruosità nella poesia augu-stea, così come il saggio di Gloyn, di prossima uscita per i tipi di I. B. Tauris, sulla ricezione contemporanea di prominenti figure mostruose della cultura classica1. Questo articolo prende in esame due caratteri mostruosi e selvaggi che, come vedremo, hanno molto in comune: Polifemo nel nono libro dell’Odissea e Filottete nel dramma omonimo di Sofocle2. È mia intenzione elucidare due punti che consentono di valutare sotto una nuova luce critica il discorso omerico e sofocleo su mostruosità e inselvatichimento. In primo luogo, sia in Omero che in Sofocle, l’uomo e il mostro vengono rappresentati come simili (c’è del mostruoso nell’umano e dell’umano nel mostruoso) e come profondamente diversi allo stesso tempo (l’uomo non è un mostro e il mostro non è un uomo). In Omero e in Sofocle il concetto di identità è quindi profondamente ambiguo. In particolare, come vedremo, nel racconto epico di Polifemo e in quello tragico di Filottete l’alterità mostruosa del Ciclope e di Filottete rappresenta, per Odisseo e Neottolemo rispettivamente, la maniera di affermare i valori che informano la loro identità eroica. In secondo luogo, l’indagine omerica e sofoclea sulla mostruosità di Polifemo e di Filottete non si esaurisce in un discorso di assimilazione culturale dell’altro al sé (caso di Polifemo, il mostro, ovvero l’altro rispetto all’eroe Odisseo) o del sé all’altro (caso di Filottete, l’eroe, che viene assimilato ripetutamente all’altro da sé, os-sia l’animale). Possiamo succintamente schematizzare questo discorso nel modo seguente:

___________ 1 Desidero ringraziare il revisore anonimo di Commentaria Classica per la sua let-

tura così scrupolosa e generosa di critiche acute e commenti preziosi – tutti i limiti e le inesattezze di questo articolo rimangono soltanto miei. Sulla mostruosità, pionieristici rimangono i lavori di Clay 1993 e Atherton 2002; si ricordano anche i volumi di Baur 1912 e Oliphant 1913 all’inizio del secolo scorso.

2 Le edizione critiche usate sono Heubeck 2007 per l’Odissea, Avezzù e Pucci 2003 per il Filottete.

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1. Polifemo non si comporta come Odisseo e questo tradisce la sua mostruo-sità. Come avremo modo di approfondire, la violenza di Polifemo è sì abominevole, ma pur sempre un tentativo di rispondere al comportamen-to ostile di Odisseo;

2. l’eroe Filottete vive come un animale, quindi ha perso la sua umanità; l’animalità è ciò che lo distingue. Filottete tuttavia, lo vedremo, non è un animale, ma un uomo malato che ha fatto sua la fragilità animale.

Questo secondo punto non sembra collidere con l’orizzonte di aspettative del pubblico omerico e sofocleo.

1. Polifemo 1.1 Polifemo: mostro ciclopico e homo silvaticus

Nel nono libro dell’Odissea, Polifemo viene definito ‘mostro’ (Od. 9,428: πέλωρ) e ‘lui mostruoso’ (Od. 9,257: αὐτόν τε πέλωρον). Il sostantivo pelōr e il relativo aggettivo pelōros mettono in relazione la mostruosità del Ciclope con le sue fattezze quantomeno bizzarre. Le sembianze del mostro Polifemo non sono umane perché il Ciclope è così grande da assomigliare al picco di una montagna3:

γὰρ θ α ῦ μ ’ ἐτέτυκτο π ε λ ώ ρ ι ον , ο ὐ δ ὲ ἐῴκει ἀν δρ ί γε σιτοφάγῳ, ἀλλὰ ῥίῳ ὑλήεντι ὑ ψ η λ ῶν ὀ ρ έ ω ν … (Od. 9,190-192)

In un articolo pionieristico sul mostruoso, Canguilhem (1962, 29-30) os-serva che l’enormità appartiene alla mostruosità e sottolinea che le montagne possono essere enormi, e tuttavia non sono mostruose:

On dira d’un rocher qu’il est énorme, mais non d’une montagne qu’elle est monstrueuse […] Il y aurait un éclaircissement à tenter sur les rapports de l’énorme et du monstrueux […] Sans doute parce qu’à un certain degré de croissance la quantité met en question la qualité. L’énormité tend vers la mons-truosité.

Queste osservazioni ricalcano molto da vicino la situazione di Polifemo: Polifemo è grande come una montagna; tuttavia, il Ciclope è mostruoso (è troppo grande), non la montagna a cui è paragonato (una montagna è grande per definizione).

___________ 3 Per pelōr e termini affini significanti ‘enorme’, cfr. DELG s.v. πέλωρ; Nenci 1958,

291; Telò 2014, 31; Lowe 2015, 8-9.

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L’enormità del corpo di Polifemo come misura della mostruosità del Ci-clope ben spiega per quale motivo egli terrorizzi i Greci (Od. 9,257: δει-σάντων φθόγγον τε βαρὺν αὐτόν τε πέλωρον): se Polifemo, per Odisseo, è smisuratamente grande e forte, Odisseo, per Polifemo, è piccolo, debole e un mingherlino da niente (Od. 9,515: ὀλίγος τε καὶ οὐτιδανὸς καὶ ἄκικυς). Que-sto modo specifico che Odisseo ha di guardare a Polifemo è strettamente connesso al modo di agire del Ciclope. Il gigantismo di Polifemo è l’epifania della sua alterità e fa emergere un comportamento mostruoso: in conformità alle sue dimensioni abnormi, Polifemo ha una pancia badiale (Od. 9,296: μεγάλην νηδύν) per divorare i Greci. L’incontro di Odisseo con Polifemo isti-tuisce dunque il valore normativo dell’atto del vedere: vedere qualcosa, o qualcuno, implica anche categorizzare. Quella cultura del vedere e dell’essere visti, che secondo Goldhill (1998, 108) costituirebbe il fulcro della vita demo-cratica nella polis, sembra avere una tradizione culturale che risale ad Omero.

Polifemo, il pelōr ciclopico, eguaglia una fiera mostruosa. Come un leone montano (Od. 9,292: ὥς τε λέων ὀρεσίτροφος), Polifemo afferra e divora due Greci, poi altri due, e poi di nuovo due (Od. 9,291-297, 311, 344-347), in un pasto ferale che ricorda la senecana visceratio leonis ac lupi (Ep. 19,10): egli smembra i Greci arto per arto, li mangia crudi, trangugiando insieme le loro ossa, le interiora e la loro carne umana (Od. 9,297 = 347, 374). La caratteriz-zazione bestiale di Polifemo è un elemento narrativo importante per com-prendere la natura della sua trasgressione ciclopica. L’atto di divorare esseri umani, come farebbe un leone, non è cannibalismo, ma piuttosto antropofa-gia animale.

Mangiando i compagni di Odisseo, Polifemo agisce come una creatura in possesso di una violenza fisica brutale. Il nesso ciclopico tra antropofagia e violenza indiscriminata è ben espresso nella descrizione omerica del pasto di Polifemo dove termini attinenti alla sfera semantica del mangiare sono acco-stati al vocabolo specifico per indicare una forma di violenza bruta, ossia biē:

9,476: ἔ δ μ ε ν α ι ἐν σπῆϊ γλαφυρῷ κρατερῆφι β ί η φ ι 10,200: Κύκλωπός τε β ί η ς μεγαλήτορος ἀν δρ ο φ άγ ο ι ο

In conformità con la sua violenza animale, come è stato spesso osservato, Polifemo non agisce secondo le regole rispettate dagli esseri umani; al contra-rio, come uno scellerato (σχέτλιος), il Ciclope viola le norme di xenia, mentre commette azioni sconsiderate contro i suoi ospiti divorandoli (9,295, 350-352, 478-479)4.

___________ 4 Sulla biē di Polifemo si segnalano, fra gli innumerevoli studi, Clay 1983, 112-113,

125, 132; Cook 1995, 94; Bremmer 2002, 143; Hopman 2012, 71; Cantarella 2014, 11-15.

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La bestialità di Polifemo è enfatizzata nel nono libro dell’Odissea anche dal fatto che egli non pratica l’agricoltura, come del resto non coltivano la ter-ra neanche i suoi compagni Ciclopi (9,107-111, 329-330). Polifemo lo lascia intendere quando dice che il vino di Odisseo è più buono di quello che cresce spontaneamente sulla terra dei Ciclopi (9,357-358). Inoltre, come un animale e non come un essere umano, Polifemo vive in una grotta (Od. 9,182, 216, 218, 235-237, 243, 298, 312, 330, 337, 395, 402, 407, 447, 458, 462; 12,210), come fanno tutti i Ciclopi (Od. 9,114, 400). La caratterizzazione di Polifemo come un mostro bestiale e perturbante delinea un discorso sulla sua alterità che possiamo definire un ‘discorso di esclusione’. La mostruosità di Polifemo, per Odisseo, è distruttiva e funziona come un dispositivo antropopoietico che fabbrica l’identità umana esplorando i pericoli coinvolti nello scambio con l’altro5. Tuttavia, questo discorso omerico implica inevitabilmente anche un discorso di inclusione. L’antropofagia di Polifemo significa per Odisseo pre-servazione della sua identità umana: solo un mostro può mangiare gli uomi-ni; l’uomo non mangia l’uomo. Diventare come Polifemo significherebbe, per l’eroe, la perdita della sua umanità e l’oblio di se stesso. Ed infatti per quanto ad Itaca, come ha recentemente mostrato Brelinski (2015), la violenza vendi-cativa di Odisseo ricordi la brutalità del Ciclope, l’eroe, a differenza di Polife-mo, non è un mostro: Odisseo è un eroe che uccide i suoi nemici. Il testo omerico supporta questa interpretazione. Di fronte a Euriclea, l’eroe è tutto coperto del sangue dei cadaveri dei corteggiatori di Penelope, come un leone dopo avere divorato un bove selvatico:

εὗρεν ἔπειτ’ Ὀδυσῆα μετὰ κταμένοισι νέκυσσιν α ἵ μ ατ ι καὶ λύθρῳ πεπαλαγμένον ὥστε λ έ ον τα , ὅς ῥά τε βεβρωκὼς βοὸς ἔρχεται ἀγραύλοιο (Od. 22,401-403)

Questa immagine ricalca da vicino la descrizione di Polifemo che mangia i Greci come un leone montano (ὥς τε λέων ὀρεσίτροφος) divora la sua preda (Od. 9,292-293). Eppure, mentre la metafora del leone divoratore rispecchia la realtà dell’antropofagia nel caso di Polifemo, Odisseo, ovviamente, non si ciba di esseri umani. In altri termini, la metafora del leone divoratore assimila la violenza di Odisseo contro i suoi nemici ad Itaca alla violenza di Polifemo contro i Greci solo e soltanto ad un livello metaforico – Odisseo uccide, ma ‘sbrana’, i suoi nemici: pace Grethlein (2017, 225), il leone-Odisseo è molto distante dal leone-Polifemo6. Anche nel caso della violenza di Odisseo tutta-

___________ 5 Sul valore antropopoietico della mostruosità di Polifemo, cfr. anche le osserva-

zioni di Andò 2013, 18-20. 6 Differisco pertanto anche da Loney (2015, 65), che vede nel paragone di Odisseo

con un leone divoratore una prova del fatto che Odysseus «has taken on a Cyclopean

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POLIFEMO E FILOTTETE

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via il linguaggio omerico ci parla dell’assurdità di fondo che sottende alla vio-lenza umana (anche quando giustificata come l’uccisione dei Proci a Itaca): l’esercizio della violenza riduce l’eroe Odisseo, come il mostro Polifemo, alla stregua di un animale predatore.

Ora, a dispetto di tutte le sue caratteristiche mostruose, Polifemo non è strettamente un mostro: il Ciclope è in qualche modo un uomo. Più precisa-mente è un uomo mostruoso, un anēr pelōrios (Od. 9,187)7. L’umanità di Poli-femo è evocata nel testo anche quando Odisseo e i suoi compagni lo descri-vono come un anēr agrios (Od. 9,214-215: ἄνδρ᾽ ἄγριον; 9,494: ἄγριον ἄν-δρα). Come è stato sottolineato, l’aggettivo agrios esprime l’idea di ferocia ma è anche legato al campo semantico di agros (campo), ragion per cui può signi-ficare altresì ‘che vive nei campi’8. Pertanto, se da un lato la descrizione di Po-lifemo come un uomo agrios sottolinea la natura selvaggia del Ciclope, dall’altra è legata anche alla sua vita rustica di pastore (Od. 9,188, 217, 315) e lo avvicina agli eroi. Nell’Iliade, i giovani guerrieri sono spesso descritti come pastori (Il. 5,311-313; 14,443-445; 15,545-551), come osserva Haubold (2000, 18) a proposito di questi passi iliadici: «Young warriors are often seen herding flocks»9. Inoltre, anche dei pastori umani si dice che essi siano selvaggi (Od. 11,293: βουκόλοι ἀγροιῶται) e che vivano nei campi (Il. 18,162: ποιμένες ἄγραυλοι).

Non stupisce che, in quanto pastore, Polifemo condivida tratti comuni con Eumeo. Soprattutto il motivo del riposo e del sonno evidenzia la conti-nuità tra il Ciclope ed Eumeo. Come Polifemo vive e dorme con il suo be-stiame (9,187, 298), così Eumeo vive e dorme con le sue scrofe e i suoi maiali (13,407; 14,372, 524-533; 15,556-557). Il testo di Omero mette in parallelo il ritmo della vita di Eumeo e di Polifemo usando lo stesso verbo per ‘dormire’ (ἐνίαυε: 9,187 = 15,556). Non si tratta dell’unica somiglianza con Eumeo. Come il porcaro soffre per i suoi maiali (14,416), così Polifemo è pieno di preoccupazione per il suo montone (Od. 9,444-460). Come Eumeo, e con lui Filezio (Od. 14,5-19; 20,189), si prendono cura dei loro animali, così Polifemo

___________

aspect». Il ritratto metaforico di Odisseo come un leone divoratore è uno dei momenti narrativi più importanti in Od. 22 e, come tale, è stata al centro di numerosi studi sulla Mnēstērophonia; per le pubblicazioni più recenti, oltre ai già citati, si rimanda agli im-portanti contributi di Said 2012, 362-363 e Bakker 2013, 72-73 e 155-156.

7 Sull’espressione anēr pelōrios, si rimanda, tra gli altri, anche agli studi di Troxler 1964, 178-179; Calame 1976, 314; Pucci 1998, 116.

8 Cfr. Valgimigli 1964, 64; Pucci 1998, 119. 9 Anche i condottieri di eserciti vengono associati nell’Iliade alla figura del pastore,

ma solo a livello metaforico, nella nota immagine poimena / poimeni laon; cfr. Giorda-no (in corso di stampa), la quale discute dettagliatamente le origini vediche e bibliche dell’immagine omerica ‘pastore di popoli’.

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è un capraio attento: sa molto bene come accudire gli agnelli e le capre (Od. 9,218-222, 237-239, 338-340) e come mungere le capre (Od. 9,245, 308, 342); ogni mattina porta al pascolo le greggi e ogni sera ritorna con loro (Od. 9,315-316, 336-338, 437-438)10.

L’affezione per gli animali è un segno in direzione di una certa umanità di Polifemo. Questo è particolarmente evidente nel caso del suo caprone. Men-tre i Greci scappano dalla grotta, Polifemo, ormai accecato e dolorante, parla al montone (Od. 9,446-460) in modo molto toccante. Come è stato osservato, la tenerezza di questo monologo mette in evidenza la ferocia del Ciclope: l’umanizzazione del montone, addolorato per l’accecamento del suo padrone, contrasta con l’antropofagia di Polifemo; se il montone potesse parlare, rivele-rebbe la posizione dei Greci nella caverna, e i compagni di Odisseo, insieme al loro capo, finirebbero brutalmente uccisi da Polifemo11. Se l’affetto per il montone accentua (invece di diminuirla) la ferinità del Ciclope, sembra co-munque ragionevole recuperare nel discorso affettuoso di Polifemo al suo ca-prone alcune affinità con il legame di fedeltà tra Odisseo e il cane Argo (Od. 17,311-323). Non si intende tuttavia assimilare gli atteggiamenti affettuosi di Polifemo con l’affetto che Odisseo prova per il suo cane: Polifemo è affeziona-to solo al suo montone (per il resto vive in assoluta solitudine: Od. 9,188-189, 191-192); Odisseo, invece, vuole un bene pari (e forse anzi anche maggiore) ai membri del suo oikos. Ulteriori dettagli testuali tradiscono tratti umani in Po-lifemo. Come Odisseo e gli esseri umani (Od. 6,125), anche Polifemo è dotato del potere della parola, che lo differenzia dagli animali e dai non Greci: il montone non parla né pensa (Od. 9,456); i Sintii di Lemno hanno un lin-guaggio rozzo, sono cioè agriophōnoi (Od. 8,294)12.

Infine, al pari di un essere umano, Polifemo è una creatura tecnologica, per quanto la sua sia una tecnologia del tutto rudimentale. Il Ciclope accende un fuoco (Od. 9,251 = 308) ed è a conoscenza della lavorazione del legno e della ceramica, come possiamo dedurre dalla presenza di diversi oggetti nella sua caverna: graticci per i formaggi, boccali per il siero del latte, secchi e vasi per mungere, canestrelli intrecciati (Od. 9,219, 222-223, 247-248, 346). Aven-do in comune con Odisseo alcuni tratti umani, non stupisce che Polifemo ab-bia familiarità con concetti e pratiche sociali proprie della cultura greca, come il regalo per l’ospite (9,356, 365, 517), la pirateria, il viaggiare e il commerciare (Od. 9,252-255 = 3,71-74, 9,279-280), e come le nozioni di xenos (Od. 9,252), dolos, philos e biē (9,408).

___________ 10 Su Polifemo pastore si vedano, tra gli altri, anche Austin 1975, 143-144; Clark

1989, 124-125; Clare 2002, 12. 11 Cfr. O’Sullivan 1990, 13-14. 12 Sul Ciclope come creatura parlante, cfr. Hernandez 2000, 354.

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POLIFEMO E FILOTTETE

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1.2 Il mostro Polifemo e l’uomo Odisseo: alterità mostruosa ed identità eroica a confronto

I molteplici punti di somiglianza che Polifemo spartisce con Odisseo non giustificano un discorso di assimilazione culturale dell’altro alle norme del sé. Questo sembra supportato dal passo 174-176 del libro nono. In questi versi il colonizzatore Odisseo applica una prospettiva antropologica a Polifemo, se-condo cui o l’altro agisce come il sé o agisce contro di lui; vale a dire o Polife-mo è amichevole con gli ospiti e timoroso degli dèi, o è selvaggio, ingiusto e guidato da hybris13:

ἐλθὼν τῶνδ’ ἀνδρῶν πειρήσομαι, οἵ τινές εἰσιν, ἤ ῥ’ οἵ γ’ ὑβρισταί τε καὶ ἄγριοι οὐδὲ δίκαιοι, ἦε φιλόξεινοι, καί σφιν νόος ἐστὶ θεουδής.

Polifemo, tuttavia, non rispetta le regole della societas umana e divora i Greci. Possiamo interpretare l’antropofagia di Polifemo come la sua particola-re forma di resistenza ciclopica all’esercizio di egemonia culturale da parte di Odisseo (= o sei come me o sei un mostro). In effetti non si dice mai nel libro nono che i Ciclopi mangino gli uomini; al contrario ci viene detto che la dieta dell’abile casaro Polifemo (Od. 9,218-223) – come d’altra parte quella dei pa-stori umani (Od. 4,87-89) – consiste normalmente dei prodotti a base di latte che egli produce in abbondanza (9,219-223; 244-249). Solo quando Odisseo ordina a Polifemo (Od. 9,274: κέλεαι) di seguire le regole di ospitalità di Zeus, il Ciclope divora i Greci. L’antropofagia di Polifemo sembra apparire nel testo come un comportamento anomalo del Ciclope e un tentativo in extremis di resistere al nemico per preservare la propria identità. In questo senso, il di-scorso omerico non definisce semplicemente l’umanità «by adherence to a set of essentially Greek cultural practices, which are typically rejected by alien peoples» (Power 2011, 15). Nel racconto omerico dell’incontro di Polifemo con Odisseo, l’antropofagia del Ciclope e la sua violazione delle norme di xe-nia sembrano funzionare come un dispositivo che spinge ad interrogarsi sulla legittimità dell’idea dell’uomo come misura di tutte le cose. In altre parole, in Omero, l’esistenza di una legge umana pone sempre la questione della sua le-gittimità: le regole umane non sono universali; l’altro le può disconoscere. Una conseguenza cruciale è che senza il mostruoso l’uomo perderebbe l’op-portunità di stabilire un discorso critico sulle regole, riflettendo su come una regola abbia una funzione normativa solo nella misura in cui qualcuno po-trebbe trasgredirla. ___________

13 Sullo sguardo di Odisseo come lo sguardo proprio del colonizzatore, cfr. soprat-

tutto Malkin 1998, 160, 184-185 e Dougherty 2001, 127-130 e, più recentemente, Pow-er 2011, 48-50 e Bakker 2013, 60.

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Questa lettura dell’antropofagia di Polifemo presta il fianco ad una obie-zione di fondo: per il poeta ed il suo pubblico l’atto antropofago del Ciclope è esclusivamente abominevole violenza bruta. Se dunque Polifemo agisce ingiu-stamente, come Odisseo afferma poco prima di accecarlo (Od. 9,352), la sua violenza ciclopica appare del tutto ingiustificata: che senso ha allora parlare di ‘resistenza ciclopica’ al colonizzatore Odisseo? Nell’ottica di un pubblico che negli anni della redazione del poema è partecipe della colonizzazione greca del Mediterraneo, l’azione violenta del Ciclope difficilmente potrebbe rappre-sentare la lotta del buon selvaggio contro il ‘cattivo’ conquistatore. L’acceca-mento di Polifemo è un atto di legittima giustizia retributiva da parte di Odis-seo e dei suoi compagni: la vendetta di Poseidone non punisce infatti l’acceca-mento di Polifemo bensì la hybris finale di Odisseo (l’eroe si vanta di avere accecato Polifemo e rivela al Ciclope il suo vero nome). Se questo è vero, il testo omerico si presta anche ad altre osservazioni. L’Odisseo della Kyklōpeia non è in tutto e per tutto il cosiddetto «Ulysses Victorianus» ovvero l’uomo civilizzato che viaggia attraverso terre inesplorate e sopravvive agli indigeni violenti14. Come è stato osservato, non è da escludere a priori che l’acceca-mento di Polifemo rappresenti una punizione di Zeus e degli altri dèi solo dal punto di vista umano del narratore Odisseo (cfr. Odisseo al v. 9,479: τῶ σε Ζεὺς τίσατο καὶ θεοὶ ἄλλοι)15. Alla fine del libro nono apprendiamo infatti che Zeus non accetta il sacrificio di Odisseo e progetta invece di annientare l’eroe e il suo equipaggio (Od. 9,553-555). Il rifiuto di Zeus getta un’ombra sulla vendetta di Odisseo contro il Ciclope – Odisseo stesso ci ricorda di esse-re l’oggetto dell’odio degli dèi (Od. 14,365-370). C’è di più. L’antropofagia di Polifemo è leggibile come il tentativo in extremis da parte di Polifemo di di-fendersi contro Odisseo perché l’eroe, a ben guardare, si comporta con il Ci-clope più come un visitatore ostile che come un ospite. Come è stato spesso osservato, l’eroe viola ripetutamente le convenzioni di xenia: a) entra nella grotta senza essere invitato e si serve del formaggio dell’ospite (Od. 9,231-232); b) offre del vino al Ciclope solo con l’intento di ucciderlo; c) esige doni da Polifemo (Od. 9,229); d) dà un falso nome (Od. 9,366)16. Il comportamento

___________ 14 Sull’«Ulysses Victorianus», cfr. Hall 1989, 6 ss.; McKinsey 2010, 36 ss. Come ha

mostrato Grethlein 2017, 141-158, il racconto omerico dell’incontro di Odisseo con Polifemo si allinea con la tradizione iconografica, che si astiene da una mera rappre-sentazione dell’accecamento di Polifemo come racconto della vittoriosa colonizzazione greca di popoli barbari.

15 Cfr. Gagarin 1987, 294. 16 Cfr., tra gli altri, Friedrich 1987, 125-126; Brown 1996, 24-25; Danek 1998, 179.

Supponendo che Odisseo mangi il formaggio del Ciclope, mi discosto da Longo 1983, 214 e Privitera 1993, 27, n. 19, i quali sostengono che l’eroe mangi le sue scorte men-zionate ai versi 212-213 (ἐν δὲ καὶ ᾖα/ κωρύκῳ); per una confutazione dettagliata della

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acquisitivo di Odisseo è certo una prova della sua filotimia: Odisseo è deside-roso di entrare nella caverna e di impegnarsi in relazioni di ospitalità; prima di mangiare il formaggio, lui e i suoi compagni sono preoccupati di offrire un sacrificio agli dèi (Od. 9,231: ἔνθα δὲ πῦρ κήαντες ἐθύσαμεν); il Ciclope non nota nulla, il che significa che i Greci mangiano solo una piccola porzione del formaggio. Resta tuttavia il fatto che i Greci sacrificano un animale che appar-tiene a Polifemo, quindi violano le norme di xenia17. In questo contesto, Odis-seo mostra il comportamento poco lusinghiero di un ladro o, come indica la domanda che Polifemo rivolge all’eroe e ai suoi uomini, di un predone che reca danno agli estranei:

ὦ ξεῖνοι, τίνες ἐστέ; πόθεν πλεῖθ᾽ ὑγρὰ κέλευθα; ἦ τι κατὰ πρῆξιν ἦ μαψιδίως ἀλάλησθε, οἷά τε λ η ι σ τ ῆ ρ ε ς , ὑπεὶρ ἅλα, τοί τ᾽ ἀλόωνται ψυχὰς παρθέμενοι κ α κ ὸ ν ἀλλοδαποῖσι φέροντες (Od. 9,252-255)

Mi sembra pertanto che si possa spiegare la violenza di Polifemo nella Kyklōpeia come la risposta ciclopica al fallimento di Odisseo di presentarsi al Ciclope come un ospite timoroso degli dèi. Tutto ciò non implica che l’antropofagia di Polifemo sia un atto legittimo; al contrario, lo si è detto, si tratta di un atto abominevole di indiscriminata violenza. Leggere la violenza di Polifemo come un tentativo in extremis di rispondere all’atteggiamento ostile di Odisseo vuol dire semmai problematizzare l’attitudine da colonizza-tore che Odisseo manifesta nell’incontro con Polifemo.

2. Filottete 2.1 Filottete: malato mostruoso e homo silvaticus

La figura di Filottete, come osserva Schein (2013, 17), richiama molto da vicino la figura di Polifemo:

The interpretation of Philoktetes is complicated by an additional pattern of inter-textuality, which associates Philoktetes not with Achilles or Odysseus but with one of Odysseus’ victims, the Kyklops, Polyphemos18.

___________

tesi di Longo e di Privitera, cfr. Cantilena in Heubeck 2007, 357. In generale, sulla xenia nella Kyklōpeia, cfr., tra gli altri, De Jong (2001: 223, 236-237); Dougherty (2001: 138-140); Rinon (2008: 78-79).

17 Cfr. Newton 1983, 140. Differisco dunque da Danek 1998, 180, secondo il quale i Greci non sacrificherebbero un animale di Polifemo ma del formaggio. Tuttavia, il verbo καίω suggerisce il sacrificio di un animale (cfr. Heubeck 2007, ad loc.).

18 Sulle somiglianze tra Polifemo e Filottete e gli snodi intertestuali tra la Kyklōpeia e il Filottete, cfr. lo studio seminale di Greendard 1987, 81 ss., al quale si devono ag-

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Va comunque premesso che nel caso di Filottete la mostruosità è soltanto transitoria conseguenza di una malattia da cui l’eroe sarà risollevato. Nel caso di Filottete, peraltro, la mostruosità non appartiene all’essenza dell’eroe; Filot-tete non è un mostro, abnorme per natura: se la genealogia di Polifemo è in tutto e per tutto mostruosa perché egli fa parte della razza dei Ciclopi, Filotte-te è in tutto e per tutto un eroe, perché figlio di Peante; Filottete, inoltre, a dif-ferenza di Polifemo, è mostrificato dall’esclusione cui lo condanna la sua ma-lattia. Ciò nonostante i punti di somiglianza tra questi due personaggi sono abbastanza numerosi. Se Polifemo è l’homo silvaticus epico, l’anēr agrios, Fi-lottete è l’homo silvaticus tragico, o, più precisamente, l’uomo apēgriōmenos e dystēnos (Ph. 226-227), ossia l’uomo infelice che si è inselvatichito a seguito di una malattia selvaggia (Ph. 173: νόσον ἀγρίαν) procurata dal morso feroce di un serpente velenoso (Ph. 267: ἀγρίῳ χαράγματι)19. Polifemo e Filottete vivo-no nella parte più remota della terra che abitano (Ph. 144: ἐσχατιαῖς; Od. 9,182: ἐπ᾽ ἐσχατιῇ); come il Ciclope, lo abbiamo visto, vive appartato dalla comunità dei Ciclopi, così l’eroe vive a Lemno da solo e in profonda solitudi-ne (Ph. 172, 183, 228, 265, 471, 487, 689, 1018, 1070) – Filottete certo, va pre-cisato, per costrizione, dopo che i Greci l’hanno abbandonato nella deserta Lemno20. Conformemente alla sua selvatichezza, Filottete, come Polifemo, non coltiva la terra. La fertile Lemno – ci racconta il coro dei marinai (Ph. 708-709) – non produce grano, e a differenza che per gli uomini mangiatori di pane, gli aneres alphēstai (come in Omero), la caccia con l’arco per Filottete è l’unica forma di sostentamento (Ph. 287-289, 710-713, 1090-1094, 1108-1111, 1125-1126, 1146-1154). Come nel caso di Polifemo, anche nel caso di Filottete l’agricoltura non è la sola tecnica ignorata dall’homo silvestris. Filot-tete fa uso di una conoscenza tecnologica a dir poco rudimentale. Il suo letto è un giaciglio di foglie; le sue vesti sono dei cenci sudici del sangue della can-

___________

giungere, ognuno con accenti diversi, Levine 2003; Davies 2003; Finglass 2006; Bril-lante 2009. Polifemo, va ricordato, funge da modello letterario anche per la figura del Ciclope nel Ciclope di Euripide, del quale tuttavia questo articolo non si occupa.

19 Cfr. Schein 2013, 17 ss. Sul processo di inselvatichimento di Filottete, cfr. anche Ph. 1321: σὺ δ᾽ ἠγρίωσαι; anche in questo verso, l’idea che la selvatichezza di Filottete sia l’esito di un processo è ben espresso in greco dall’occorrenza del tempo perfetto. Non si tratta di un particolare periferico. Mentre per Filottete la selvatichezza si confi-gura come l’esito di un processo, per Polifemo appare, per così dire, una condizione ontologica a priori: Polifemo è selvatico; Filottete lo diventa. Sull’inselvatichimento di Filottete e la selvatichezza di Polifemo, cfr. Levine 2003, 13-14. Su agrios come «voca-bulaire métaphorique» della malattia nel Filottete e nei testi tragici e come termine per caratterizzare una patologia nel Corpus Hippocraticum, cfr. lo studio seminale di Jouanna 1988, 344-346.

20 Cfr. Levine 2003, 8-12.

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crena che lo tormenta; la sua coppa di legno è opera di un artigiano inesperto (Ph. 32-39).

Ma fatto ancora più importante, anche nel caso di Filottete un tratto fon-damentale della sua selvatichezza è la sua animalizzazione. Come osservano Korhonen e Ruonakoski (2017, 134-135), morso dal serpente di Crise (Ph. 632, 1327-1328), Filottete, l’uomo che striscia al suolo (Ph. 207, 295), sembra avere introiettato la violenza del rettile: come notano Odisseo e Neottolemo, l’eroe è sempre pronto ad attaccare ed uccidere (Ph. 75-76). La vita passata insieme agli animali dei monti (ξυνουσίαι θηρῶν ὀρείων la chiama Sofocle, Ph. 936-937) spiegherebbe inoltre perché Filottete abbia adottato comporta-menti propri degli animali, nonostante egli venga paragonato esplicitamente ad un animale solo alla fine del dramma in una similitudine che lo ritrae si-mile ad un leone (Ph. 1436). Se Polifemo riduce i Greci ad animali, divoran-doli come farebbe un leone con la sua preda, anche le abitudini alimentari di Filottete sono animali – Filottete si sazia del cibo proprio degli animali (φορβή: Ph. 43, 162, 707, 711, 1108; βορά: 274, 308). Non solo: privato dell’arco, Filottete è consapevole che potrà morire di fame e diventare a sua volta, come prima di lui gli animali che era solito cacciare, cibo per predatori (Ph. 956-958, 1145-1153). Inoltre, come un animale, Filottete non padroneg-gia il logos21. All’apice del dolore causato dalla malattia che gli distrugge il piede, Filottete perde ripetutamente il controllo sull’uso del linguaggio. Inca-pace di parlare, egli può solo emettere selvagge grida di dolore (Ph. 9-10: ἀγρίαις δυσφημίαις; cfr. anche 732, 739, 745-746, 754, 782, 785, 790)22. Persi-no la socializzazione di Filottete è animale. Abbandonato dagli uomini (Ph. 183: κεῖται μοῦνος ἀπ᾽ ἄλλων), gli animali maculati e pelosi (probabilmente linci e capre selvatiche) sono i suoi unici compagni (Ph. 184-185: στικτῶν ἢ λασίων μετὰ / θηρῶν) e gli unici interlocutori del suo dolore; a loro l’eroe si rivolge in tre enfatiche apostrofi (Ph. 936-940, 1087-1094, 1146-1158)23. Co-me osservano Korhonen e Ruonakoski, queste apostrofi sono il segno che Fi-lottete è consapevole della propria animalità, nel senso che l’eroe, rivolgendosi agli animali con ‘o voi’, si immedesima e simpatizza con la vita animale24. In-

___________ 21 Per l’assenza di logos negli animali, cfr. Sorabji 1993, 12-16, e più recentemente,

Fögen 2007, 46-53 e 2014, 219-223. 22 Sul nosos di Filottete e la crisi nell’uso del linguaggio da parte dell’eroe, cfr. Biggs

1966; Podlecki 1966; Worman 2000; Chesi 2012. 23 Come osserva Levine 2003, 14, l’aggettivo λάσιος, hapax in Sofocle, segna un

punto di continuità fra Polifemo e Filottete e la loro vita con gli animali: anche il mon-tone di Polifemo è λάσιος, ‘lanuto’ (Od. 9,433).

24 Cfr. Korhonen e Ruonakoski 2017, 129: «Philoctetes’ solemn use of ‘you’ to the animals has the poetic function of expressing his empathy – his imaginative participa-tion in the animals’ situation and perspective».

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fine, anche la grotta in cui abita è un indizio importante (anche perché ele-mento scenico) dell’animalizzazione di Filottete. L’antro ha ‘due bocche’ (Ph. 16), due aperture (Ph. 19) e ‘due porte’ (Ph. 159, 952)25. Questa configurazio-ne architettonica della caverna assimila Filottete al porcospino, animale che secondo diverse fonti costruisce la tana munendola di due ingressi (Arist. Hist. anim. 612b1-9; Thphr. De sign. 30; Plu. De soll. anim. 16,972a)26.

Ma Filottete, al pari di Polifemo, non è soltanto un homo silvestris. Come Polifemo, anch’egli è un essere mostruoso, sebbene il greco di Sofocle non lo descriva mai expressis verbis come tale. La mostruosità di Filottete è desumi-bile dal carattere mostruoso della malattia apparentemente contagiosa (Ph. 520) che di fatto infetta tutto l’ambiente circostante in cui vive l’eroe (Ph. 282-284, 1087-1088) e lo deforma e appesta al punto da fare di lui un paria27. Nes-suno osa avvicinare (Ph. 106-107) questo terribile e spaventevole vagabondo (Ph. 147: δεινὸς ὁδίτης): la vecchia piaga al piede – purulenta, sanguinolenta e infestata di vermi – emana un fetore insopportabile (Ph. 7, 42, 695-698, 783-784, 824-825, 876, 1032, 1157); Filottete non soltanto è zoppo (Ph. 486, 1032), si trascina per spostarsi (Ph. 163, 215, 291) e incespica senza volere (Ph. 215); egli addirittura, privo di forze (Ph. 486) e incapace com’è di reggersi in piedi (Ph. 820), si muove rotolandosi di qua e di là (Ph. 701-703). Come nel caso di Polifemo, anche nel caso di Filottete essere mostruoso significa abitare un corpo aberrante che spaventa (così il caso di Polifemo) o potenzialmente po-trebbe spaventare (così il caso di Filottete) chi lo osserva (Ph. 225-229; l’eroe, rivolgendosi ad Odisseo e Neottolemo li esorta a non farsi spaventare dal suo aspetto abbruttito). C’è tuttavia qualcosa di forse ancora più inquietante nel corpo mostruoso di Filottete. La malattia, oltre a rendere l’eroe un obbrobrio inavvicinabile, lo priva della vita, pur non uccidendolo28. Filottete è mostruo-so perché unisce in sé due opposti inconciliabili: la vita e la morte. Come l’eroe dice di se stesso, Filottete è un morto vivente (Ph. 1018: ἐν ζῶσιν νεκρόν), un’ombra di fumo (Ph. 946: καπνοῦ σκιάν), un fantasma (Ph. 947: εἴδωλον).

___________ 25 L’antro con due aperture è un indizio topografico della convergenza fra il Ciclo-

pe e Filottete anche nel Ciclope di Euripide (Cycl. 707). Sulla vexata quaestio del rap-porto fra questi due testi, cfr. Seaford 1984, 48 ss.

26 Cfr. Kitchell 2017, 191-192. Per il fatto di abitare in una grotta, Filottete, al pari di Polifemo, rappresenterebbe l’archetipo letterario del “cave-dwelling man”; su questo punto, cfr. Levine 2003, 5.

27 Sulla malattia di Filottete e la sua ‘monstrification’, cfr. Worman 2000, 5-6 e Thumigher (in stampa).

28 Sulla morte per Filottete come una realtà onnipresente e sempre differita si ri-manda allo studio di Maudit 1995.

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Mostruosa peraltro è la malattia di Filottete perché segno della presenza della potenza divina nel corpo dell’eroe (Filottete, lo abbiamo ricordato, viene morsicato dal serpente che custodisce l’altare della dea Crise)29. Letta come manifestazione di un atto divino (Ph. 192-193: θεῖα … καὶ τὰ παθήματα κεῖνα), capiamo forse meglio per quale motivo la malattia di Filottete susciti thauma (Ph. 687-691) e sia enigmatica: la sua sofferenza umana, e l’alterità che ne deriva, è inspiegabile perché indotta dall’insondabile volontà divina. La malattia di Filottete non a caso è inquadrata nel dramma in una sorta di sospensione causale. Avezzù (1988) ha ricostruito l’antefatto sulla base di al-cune fonti mitografiche (Filottete, a Lemno o a Tenedo, verrebbe incaricato di offrire un sacrificio a Crise, viene però ferito dal serpente che vigila sull’altare della dea, in quanto ella rifiuta il sacrificio offerto dai Greci in espiazione del-la morte di Tenes, trucidato da Achille) – il Filottete, tuttavia, tace su tutti questi eventi. Neottolemo ci racconta che i mali di cui nel presente soffre Fi-lottete sono mandati da un dio per impedire che l’eroe raggiunga l’esercito greco e conquisti Troia (Ph. 195-200); quando però Neottolemo spiega che Filottete fu ferito nell’isola di Crise (Ph. 194), il giovane non accenna affatto alla causa di questo ferimento. Se accettiamo l’ipotesi che la malattia di Filot-tete sia un enigma, allora possiamo concludere che l’enigma di Filottete rima-ne irrisolto: anche quando Eracle ci spiega come, quando e perché Filottete guarirà (Ph. 1423-1439), noi continuiamo ad ignorare la causa dei patimenti dell’eroe. Se la malattia di Filottete pone il dilemma «Perché la malattia e per-ché la sofferenza del corpo?», il Filottete si configura come un dramma enig-matico proprio perché non ci fornisce nessuna risposta30.

La caratterizzazione orripilante e mostruosa della malattia di Filottete rientra in un un discorso di esclusione sulla anormalità di un eroe che, ironia della sorte (?), non ha mai escluso o respinto nessuno (Ph. 684: ὃς οὔτ᾽ ἔρξας τιν᾽ οὔ τι νοσφίσας). L’esclusione di Filottete è esplicita nel testo. Anche se nessun personaggio lo deride mai apertamente, l’eroe pensa che l’esercito gre-co, i suoi capi e Odisseo si prendano gioco di lui a causa del suo aspetto terri-ficante (Ph. 257-259, 1023)31. Tuttavia, come nel caso di Polifemo, la mo-struosa alterità di Filottete non è soltanto parte di un discorso di esclusione. La mostruosità di Filottete funziona come un dispositivo antropopoietico che ___________

29 Il monstrum (da monstare) è sempre il veicolo di un messaggio o di un evento, e

in un mostro opera il divino, cfr. Nenci 1957-1958, 290-291. In particolare in greco il termine pelōr rimanda etimologicamente al termine teras (prodigio) – cfr. DELG, s.v. πέλωρ; Troxler 1964, 174-178; Hopman 2012, 75-76 – e designa creature divine, cfr. Roessel 1989, 32-33; Birge 1993, 19-20.

30 Sulla dimensione enigmatica della malattia di Filottete, cfr. Chesi 2012, 308-310. 31 Su questo punto, cfr. Thumiger (in stampa), la quale suggerisce di parlare di ‘in-

ternalised mockery’ di Filottete.

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mette in discussione la nozione stessa di alterità. A ben guardare, Filottete in-fatti non è in tutto e per tutto una vittima della sua malattia e dell’esclusione a cui lo condannano i Greci, nonostante egli stesso sostenga di essere la vittima della violenza di Odisseo (Ph. 314: Ὀδυσσέως βία). Quando, come abbiamo appena visto, Filottete afferma di essere il dileggio dei Greci, l’eroe rimprovera ai Greci proprio quello che non dovrebbero fare, cioè deriderlo ed emarginar-lo: nella ‘civiltà di vergogna’ essere derisi rappresenta un oltraggio intollerabi-le. Filottete inoltre è il primo a parlare dell’aspetto mostruoso della malattia che lo sevizia. In quest’ottica, la mostrificazione nosologica di Filottete si con-figura innanzitutto come un’esperienza soggettiva che acquisisce una valenza decisamente positiva: l’aspetto soggettivo della malattia consente all’eroe di parlare del suo dolore e di condividere la sua sofferenza con gli altri32. C’è dell’altro. Per quanto i Greci abbiano abbandonato Filottete a Lemno, essi non possono fare a meno dell’eroe appestato. Tutta l’azione tragica del Filottete si snoda a partire dalla necessità per i Greci di rientrare a Lemno e ristabilire un contatto con l’eroe abbandonato a se stesso: senza Filottete e il suo arco, non sarà mai possibile espugnare Troia. In questa prospettiva, l’esclusione di Filot-tete, per quanto prolungata negli anni (l’eroe è a Lemno ormai da dieci anni, Ph. 312, 715), è soltanto temporanea.

Allo stesso livello, sembra legittimo supporre che l’inselvatichimento ani-male, per Filottete, non rappresenti soltanto una condizione che l’eroe è co-stretto a subire supinamente. Come osservano Korhonen e Ruonakoski (2017, 144), Filottete «understands the interdependency of animal life»: quando, come abbiamo visto, una volta spossessato dell’arco, Filottete teme di diventa-re cibo per gli animali, l’eroe non sta solo lamentando la riduzione della sua umanità ad animalità; al contrario, egli mostra di capire che nella catena ali-mentare anche gli esseri umani, normalmente cacciatori, sono fonte di cibo e sostentamento per altri predatori (Ph. 954-960).

2.2 L’umanità fragile di Filottete: un altro modo di essere eroi

L’animalizzazione e la mostrificazione di Filottete non giustificano una prospettiva critica secondo la quale Filottete sarebbe sullo stesso piano dell’animale. A dispetto del processo nosologico di imbestiamento e di mo-strificazione che condanna l’eroe ad una esistenza animale e mostruosa fatta di stenti e di dolori impossibili (Ph. 508: δυσοίστων πόνων), Filottete è e ri-mane un uomo greco. Nonostante gli anni trascorsi in isolamento forzato a Lemno, Filottete è in grado di interagire con Odisseo e Neottolemo perché condivide con loro un codice etico incentrato innanzitutto sul valore della ___________

32 Su questo punto cfr. Thumiger (in stampa), la quale a questo proposito parla di

«auto-pathographical eloquence» di Filottete.

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pietà, eleos33. Filottete inoltre non si percepisce soltanto come un uomo insel-vatichito (cfr., tra tutti, Ph. 226); egli non smette di giudicare i comportamenti umani secondo il codice etico della condotta eroica (Ph. 475-476)34. Non a caso Filottete è perfettamente consapevole di essere l’erede di Eracle, del quale custodisce l’arco (Ph. 801 ss., 1131), e seppure abbandonato dall’esercito greco sull’isola dispersa di Lemno, non smette di interessarsi delle sorti di quelli che un tempo furono i suoi compagni in guerra, ossia Achille, Aiace, Nestore e Patroclo (Ph. 332 ss., 414, 421 ss., 433 ss.). Ciò non vuol dire, come invece suggeriscono Brillante (2009, 59) e Schein (2013, 17), che l’animalità di Filot-tete sia solo esteriore, un’apparenza ingannevole. Diventare animale, nel caso di Filottete – l’uomo ridotto in solitudine e costretto a sopravvivere di caccia – non significa smettere di esistere in quanto uomo, ma al contrario incarna-re, in un corpo martoriato, un altro modo di esistere in quanto uomo: essere fragile e vulnerabile come è fragile e vulnerabile l’animale quando, per esem-pio, è esposto alla violenza del cacciatore. Conformemente a ciò, nel merito di Filottete, la vita con gli animali non rappresenta in tutto e per tutto un pro-cesso di progressiva disumanizzazione. Filottete, l’uomo malato e animale, non smette mai di esistere qua uomo. Anche se è ragionevole supporre che le virtù eroiche di Filottete diventino di fatto la prova tangibile del solipsismo dell’eroe (a chi ancora dare prova di coraggio una volta relegato nella deserta Lemno ed escluso dal consesso umano?), Filottete, anche quando è ridotto in fin di vita dalla cancrena che lo divora e consuma (Ph. 7, 313, 694, 745, 795), è di fatto l’eroe senza il quale Troia non potrà mai essere espugnata. Sotto que-sta luce critica, Filottete difficilmente occuperebbe uno spazio liminale tra natura e cultura, come suggerito da Vidal-Naquet nel famoso saggio Philoc-tète de Sophocle et l’éphébie (1972): per il fatto di essere un uomo malato che incorpora in sé attributi animali, Filottete sembra esistere ed agire in una sfe-ra che appartiene tanto all’ordine della cultura quanto a quello della natura. In quest’ordine di idee, la visione tragica dell’uomo nel Filottete non si presta fa-cilmente ad una lettura dicotomica basata sull’opposizione antropocentrica tra condizione umana e condizione animale. L’umanità animale di Filottete sembra piuttosto invitare il lettore ad accogliere quello che, sulle orme di Vat-timo, non esiterei a chiamare un pensiero critico debole, ossia un giudizio in-cline a guardare alla fragilità dell’eroe come al primo punto di continuità tra ___________

33 Per la retorica di eleos nel Filottete, cfr. Prauscello 2010. 34 Su questo punto cfr. Spiegel (in stampa, cap. 1). Secondo Spiegel, la selvatichezza

di Filottete sarebbe il prodotto di una tensione retorica tra due focalizzazioni dramma-tiche tra di loro opposte sulla condizione dell’eroe che mettono in discussione il carat-tere oggettivo della descrizione di Filottete come homo silvestris: Filottete si percepisce come un uomo selvaggio e un uomo greco; i Greci invece lo percepiscono come un uomo inselvatichito.

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esistenza umana ed esistenza animale. Se è vero che con Filottete essere eroe vuol dire essere malato ed estenuato, e se è vero che la vittoria dei Greci a Troia dipende da lui, allora il discorso tragico sofocleo ci fa riflettere su un punto importante. Come il soldato piccolo e dalle gambe storte in un tetra-metro di Archiloco (fr. 114W), anche Filottete mette in crisi una certa idea di eroismo, quella cioè che fa dell’eroe l’uomo bello, forte e valoroso in battaglia. Filottete, il quale, certo soltanto una volta guarito, deciderà le sorti della vitto-ria greca su Troia uccidendo Paride (Ph. 1423-1428), pure ci ricorda che le grandi vittorie dipendono dai deboli e non dai gagliardi: dopo tutto è un uo-mo storpio e sfiancato dal dolore di un piede ulcerato che Odisseo e Neotto-lemo devono ricondurre all’accampamento greco prima di potere vincere a Troia (Ph. 1329-1341, 1376-1379). Ora, in un dramma in cui Odisseo è una figura cinica e machiavellica che non ha nulla di eroico, è l’eroismo di Neotto-lemo che esce rafforzato e rinnovato dal confronto con Filottete. Sarà infatti Neottolemo ad accompagnare Filottete alla nave: l’eroe giovane, forte e gene-roso è affiancato da un eroe fragile e attempato. Filottete d’altra parte, qua reietto ridotto a vivere come un animale, incarna una sorta di alter ego di Neottolemo. Filottete lo lascia intendere quasi esplicitamente quando, rivol-gendosi ad Odisseo, definisce Neottolemo «indegno di te ma degno di me» (Ph. 1009).

Sotto questa luce critica, pace Dall’Olio (2014), l’esclusione che l’eroe ma-lato Filottete subisce da parte dei Greci non si traduce in una mancata inte-grazione, ma piuttosto problematizza la sua integrazione tra le fila dell’eser-cito greco: il fatto che Filottete, solo ed esclusivamente una volta che sarà gua-rito, combatterà a fianco di Neottolemo ci informa sulla violenza ‘clinica’ del-la guerra che appare lo specchio della violenza nosologica sofferta da Filottete – come la malattia dell’eroe, anche la guerra dei Greci divide gli uomini tra malati (esclusi dalla lotta) e sani (atti al combattimento), tra vivi e sopravvis-suti. Ciò nonostante la scrittura del Filottete ‘infetta’ il lettore perché lo rende sensibile alla malattia del suo protagonista, all’umanità malata di un eroe che si è imbestiato e ha trascorso lunghi anni della sua vita in balìa della propria solitudine.

* * *

Abbiamo visto come nell’Odissea e nel Filottete l’identità di Polifemo e di Filottete sia profondamente ambigua: Polifemo è un mostro umano e Filottete è un eroe mostruoso. Tuttavia, tale ambiguità non è da intendersi come l’effetto di un banale gioco delle parti, un gioco cioè in cui gli attributi umani e mostruosi di questi personaggi vengono interscambiati. Parlare di mostruo-so con Omero e Sofocle significa piuttosto riflettere sul carattere ineffabile della categoria ‘mostro’ (un discorso sul mostruoso è anche un discorso sul-

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l’umano e viceversa), confrontarsi di pari passo con i limiti della categoria ‘uomo’, e aprire così un discorso sulla figura del mostro come una presenza antropopoietica che mette in discussione una sicura definizione del concetto di uomo. Omero e Sofocle sembrano invitare il lettore a considerare la possi-bilità che esistere in quanto uomo è occupare uno spazio liminale tra diventa-re un essere mostruoso e preservare la propria umanità. Anche per questo l’umanesimo di Sofocle e di Omero decentra e problematizza una visione an-tropocentrica della realtà e dei fini dell’uomo.

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Abstract: In this paper, I explore two monstrous and savage characters who have much in common: Polyphemus in the Cyclopeia and Philoctetes in the Sophoclean play. I want to make two points, which shall contribute some new perspectives on monstrosity and bestiality in Homer and Sophocles. Firstly, in Homer as in Sophocles, monstrosity and bestiality are represented in contrast as well as in continuity with he-roic humanity. Homeric and Sophoclean identity, then, is profoundly ambiguous. In particular, as I argue, in the Homeric and Sophoclean narratives, monstrous and sav-age alterity is not just a threat to the heroic identity of Odysseus (in the Cyclopeia) and of Neoptolemus (in the Philoctetes). Secondly, the Homeric and Sophoclean explora-tion of monstrosity and savagery does not abide by a discourse of cultural assimilation of otherness to the norms of self. Rather, it problematizes a reading of Odyssey 9 and of Philoctetes as promoting a discourse of assimilation of diversity.

GIULIA MARIA CHESI [email protected]

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«Commentaria Classica» 5, 2018, 29-38. ISSN 2283-5652 ISBN 9788894227154

Osservazioni sul lanciapietre in Bitone 47,1-5

FRANCESCO FIORUCCI

Tra gli aspetti più degni di nota del trattato ellenistico Κατασκευαὶ πολε-μικῶν ὀργάνων καὶ καταπαλτικῶν («Costruzione di macchine belliche e ca-tapulte»), giuntoci sotto il nome di Bitone, va senz’altro segnalato il fatto che esso costituisce la nostra fonte primaria per la conoscenza delle più antiche forme di artiglieria della storia, che sfruttavano il principio della tensione di grossi archi compositi, sviluppati dall’arco a mano1. In tutti i casi si tratta di macchine piuttosto massicce, quindi concepite come pezzi statici, evolute dal più piccolo e maneggevole γαστραφέτης di cui parla Erone2. Ad essere più precisi, sono quattro i modelli descritti da Bitone: due lanciapietre (gr. λιθο-βόλος) e due diversi tipi di γαστραφέτης3. L’enorme incremento della poten-za dell’arco rispetto a quello tradizionale comportò, per questo genere di arti-glieria, la forzata adozione di tutta una serie di accorgimenti tecnici: l’arco ve-ro e proprio dovette essere innestato all’estremità anteriore di un supporto ligneo, mentre la corda arciera era fatta arretrare, in fase di caricamento, con l’ausilio di funi azionate meccanicamente da una specie di argano4.

Vorrei ora soffermare l’attenzione sul particolare del sistema di lancio del proiettile nel primo modello illustrato dall’opera, cioè il λιθοβόλος attribuito ___________

1 Sull’invenzione dell’artiglieria, il suo progresso tecnico e la sua diffusione, temi

piuttosto dibattuti tra gli studiosi, soprattutto per quanto concerne la comparsa dei primi strumenti a torsione, basati sulla potenza di matasse nervine, esistono ormai studi esaurienti, come Marsden 1969, 5-85; Schellenberg 2006 e Rihll 2007, 26-90. Sul concetto di tensione e torsione vd. le sintesi di Baatz 1999 e Fiorucci 2010b. Intorno a Bitone e alla sua opera si rimandi alle recenti osservazioni di Rihll 2007, 72 ss., 164-172 ed al relativo paragrafo in Fiorucci 2014, 604-606. Numerosi sono i problemi te-stuali dell’operetta e ancora relativamente poche, né sempre soddisfacenti, si contano le soluzioni proposte: vd. per esempio von Wilamowitz-Moellendorff 1930, 255-257; Drachmann 1977 e Fiorucci 2015.

2 Si tratta di un’arma lanciadardi, non molto dissimile nella forma dalla balestra medioevale, il cui nome deriva dal singolare meccanismo di caricamento, ottenuto appoggiando il ventre contro la parte posteriore, opportunamente modellata. Vd. in proposito Fiorucci 2010a, con bibliografia. All’inizio dei suoi Belopoeica (75,3-81,2) è appunto Erone a raccontare le circostanze che condussero all’invenzione del γαστρα-φέτης. Sul passo vd. il commento di Marsden 1971, 45-47.

3 La trattazione è completata dalla descrizione di una ἑλέπολις e di un modello di scala munita di piedistallo ruotato impiegata negli assedi e denominata ‘sambuca’.

4 Sulle caratteristiche dei congegni qui menzionati si rinvia alla sintetica esposizio-ne di Marsden 1969, 13-16.

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FRANCESCO FIORUCCI

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all’ingegno di un certo Carone di Magnesia e realizzato a Rodi. La fonte preci-sa che l’arma era munita di una specie di fionda (gr. σφενδόνη) per facilitare l’alloggio e quindi il rilascio della pietra5:

ἐπὶ δὲ τοῦ ἄνω κανόνος τοῦ Δ ἔστω σφενδόνη, ἀπέχουσα ἀπὸ τῶν κανόνων τῶν ΑΒ ἐξ ἑκατέρου ποδὸς τὸ . ἔστω δὲ ἡ σφενδόνη τριχίνη, δυναμένη βαστάζειν τὴν ἐπιτιθεμένην πέτραν. ἔστω δὲ ἡ περίμετρος αὐτῆς δακτύλων ༳. εἶτα ἐπὶ μιᾶς ἀρχῆς τῆς σφενδόνης κοχλίας σιδηροῦς περισυμπεπλεγμένος τῇ σφενδόνῃ ἔστω (47,1-5)6.

L’autore si premura di fornire al suo lettore alcune informazioni indispen-sabili per ricevere un’immagine nitida della macchina e poterla così anche riprodurre: il posizionamento della fionda rispetto ad altre componenti già menzionate, cioè le assi che formavano la slitta e l’affusto dell’arma, nonché la specifica delle misure. Nonostante la buona chiarezza del passo, le interpreta-zioni finora avanzate non sembrano soddisfacenti. Gli studiosi occupatisi del testo bitoniano concordano infatti nel ritenere che i 10 dattili (δακτύλων ༳) qui menzionati (corrispondenti a circa 19 cm. secondo le equivalenze adottate da Marsden 1971, XVII s.) siano da riferire proprio alla summenzionata σφενδόνη7. Vale la pena di riportare verbatim, per poterle commentare, le pa-role dell’editore inglese:

Because the sling will not be round in cross-section, but made in the form of a band, I take the perimeter of the sling to be, in fact, its length. The figure 10d must ap-ply to the perimeter of the semi-circle formed (approximately) by the sling as it grips the stone-shot when the bow is fully pulled back. This may provide a rough idea of the size and weight of shot for which this engine was designed8.

Il riferimento del pronome αὐτός alla σφενδόνη voluta dagli studiosi, in-dotti forse dalla circostanza che in effetti è la fionda a fungere da soggetto nel-___________

5 La fionda come arma da getto di piccoli proiettili, s’intende nella sua versione

originaria di sacca di cuoio o simili collegata a dei lacci, era piuttosto comune nel mondo antico, come dimostrano le relative testimonianze archeologiche e letterarie (tra quest’ultime vd. per esempio Thuc. 2,81,8 e Aen. Tact. 32,8). Sul suo impiego ri-mando a Rihll 2007, 1-12.

6 Seguo il testo dell’edizione di riferimento Marsden 1971, 66 s. Questa l’inter-pretazione inglese dello studioso: «On the upper beam Δ, let there be a sling, half a foot away from the beams ΑΒ on either side. Let the sling be of hair, capable of stand-ing the stone-shot when loaded. Let its perimeter be 10d. Then, at one corner of the sling, let an iron ring be plaited into the sling».

7 Oltre alla già citata edizione di Marsden 1971, vd. Rehm-Schramm 1929, 11, i quali stampano la seguente traduzione: «es sei die Schleuder aus Haar, sodaß sie den aufgelegten Stein tragen kann. Ihr Umfang sei 10″». Ai pareri ora rammentati si ade-gua anche Drachmann 1977, 121.

8 Marsden 1971, 79 n. 10.

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le due frasi precedenti e ad essere in generale l’elemento dominante di queste righe, comporta in realtà una serie di palesi forzature interpretative, per cui risulta necessaria una riconsiderazione generale del passo.

Per cominciare si rivela del tutto arbitrario lo spostamento semantico di περίμετρος nel senso di ‘lunghezza’ della corda, giacché lo stesso termine ri-corre di nuovo nel trattato bitoniano per designare la circonferenza, espressa ancora in dattili, del rullo orizzontale che regolava il basculamento della scala d’assalto denominata ‘sambuca’9:

καὶ δι’ αὐτῶν καὶ τῆς κορυφῆς τοῦ κιλλίβαντος διώσθω κοχλίας, οὗ τὸ μὲν μῆκος ποδῶν ༳Ē, ἡ δὲ περίμετρος δακτύλων ༳Θ ̅(58,8-10).

attraverso queste (assi) e la parte alta del piedistallo sia inserito un rullo, la cui lunghezza sia di 15 piedi, mentre la circonferenza di 19 dattili10.

Quanto constatato avvalora la puntualità del lessico adottato da Bitone, per cui non sussiste un motivo adeguato per dubitare che nel passo sul lancia-pietre l’identico περίμετρος non indichi correttamente ancora la circonferen-za. La spiegazione proposta dall’editore perde inoltre ogni plausibilità nel momento in cui la grandezza viene adattata ad una semicirconferenza (cfr. «semi-circle»), i cui contorni appaiono peraltro fin troppo approssimativi (cfr. l’ammissione «approximately») e di cui la fonte ovviamente non fa paro-la, ma che costituisce una necessità imposta dalla presa d’atto che 10 dattili sono intuitivamente del tutto inadeguati se riferiti all’intero segmento della corda arciera (cioè la fune che unisce i due flettenti dell’arco)11.

___________ 9 Vd. la ricostruzione di questo particolare proposta da Marsden 1971, 94, da pre-

ferire senz’altro a quella di Lendle 1975, 113 S. (il quale a sua volta rinvia a Rehm-Schramm 1929, 20 s. e Tafel IV), secondo cui invece si tratterebbe di una vite verticale. Il differente modo di sistemare e di intendere questo κοχλίας non inficia quanto qui discusso, in quanto non si può dubitare sulla sua forma cilindrica (o a vite) e quindi sul fatto che περίμετρος ne indichi la circonferenza.

10 Le traduzioni sono di chi scrive. 11 Un’ulteriore, sostanziale debolezza nella ricostruzione di Marsden risiede anche

nel fatto che questi è costretto ad immaginare l’arma caricata per far coincidere la forma concava prodotta dalla fionda in tensione con la misura data. In realtà Bitone sta descrivendo senza dubbio le varie parti che formano il λιθοβόλος semplicemente per come sono disposte nella loro condizione statica. Nel momento in cui per l’autore si rende necessario menzionare la macchina in azione, per dimostrare per esempio al suo lettore come deve funzionare una determinata componente, lo fa infatti in modo esplicito, come in 46,2-4 (ancora sul lanciapietre di Carone), quando si specifica che le assi ΔΕ non devono essere fissate, per poter essere libere di scorrere avanti e indietro in delle fessure al momento del lancio, indicato con l’espressione κατὰ τὰς ἐπιτάσεις.

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Tutte le perplessità finora riscontrate verrebbero invece immediatamente appianate ritenendo semplicemente che Bitone abbia voluto riferirsi, con αὐτῆς, al precedente πέτρα, per fornire al suo lettore la circonferenza, e quin-di la dimensione, del proiettile da lanciare. Questo mutamento di prospettiva ha dalla sua vari punti di forza. Innanzitutto l’apprendere la grandezza della pietra da lanciare equivale a un’informazione vitale sia ai fini costruttivi sia di messa in azione della macchina, inoltre dimostra l’inconsistenza dei dubbi mossi da Marsden sul senso di περίμετρος, in quanto la menzione della cir-conferenza si rivelerebbe precisa, essendo ovviamente il proiettile di forma pressoché sferica12.

Alla luce di quanto osservato, il passo di Bitone 45,1-5 va perciò interpre-tato nel modo seguente:

Al di sopra dell’asse superiore Δ ci sia una fionda, distante da ciascuna delle assi ΑΒ mezzo piede. La fionda deve essere di capelli, per poter accogliere la pietra che vi viene posta. La circonferenza di quest’ultima sia di 10 dattili. Poi su un capo della fionda sia fissato un anello ferreo alla fionda13.

Ulteriori debolezze nell’interpretazione finora canonica, che inficiano non di poco la comprensione del meccanismo di lancio nell’arma di Carone, non tardano a sovvenire. Nonostante Marsden distingua opportunamente nel suo

___________ 12 La correttezza del riferimento del pronome αὐτός a πέτρα è sostanziata anche

dal fatto che il sostantivo costituisce il membro immediatamente precedente. Va pun-tualizzato comunque che la concordanza tra membri piuttosto lontani nella frase pare sia fenomeno non isolato nel trattatello: vd. per esempio nell’esordio εἴ τινα … ὄργανα (44,1). Si tratta perciò di un argomento meno determinante rispetto alle ragioni fin qui analizzate.

13 Il passo è cursoriamente commentato anche da Rihll, 72, la quale ne sottolinea le difficoltà interpretative, concludendo che la macchina di Carone ammette differenti ricostruzioni. Le perplessità emergenti dalle parole di Bitone sono così sintetizzate dal-la studiosa: «For him, the sling is attached to a beam, not the bow (46.11–47.1); and that beam can run up and down (not back and forth) in a solenidion, little case (46.3–4)» (con riferimento all’indicazione ἀναβαίνειν μὲν τὸν ἄνω καταβαίνειν δὲ τὸν κάτω poco precedente nel testo ed inerente, ad essere precisi, alle due assi ΔΕ). In realtà Bi-tone vuole solo fornire al suo lettore delle coordinate spaziali utili a fargli visualizzare nel migliore dei modi la posizione della fionda (cfr. la specifica delle distanze); non intende cioè dire che questa si trova sulla trave nel senso che vi sia connessa (inoltre la fionda dovrebbe semmai aderire alla corda arciera, come vedremo meglio anche in seguito, e non essere attaccata all’arco). Altrettanto poco convincente l’interpretazione degli avverbi ἄνω e κάτω, che possono senza problemi, nel lessico della meccanica mi-litare, anche individuare dei punti su un piano orizzontale, così come designare un movimento nelle direzioni avanti/indietro (cfr. Her. Bel. 85,8-10; Ath. Mech. l. 135 ed. Gatto 2010 e lo stesso Bit. 60,5).

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commento tra ‘sling’ (fionda) e ‘bowstring’ (corda arciera), l’affermazione «Because the sling will not be round in cross-section, but made in the form of a band» tende pericolosamente a sovrapporre le due componenti. Allo studio-so sembra in sostanza sfuggire completamente la forma della fionda, e di con-seguenza anche il suo posizionamento ed il rapporto con le altre componenti. Non prendendo altresì correttamente in considerazione la specifica del mate-riale (cfr. τριχίνη), si vede costretto a forzare le parole della fonte, attribuendo alla fionda caratteristiche che invece, come dimostreremo immediatamente di seguito, possono adattarsi esclusivamente alla corda arciera.

Per tentare allora di ricevere un’idea più precisa sulla consistenza e sago-ma che doveva assumere la σφενδόνη nel lanciapietre di Carone, è necessario innanzitutto far meglio chiarezza sulle singole parti che normalmente com-pongono il sistema di caricamento e rilascio di questo tipo di arma, prestando attenzione anche alla delicata questione dei diversi materiali impiegati, finora decisamente trascurata14. È soprattutto Erone ad informarci appunto su tale aspetto della realizzazione delle catapulte (stavolta a torsione, ma i ragguagli sono estendibili anche ai pezzi a tensione), tema cui dedica uno spazio piutto-sto ampio nei suoi Belopoeica (precisamente i paragrafi 110,4-112). Secondo quest’ultimo la corda arciera di tendini animali (νευρά) poteva essere realiz-zata in due diverse sagome, a seconda del tipo di munizioni che l’arma in cui veniva montata poteva scagliare, cioè frecce o pietre. Nel primo caso si preve-de una forma rotondeggiante (la fonte usa il termine στρογγύλος), cioè a se-zione circolare, per poter combaciare con la cocca posteriore dei dardi; nel secondo questa deve essere piatta (πλατεῖα), a mo’ di cintura o banda (ζώνη), intuitivamente più adatta a far partire un proiettile più ingombrante e di for-ma pressoché sferica come una pietra. Il testo in parola è il seguente:

Τὴν δὲ τοξῖτιν νευρὰν ἐκ τῶν εὐτονωτάτων νεύρων δεῖ πλέκειν. μία γὰρ οὖσα πολλὰ ἀπεργάζεται, καὶ ὑπομένει τὴν τῆς ἐξαποστολῆς βίαν. διάφοροι δὲ γίνονται τῇ πλοκῇ τοξίτιδες. ἡ μὲν γὰρ τοῦ εὐθυτόνου στρογγύλη γίνεται, ἐπείπερ εἰς τὴν τοῦ ὀιστοῦ ἐμπίπτει χηλήν. ταύτην δὲ ἡ κατάγουσα χεὶρ διπλῆ γίνεται, κεχηλωμένη πρὸς τὸ μεταξὺ τῶν χηλῶν δέξασθαι τὸ τοῦ βέλους πάχος. ἡ δὲ τοῦ παλιντόνου πλατεῖα γίνεται καθάπερ ζώνη (bel. 110,9-111,2)15.

___________ 14 A quest’ultimo aspetto accenna, con menzione di alcuni passi significativi, Rihll

2007, 280-282. Vd. inoltre Marsden 1969, 87 s. Il problema dei materiali da utilizzare per la realizzazione delle macchine non era del tutto secondario per gli antichi autori di meccanica, visto che vi si soffermano con i loro ragguagli. Lo stesso Bitone consiglia per esempio, in apertura del suo trattato, di usare legno di frassino (44,5-6). Analoghe raccomandazioni ricorrono più avanti, in 52,2-4, quando si parla della torre d’assedio denominata ἑλέπολις, per la costruzione della quale sono necessarie diverse tipologie di legno, a seconda delle parti che si intendeva di volta in volta fabbricare.

15 Marsden 1971, 38.

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Bisogna realizzare la corda arciera con i tendini più robusti. Essendo infatti singo-la, esegue un gran lavoro e sopporta lo sforzo del lancio. Le corde arciere sono diffe-renti per struttura. Quella dell’artiglieria eutitona, infatti, è rotondeggiante, dato che si innesta nella cocca della freccia. L’arpione che la tira indietro è doppio, dotato di rebbi per ricevere in mezzo a questi lo spessore del dardo. Quella dell’artiglieria palintona è piatta come una cintura16.

Bisogna a questo punto notare che la soluzione della corda arciera a forma di cintura contemplata da Erone diviene necessaria solo laddove non è previ-sta la fionda per sistemare la pietra.

Poco più sotto nel medesimo passo, troviamo esplicitato anche l’impiego di capelli muliebri, adatti però a sostituire, in caso di necessità e dopo essere stati opportunamente trattati per migliorarne le prestazioni, soltanto le matas-se in cui erano alloggiati i bracci lignei delle macchine a torsione, normal-mente realizzate di tendini animali, che rappresentano comunque il materiale privilegiato:

Ὁ δὲ ἐν τοῖς ἀγκῶσι τόνος καὶ ἐκ τριχῶν γίνεται γυναικείων· αὗται γὰρ λεπταί τε οὖσαι καὶ μακραὶ καὶ πολλῷ ἐλαίῳ τραφεῖσαι, ὅταν πλακῶσιν εὐτονίαν πολλὴν λαμβάνουσιν, ὥστε μὴ ἀπᾴδειν τῆς διὰ τῶν νεύρων ἰσχύος (bel. 112,4-6).

Le matasse dove sono i bracci possono essere fatte anche di capelli muliebri: es-sendo questi infatti sottili e lunghi e nutriti con molto olio, una volta intrecciati17 ac-quistano una grande elasticità, così da non rivelarsi inferiori alla potenza generata dai tendini.

___________ 16 La generica resa del verbo πλέκειν tramite ‘realizzare’ qui adottata è suggerita

dal fatto che la corda arciera era singola (cfr. la precisazione μία immediatamente se-guente), cioè costituita da un solo tendine robusto. In alternativa si potrebbe ritenere che il cardinale stia ad indicare l’unità strutturale della corda, benché prodotta dal-l’intreccio di più tendini. Comunque si preferisca interpretare questo particolare, non si tratta di un elemento rilevante ai fini della nostra indagine.

17 Molto difficile qui la resa del verbo πλακόω, che secondo i lessici principali e Chantraine 20092, 877 sarebbe da collegare alla radice del sostantivo πλάξ, e pertanto dovrebbe designare l’operazione di ‘appiattire, rendere piatti’, i capelli muliebri a di-sposizione (ovviamente del tutto inadeguato il significato principale di «face with marble slabs» proposto da LSJ s. v. e sostanzialmente accettato nei lessici più comuni). Dal contesto si può tuttavia agevolmente evincere che queste fibre tricologiche, idonee all’uopo perché sufficientemente lunghe e già sottoposte a trattamento con olio, pote-vano acquistare una potenza paragonabile a quella dei tendini animali che andavano a sostituire non di certo assumendo una forma ‘piatta’, che non dà alcun senso, ma semmai venendo attorcigliate fino a formare un unico fascio compatto e robusto, che era del resto il medesimo procedimento previsto per i tendini. Si segue qui pertanto la calzante interpretazione di Marsden, che scrive «when plaited».

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Per quanto concerne l’opera di Bitone, dato che tutte le macchine da lui descritte sfruttano il principio della tensione, l’impiego di capelli o crini deve essere giocoforza circoscritto soltanto alla σφενδόνη.

Le dettagliate informazioni di Erone coincidono con quanto lo stesso Bi-tone, seppur con minor dovizia di particolari, ci dice intorno alla costruzione di un altro modello di λιθοβόλος, stavolta attribuito ad un certo Isidoro di Abido e costruito a Tessalonica, dove troviamo alcune informazioni che si rivelano determinanti anche per ricostruire correttamente l’arma di Carone.

ἐχέτωσαν δὲ οἱ κόρακες οἱ ἀπὸ τῶν λινεῶν ἄλλα ἀγκίστρια, ⟨ἃ⟩ ἐκτείνει τὴν νευρὰν τοῦ τόξου ἐν ταῖς ἐπιτάσεσι τῶν κοχλιῶν. εἶτα ἔστω ἐν τοῖς ΜΝ κανόσι σφενδόνη κατηρτισμένη ἐκ τριχῶν, ὥστε δύνασθαι τὸν πέτρον βαστάζειν, ἡ Ψ (51,1-4).

I ganci sulle corde di lino siano muniti di altri anelli, che tendono la corda dell’arco nella fase di caricamento da parte dei rulli. Poi sulle assi ΜΝ ci sia una fionda Ψ, realizzata con crini, così da poter accogliere la pietra.

Abbiamo qui esplicitato l’impiego di tre differenti materiali: le funi vegeta-li (cfr. τῶν λινεῶν) erano adatte per tirare indietro la slitta, collegate quindi ai rulli di trazione posteriore, la corda arciera era sempre di tendini animali (νευρά), infine la fionda era composta di crini o capelli muliebri (ἐκ τριχῶν). La lettura di queste righe ci porta innanzitutto a concludere che la corda ar-ciera e la σφενδόνη erano ben distinte, inoltre in quest’ultima possiamo rico-noscere esclusivamente la vera e propria sacca atta ad ospitare il proiettile18. Come suggerisce il ricorso insistito e puntuale al verbo βαστάζειν, designante per esempio la capacità della mano di tenere un oggetto, adattandosi ad esso nella forma (vd. LSJ s. v.), era proprio la malleabilità di questi fasci di capelli o crini a renderli così adatti a realizzare tale dettaglio delle macchine.

A questo punto anche la sagoma di questa sacca si delinea in realtà piutto-sto nitidamente. Rivelatrice si dimostra la precisazione in 47,4-5, secondo cui su uno dei capi della fionda (cfr. ἐπὶ μιᾶς ἀρχῆς τῆς σφενδόνης), evidente-mente quello posteriore, si applicava il κοχλίας, cioè l’anello che permetteva l’aggancio della fune di trazione19. Da ciò sembra potersi dedurre che i fasci di

___________ 18 In questo modo viene automaticamente a cadere il chiarimento di Marsden sulla

forma che dovrebbe avere questa corda (rotondeggiante o piatta). 19 Per quanto concerne questo particolare del sistema di caricamento (e rilascio),

ritengo in definitiva ragionevole, con Rehm-Schramm 1929 e Marsden 1971, che si tratti di un qualche dispositivo di aggancio, come suggerisce da una parte il materiale ferreo (cfr. κοχλίας σιδηροῦς), che esclude sia una parte della fionda o della corda ar-ciera, e dall’altra la posizione, cioè su un capo. Risolutivo a proposito anche il confron-to con tutti gli altri modelli di artiglieria, muniti appunto di anelli ferrei o simili nella medesima posizione. Qualche dubbio rimane semmai sulla forma precisa del κοχλίας:

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fibre tricologiche fossero disposti, partendo da due punti indefiniti sulla corda arciera, in modo da seguire per un certo tratto l’andamento della stessa, cui erano sovrapposti20. Da questi punti collocati simmetricamente a destra e a sinistra dal centro della corda (dove era disposto il gancio collegato alla fune di trazione) e sufficientemente distanti da poter accogliere la pietra da scaglia-re, la massa intrecciata di capelli si allargava a formare la vera e propria sac-ca21.

Una corretta ricostruzione del meccanismo di rilascio permette a questo punto di osservare il lanciapietre di Carone nel suo insieme sotto una nuova luce, costringendo a rettificare piuttosto radicalmente le conclusioni di Marsden per quanto concerne le potenzialità dell’arma. Abbiamo constatato come l’editore, attraverso ragionamenti a dire il vero alquanto contorti e cal-coli basati su dati non proprio solidi, deduca che questo tipo di lanciapietre era in grado di scagliare proiettili con una circonferenza di 20 dattili22. Si trat-

___________

Drachman 1977, 121 esprime per esempio forti remore sul fatto che il termine possa indicare un anello, come invece lo raffigura Marsden 1971, 80.

20 È necessario immaginare una sovrapposizione di questa massa intrecciata di ca-pelli sulla corda arciera perché ovviamente, per resistere adeguatamente allo sforzo di caricamento, che doveva essere notevole, quest’ultima era senz’altro composta di un unico tendine robusto (o da più tendini di minore spessore intrecciati) e non da due segmenti congiunti ai capi della σφενδόνη liberi dal gancio di trazione. La fionda va quindi interpretata come una componente aggiuntiva, da applicare alla corda arciera al fine di ampliarne lo spessore e permettere un comodo alloggio del proiettile.

21 In proposito si rivela nuovamente utile il confronto con le corrispettive descri-zioni di Erone. La già menzionata corda arciera a forma di banda viene infatti così illu-strata: bel. 111,3 ss.: ἐκ μὲν τῶν ἄκρων ἀγκύλας ἔχει, εἰς ἃς ἱ ἀγκῶνες ἐμβιβάζονται, ἐκ δὲ τοῦ μέσου ἐξ ἑνὸς τοῦ περὶ τὴν χεῖρα μέρους καθάπερ κρίκον ἐξ αὐτῶν τῶν νεύρων πεπλεγμένον, εἰς ὃν ἡ χεὶρ ἐμβιβάζεται («alle estremità ha dei cappi, nei quali vengono infilati i bracci (dell’arco), in mezzo invece, nel punto in cui c’è il gancio, ha come un anello, formato dagli stessi tendini, in cui il gancio si inserisce»). Ritroviamo in pratica l’analogo schema esplicativo adottato da Bitone per raffigurare la sua fionda (cioè la suddivisione in tre punti dell’oggetto), con la precisazione che sul capo posteriore era disposto l’anello per trainare indietro la slitta durante il caricamento e con la (in que-sto caso esplicita) menzione dei due capi a destra e sinistra. Ancora una volta la rico-struzione di Marsden deve essere criticamente ponderata. Anche secondo lo studioso, infatti (Marsden 1971, 79 s. al punto 11 con relativa figura), la fionda possedeva tre angoli, ma questa viene fatta in pratica coincidere con il κοχλίας ferreo, interpretazio-ne che ignora la chiara specificazione τριχίνη e del resto contraddice la forma a cintura che gli viene attribuita poco prima.

22 La misura, come già rilevato, è desunta ritenendo i 10 dattili la lunghezza della fionda, che coinciderebbe con la semicirconferenza del proiettile che vi si adatta al momento del lancio. Prendendo come materiale di riferimento il basalto, Marsden calcola il peso del proiettile in circa 5 libbre, corrispondenti a poco più di 2 chilo-

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ta di una stima certamente esagerata, che corrisponde giusto al doppio di quanto in realtà riportato dalla fonte23.

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___________

grammi. Ancora meno realistici i calcoli di Drachmann 1977, 121, proposti inoltre in un saggio piuttosto critico nei confronti dell’opera bitoniana, ritenuta niente più di un esercizio retorico e perciò priva di ogni valore per la storia della meccanica. L’incon-sistenza della tesi di Drachmann è dimostrata implicitamente dall’uso del trattato co-me fonte (nonostante i dubbi espressi in particolari casi, come abbiamo visto sopra) che fa Rihll 2007, oltre che ovviamente dagli stessi studi di Marsden, che tra gli altri meriti ha avuto anche quello di aver già ben inquadrato il contributo di Bitone nella storia dell’artiglieria antica.

23 Il risultato qui ottenuto si inquadra felicemente con la recente tendenza, rappre-sentata da Rihll 2006, che vede ridiscusse le sproporzionate dimensioni di alcuni mo-delli di catapulte, stavolta a torsione, proposte da Ober 1987 sulla base dei dati suppo-sti già da Marsden (e da considerare di per sé eccessivi). Lo stesso Ober 1987, 600, esaminando nella sua casistica anche il lanciapietre di Carone, si rifà alle cifre di Marsden, che abbiamo dimostrato non essere esatte.

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Ober 1987 = J. Ober, Early Artillery Towers: Messenia, Boiotia, Attica, Megarid, «AJA» 91, 1987, 569-604.

Rehm-Schramm 1929 = A. Rehm - E. Schramm, Bitons Bau von Belagerungsmaschinen und Geschützen, «ABAW» 2, 1929, 2-28 (con 6 tavole).

Rihll 2006 = T. Rihll, On Artillery Towers and Catapult Sizes, «ABSA» 101, 2006, 379-383.

Rihll 2007 = T. Rihll, The Catapult. A History, Yardley 2007. Schellenberg 2006 = H. M. Schellenberg, Diodor von Sizilien 14,42,1 und die Erfindung

der Artillerie im Mittelmeerraum, «Frankfurter elektronische Rundschau zur Alter-tumskunde» 3, 2006, 14-23.

von Wilamowitz-Moellendorff 1930 = U. von Wilamowitz-Moellendorff, Lesefrüchte, «Hermes» 65, 1930, 241-258. Abstract: The paper aims to demonstrate that in the passage of his work Construc-

tion of War Machines and Catapults in which Biton describes the pull-back system of the λιθοβόλος designed by Charon of Magnesia (47,1-5), the correct agreement of the pronoun αὐτός is with the stone (πέτρα) and not with the sling (σφενδόνη), as schol-ars have until now believed. This new interpretation allows us to shed light both on how this sling was really shaped and on the actual power of this model of stone-thrower.

FRANCESCO FIORUCCI

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«Commentaria Classica» 5, 2018, 39-48. ISSN 2283-5652 ISBN 9788894227154

Virgil’s Cacus and Etymology

NEIL ADKIN

Virgil’s Cacus-epyllion, in which this Aventine troll misappropriates the cattle of the en-route Hercules, begins thus (Aen. 8,193-212):

hic spelunca fuit vasto summota recessu, semihominis Caci facies quam dira tenebat solis inaccessam radiis; semperque recenti 195 caede tepebat humus, foribusque adfixa superbis ora virum tristi pendebant pallida tabo. huic monstro Volcanus erat pater: illius atros ore vomens ignis magna se mole ferebat. attulit et nobis aliquando optantibus aetas 200 auxilium adventumque dei. nam maximus ultor tergemini nece Geryonae spoliisque superbus Alcides aderat taurosque hac victor agebat ingentis, vallemque boves amnemque tenebant. at furis Caci mens effera, ne quid inausum 205 aut intractatum scelerisve dolive fuisset, quattuor a stabulis praestanti corpore tauros avertit, totidem forma superante iuvencas. atque hos, ne qua forent pedibus vestigia rectis, cauda in speluncam tractos versisque viarum 210 indiciis raptor saxo occultabat opaco; quaerenti nulla ad speluncam signa ferebant.

In the pivotal line 205 the MSS are divided between fūris and furiis. Edi-tors are similarly split: while Geymonat for example adopts furiis1, Conte opts instead for furis2. The pros and cons that have been so far adduced for both sides are inconclusive3. No attempt has hitherto been made to argue on grounds of etymology, which supports furis4. This furis forms part of a phrase which reads thus: at furis Caci mens effera. This unit is accordingly framed by furis and effera, for the latter of which a very large number of synonymous al-

___________ 1 Geymonat 2008, 468. 2 Conte 2009, 237. 3 They are conveniently summed up by Eden 1975, 79-80. 4 O’Hara’s (2017) brand-new pandect of Virgilian etymologizing contains nothing

about the line in question (8,205), but merely mentions the previous line (204), on which O’Hara refers (p. xxix) to his forthcoming commentary on this book for discus-sion of the allusion here to the etymology of the Forum Boarium.

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ternatives could have been used instead5. This word (ef)ferus was etymolo-gized from ferre6. This etymology of (ef)ferus/fera from ferre can be shown to have been exploited by Virgil on quite a few occasions7. For the purposes of the present article reference may be made briefly to four passages of the Aene-id where a textual problem is cleared up by recognition of a jeu étymologique on ferre as etymon of (ef)ferus/fera.

The first passage to be considered in this connection occurs in the imme-diately preceding book (Aen. 7,489), where Virgil’s description of Silvia’s tame stag as ferus is «singularly inappropriate»8. The explanation for this «in-appropriateness» is evidently to be found in the next line but two (492), where in emphatically final sedes this ferus is qualified with etymonic se … ferebat, which has to be glossed as remeabat by Ti. Claudius Donatus (Aen. 7,490 p. 74,21 G.). The second of these passages is located in the book immediately following the Cacus-episode: «this [viz. Aen. 9,551] is the only animal simile in the epic where the zoological referent is left unidentified [viz.: ut fera]»9. Again the reason for this bafflingly unique inspecificity is to be sought in the verb that is attached to this fera at the end of the next line but one (553): [ut fera] … supra venabula fertur10. Here fertur itself is problematic11. It is howev-er etymologically unproblematic for a fera to ferri.

The last two of these four passages are both to be found in the Aeneid’s se-cond book. In the first of these two texts (Aen. 2,51) the Trojan Horse is de-scribed as a ferus. Here Horsfall’s recent and amplitudinous commentary is

___________ 5 Cf. Synon. Cic. p. 424,14-17 B. (listing no fewer than 23 synonyms). Here this

Virgilian effera is further highlighted by the bucolic diaeresis that follows immediate-ly.

6 Cf. Maltby 1991, 230 (s. v. ferus), citing Serv. Aen. 2,51 (‘feri’ … : ab eo quod toto corpore feratur), to which should be added Adkin 2010, 479. Cf. also Maltby 1991, 228 (s. v. fera), citing inter al. Serv. Aen. 1,215 (feras dicimus aut quod omni corpore ferun-tur, aut quod naturali utuntur libertate et pro desiderio suo feruntur) .

7 It is proposed to deal fully with this question elsewhere. All three words ([ef]ferus/fera) are wholly absent from the indexes in O’Hara 2017, Michalopoulos 2001 and Paschalis 1997.

8 So Conington-Nettleship 2008, 50. 9 Fratantuono 2012-13, 82. 10 This fertur is underscored by the immediately ensuing anacoluthon, which is

«höchst ungewöhnlich» (Berres 1982, 101-102). This same line-final fertur and line-initial ut fera accordingly «frame» this tristichic simile; on such «framing» as an ety-mological marker cf. O’Hara 2017, 82-86.

11 The latest commentator (Dingel 1997, 208) notes with perplexity «dass das um-zingelte Tier von seinem bevorstehenden Tod weiß, dass es dennoch springt und dass der Sprung so geschildert wird, als gelinge dem Tier die Flucht».

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clearly surprised by this choice of language12: «hardly “wild” except as a dan-gerous enemy to the Trojans». This surprising employment of ferus is evident-ly to be seen in conjunction with the use at the end of the previous line but one (49) of etymonic ferentis (sc. dona), which has to be glossed as offerunt by Servius Auctus (on 48): the reference of both ferentis and ferus is the same, viz. «the horse». It may also be observed that ferri as etymon of ferus is the conceptual opposite of stare (next l. [52]: «immobility» versus «mobility»), which is the etymon of hasta (next l. [50] after ferentis [49] in same final sedes)13. The last of these four texts occurs somewhat later in this same Book II. Here (2,326-327) Aeneas is told: ferus omnia Iuppiter Argos / transtulit. Once again Horsfall is surprised by ferus14: «not a standard epithet of gods in general …, and certainly not of Jup[iter]»15. Once again we evidently have here a jeu étymologique on ferus and etymonic (trans)ferre16: both words frame the sentence17.

Since therefore Virgil does demonstrably play on ferus and ferre, this same etymological jeu would be unsurprising in the line about Cacus (Aen. 8,205) currently at issue. This line begins with at furis. One of the reasons for rejecting this furis in favour of furiis is that «fur is not an epic word and does not occur elsewhere in the Aen.»18. However this very «unepicness» puts the reader on the qui vive for word-play. The possible etymology of fur had al-ready engaged Virgil’s attention in the Georgics, where (3,407) his nocturnum … furem would seem to be an allusion to the derivation of fur from furvus19. This etymology from furvus was however rejected by Gellius (1,18,5), who in-stead preferred the alternative derivation from φώρ, which was in turn de-rived from φέρω20. Virgil himself is partial to such either-or etymologies21. It would seem possible to show that in a number of passages of the Aeneid Virgil is exploiting this alternative derivation of fur(tum) from fero.

___________ 12 Horsfall 2008, 89. 13 For (a)stare as etymon of hasta cf. Maltby 1991, 270. 14 Horsfall 2008, 277. 15 Not surprisingly ferus here has to be glossed; cf. (e. g.) Gloss.L II Arma F 70: ferus

Iupiter: malus Iovis. 16 Tulit was regarded as a form of fero; cf. (e. g.) Cairns 1979, 99. 17 For such «framing» as an etymological signpost cf. O’Hara 2017, 82-86. 18 Gransden 1976, 111. Cf. Heyne-Wagner 1833, 203 («furis vero vocabulum epica

gravitate indignum et exile»); Forbiger 1875, 144 («furis, satis languide»). 19 Cf. O’Hara 2017, 280. 20 Cf. Maltby 1991, 248-249 (s. vv. fur; furtum), citing inter al. Paul. dig. 47,2,1

praef. (furtum … a ferendo). 21 Cf. O’Hara 2017, 92-93.

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Three passages may be adduced in this connection beside the current one about Cacus (Aen. 8,205). The first (Aen. 9,546-547) is separated by just three lines from afore-mentioned ut fera … fertur (551-553): quem … Licymnia fur-tim / sustulerat. Here furtim occupies the same final sedes as fertur, while the -tul- of sustulerat is placed in the same initial locus as fer(a). Furtim and sustulerat are moreover positioned at the end and beginning of consecutive lines: such «coupling across a line boundary» is an etymological marker22. A further nudge-nudge would seem to be supplied by the Licymnia that imme-diately precedes furtim and is the subject of sustulerat23. The other two passag-es of the Aeneid in which Virgil is evidently playing on the etymological link between fur(tum) and ferre are 6,568-569 (quae quis apud superos furto laeta-tus inani / distulit in seram commissa piacula mortem) and 10,734-735 (seque viro vir / contulit, haud furto melior sed fortibus armis): on each occasion Servius is obliged to explain furto24.

If therefore Virgil does play on the derivation of fur(tum) from fero else-where in the Aeneid, an allusion to the same etymology would be no surprise in 8,205: at furis Caci mens effera. It has however been shown above that Vir-gil also etymologizes (ef)ferus as well as said fur from this same fero. Hence this unit (furis … effera) is framed by two words that derive from the same etymon: fero. However in each case this etymonic fero is used in precisely the opposite sense: if a fur «carries off», an efferus «is carried off». This etymolog-ical artfulness is lost if furis is replaced by furiis. Heyne-Wagner are accord-ingly wrong to frown on furis as a «vocabulum exile». The etymological spissi-tude which it generates here is the very opposite of «exility»: this is Lucullan stuff.

That Virgil is indeed alluding here to the etymology of fur from fero would seem to be corroborated by a clue he has embedded shortly before-hand. At furis is positioned at the beginning of the line (205). Just six lines earlier (200)25 the same initial sedes is occupied by attulit26. This kind of verti-

___________ 22 Cf. Michalopoulos 2001, 5. Both words (furtim / sustulerat) draw attention to

themselves by their semantic idiosyncrasy; cf. Dingel 1997, 206. 23 This Licymnia is a nod to Hor. carm. 2,12,13; cf. Hardie 1994, 176. It is therefore

worth noting that this ode’s opening line has ferae in the middle, while the stanza im-mediately following the mention of Licymnia likewise has ferre in the middle of its opening line (17): both ferae and ferre are placed third in their respective lines, where each of them is located in the first element of a matching string of negatives.

24 Viz. as latebra and insidiis respectively. In connection with the second passage (10,735: fortibus armis) it may be observed that fortis was likewise etymologized from ferre; cf. Maltby 1991, 241.

25 On the importance Virgil attaches to such sexilinear spacing cf. Thomas 1988, 153-154; 176.

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cal alignment at the start of the line is an etymological red flag27. Initial at- in at-tulit exactly matches similarly initial at in at furis, while medial -tul- (< fero) likewise corresponds to similarly medial fur- (< fero). To achieve this correlation Virgil has evidently gone to some trouble. Here attulit needs to be glossed as advexit by Ti. Claudius Donatus (Aen. 8,200 p. 145,3 G.)28. As to at furis, Virgil could have expressed himself without recourse to at. He could also have inverted the order of the nouns: at Caci furis. If then at furis is glossed by attulit in the same sedes, this same at furis is also glossed by effera in the same line. If however attulit and effera both come from ferre, they ex-hibit a piquantly contrastive prefix: ad / ex.

If this attulit is highlighted by its immediately antecedent paronym fere-bat (199), this same juxtaposition also highlights ferebat itself. It would seem in fact that the function of this ferebat is not just to give prominence to attulit. Here ferebat and semihominis (194) frame the passage that introduces Ca-cus29. Such a «passage frame» is an etymological red light30. Semihominis, which is a Virgilian hapax31, is glossed as semiferi by Ti. Claudius Donatus (Aen. 8,190 p. 143,30 G.)32. It would seem that «framing» ferebat (199) is meant to provide an etymological gloss on the similarly «framing», but «sup-pressed» semiferi that is to be supplied for substitutive semihominis33. Henry notes that semihominis Caci facies … dira (194) corresponds exactly to furis

___________ 26 This verb is set off further by its initial position in the sentence as well as the

line. Here attulit is also spotlighted by direct juxtaposition with the very same verb (ferebat), which is located at the end of the previous line (199): such polyptotic anadi-plosis over verse-end is very striking.

27 Cf. Cairns 1996, 33 (= Cairns 2007, 317). 28 The sentence begun by this attulit is itself noteworthy: attulit et nobis aliquando

optantibus aetas / auxilium adventumque dei. The aetas that is the subject of this attulit has to be explained by both Servius (beneficium temporis) and by Ti. Claudius Donatus (Aen. 8,200 p. 145,2 G.: oportunum … tempus). A comparable play on another com-pound of ferre (rettulit) occurs shortly afterwards in this book (8,343); cf. Adkin 2001.

29 While semihominis is positioned at the start of the first line (194), ferebat is placed at the end of the last line (199).

30 Cf. O’Hara 2017, 83-86. 31 Here the word is brought into particular relief by postposition of the relative

(quam) until the hephthemimeres. 32 Semiferi is also the word used in the last line of the Cacus-episode (8,267). 33 For such «suppression» in etymologizing cf. O’Hara 2017, 79-82. The further

point may be made that semihom- (= semifer-; 194) occupies the same initial position as the attul- (200) that is juxtaposed with paronymous ferebat (199). This semihom- (= semifer-; 194) is moreover separated by exactly six lines from etymologizing ferebat (199), just as similarly etymologizing (at)tulit (200) is separated by the same six-line spacing from the (at) fur- (205) it etymologizes.

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Caci mens effera (205)34. Since semihominis is evidently meant to evoke sem-iferi, which shares with fur the etymon fero, this «correspondence» is closer than Henry thinks.

It may be asked why Virgil should have substituted semihominis for sem-iferi. The reason would again appear to be etymology. Homo was etymolo-gized from humus35. Humus, for which a large number of possible synonyms were available36, is the word Virgil chooses to employ when describing Cacus’ cave in the clause starting in the line immediately after the one beginning with semihominis. Here (195-196) humus is placed in saliently ante-caesural position: semperque recenti / caede tepebat humus. Humus was in turn ety-mologized from humor37. If then Virgil’s humus (196) would seem to be an allusion to this word as etymon of homo in his foregoing semihominis (194), an allusion to humor as etymon of humus itself would seem to be contained in his use of caede (196), which here means «sanguis vel cruor»38. Humor is the «opposite» of ignis39. This ignis is placed in the concluding line of Virgil’s de-scription of Cacus: illius (sc. Cacus’ father Vulcan) atros / ore vomens ignis magna se mole ferebat (198-199). Virgil’s piquantly etymological point is evi-dently that this (semi)homo is not the progeny of «wet» humus, but of «igne-ous» Vulcan40. If in this last line ignis occupies pre-caesural sedes, final sedes is occupied by the ferebat which supplies an etymological gloss on the (semi)ferus that is «suppressed» by said (semi)homo.

If this ferebat points up adjacent attulit (200), which is in turn an etymo-logical gloss on similarly line-initial at furis (205), a similar gloss on fur is ev-idently provided by avertit at the start of line 208. Averto is a synonym of aufero41. Such synonyms are regularly employed in etymologizing42: hence avertit is evidently being used here in place of synonymous aufert to gloss fur ___________

34 Henry 1883, 665. 35 Cf. Maltby 1991, 281. 36 Cf. Synon. Cic. p. 427,7 B. 37 Cf. Maltby 1991, 285. 38 Cf. ThlL III, 51,10-60, s. v. caedes. This line-initial caede is separated by just one

word from the pre-caesural humus it describes: for such «framing» of a hemistich as an etymological marker cf. Michalopoulos 2001, 5. This same caede is itself qualified by recenti, which here is used «less in the sense of “fresh” … than in that of “wet”» (Henry 1883, 663).

39 So ThlL VII,1, 289,45, s. v. ignis. 40 It may be observed that Varro had recently etymologized ignis from (g)nasci

(ling. 5,70). 41 Cf. OLD I, 232, s. v. averto (sect. 9): «To carry away (the property of others),

(mis)appropriate, steal»; ibid., I, 232, s. v. aufero (sect. 5a): «To take away (what is not one’s own), appropriate, steal».

42 Cf. Michalopoulos 2001, 11.

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as a derivative of fero. For this glossographic purpose avertit has been careful-ly foregrounded. Like attulit (200), avertit (208) is vertically aligned with the at furis (205) which both these verbs gloss: such plumb-line juxtaposition in verse-initial sedes is an etymological Fingerzeig43. This at furis moreover opens the sentence whose last line begins with avertit, which is further accentuated by enjambment with strong sense-break: here antibacchic avertit becomes by position an attention-grabbing molossus. Since furthermore the subject of avertit is the non-personal furis Caci mens effera, the resultant anacoluthon invests this hintful verb with extra salience44.

Besides afore-discussed at furis (8,205) there is a second passage involv-ing Virgil’s Cacus where etymology is at issue. O’Hara twice expresses sur-prise that Virgil does not allude to the natural etymology of «Cacus» from κακός («bad»)45. It would however seem possible to show that Virgil does in fact make specific reference to κακός as etymon of «Cacus»46. The Cacus-text at issue here occurs near the end of the epyllion some forty lines after afore-said at furis. This second passage, which describes how Hercules breaks open Cacus’ cave, may again be quoted in full (Aen. 8,241-249):

at specus et Caci detecta apparuit ingens regia, et umbrosae penitus patuere cavernae, non secus ac si qua penitus vi terra dehiscens infernas reseret sedes et regna recludat pallida, dis invisa, superque immane barathrum 245 cernatur, trepident immisso lumine manes. ergo insperata deprensum luce repente … desuper Alcides telis premit.

Manes (246), which occurs only here in the third quarter of the Aeneid, is conspicuously positioned as last word of last line of the long period that be-

___________ 43 Cf. Cairns 1996, 33 (= Cairns 2007, 317). 44 The final point may be made that after a space of just three lines after avertit the

last word of the last line of the last sentence of this passage is ferebant (212), after which Geymonat 2008, 469 rightly indents. Reeve 1970, 134-135 is accordingly wrong to delete this line, which ends with the last of the hints (ferebant) at the etymology of fur.

45 O’Hara 2017, 73; 204. For the derivation of «Cacus» from κακός cf. Maltby 1991, 90.

46 For Virgil’s interest in word play on κακός elsewhere cf. Adkin 2016, 23-24, where it is argued that the κακόν perpetrated in Il. 15,586 becomes acrostical caco («I s―t»; Aen. 11,808-811). The excretory wit continues with «Acca» (820), which is ana-grammatical caca («s―t!»), confirmed by the acrostics in 820-827 (upward caq[=c]at, downward cesi [= χέζει]).

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gan back in 241 (at specus … )47. This word manes was etymologized from mānus, an old synonym of bonus48. This etymology was frequently understood antiphrastically: per antiphrasin ‘manes’ inferi, quia non sint boni49. Virgil himself alludes to this etymology at Aen. 12,646-647: vos o mihi, manes, / este boni50. The manes of the Cacus-passage is preceded in the directly antecedent line (245) by the glaringly paronomastic immane (superque immane bar-athrum)51. Immanis, like manes, was etymologized from mānus52: ‘inmane’ pro malo …; nam ‘manum’ bonum53. Virgil has accordingly crafted a chiastic for-mulation (immane … cernatur, trepident … manes) that is framed by two words with exactly the same etymon (immane … manes)54. It was shown above that furis … effera (205) evinces a precisely analogous instance of a cir-cumjacent noun and adjective that share the identical etymon: just as framing furis / effera were linked by the etymon fero, so similarly circumferential im-mane / manes are united by similarly etymonic mānus.

This twofold use of etymonic mānus in contiguous lines (245-246: im-mane … manes) is exactly paralleled by the similarly «blatant»55 twofold use of post-caesural penitus in similarly contiguous lines (242-243) that are sepa-rated by just one line from said immane … manes. These two instances of pen-itus are immediately preceded by a line (241) in which «Cacus», who has not been named for twenty lines, is positioned in prominently pre-caesural sedes56. Similarly the two lines containing immane / manes (245-246) are im-

___________ 47 After manes Geymonat 2008, 470 actually starts a new paragraph. 48 Cf. Maltby 1991, 364. 49 So (e. g.) Serv. Aen. 1,139. 50 Cf. Bartelink 1965, 108. The further point may be made that the immediately

preceding line (645: terga dabo et Turnum fugientem haec terra videbit?) evidently con-tains an unidentified reference to the derivation of tergum from terra; cf. Maltby 1991, 605.

51 Here immane is further highlighted by the ambiguity of immediately foregoing super; cf. Eden 1975, 88.

52 Cf. Maltby 1991, 295. 53 So (e. g.) Serv. Auct. Aen. 1,110. 54 The chiasmus in immane … cernatur, trepident … manes is an argument for as-

yndetic trepident (against variant trepidentque) and for not taking this verb as apodotic (as [e. g.] Eden 1975, 89 does). Since the etymological jeu in immane … manes is ab-sent from the Homeric source-text (Il. 20,61-65), here we have a case of «enrichment» (on which cf. Michalopoulos 2001, 10).

55 So Eden 1975, 88. 56 This line (241) is itself prominent: on the one hand it starts the lengthy period

that ends with manes (246), while on the other it introduces the description of the breaching of Cacus’ cave.

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mediately followed by a line (247) which likewise refers to Cacus57. This time however Cacus is not directly named, but is instead qualified as deprensum58. The twofold etymologies of immane / manes as «not good» in the two preced-ing lines (245-246) are evidently meant to suggest a similar etymology for «suppressed» Cacus in the immediately following line (247)59. Cacus too is being etymologized as «not good», which is a «synonym» for «bad»: κακός60.

Further pointers to this etymology have been embedded in the Virgilian text. The deprensum (247) that stands in for «suppressed» Cacus after twofold immane / manes (245-246) finds an exact counterpart in the synonymous and similarly post-caesural detecta (241) that before similarly twofold penitus (242-243) is directly juxtaposed with selfsame and this time full-frontally ex-plicit «Cacus»: Caci detecta61. This same deprensum is itself directly juxta-posed with luce (247), which picks up synonymous and similarly ablatival lu-mine in same sedes after fourth diaeresis in the previous line (246)62. This lu-mine is directly juxtaposed with manes: hence the reader is nudged to link lumine manes (246: «not good») with deprensum luce (247: sc. Cacus, similar-ly «not good»)63. To sum up: in etymologizing «Cacus», malus / bonus is too ingénu. Smart <non> mānus is much «better».

___________ 57 Like l. 241 (cf. n. 56 above), this line (247) is also salient, since it begins a sec-

tion. 58 Designation of Cacus by such a mere participle (deprensum) after a long simile

(243-246) and the start of a new section in the line at issue (247) encourages readers to make the attention-focusing effort of supplying the name «Cacus» for themselves.

59 Here «suppressed» Cacus accordingly matches similarly «suppressed» semiferi (l. 194); cf. n. 33 above (with lit. on etymological «suppression»).

60 Here «not good» as a «synonym» for «bad» accordingly parallels the use of averto for similarly «synonymous» aufero (l. 208); cf. n. 42 above (with lit. on etymo-logical «synonymity»).

61 For detego as a synonym of deprendo cf. ThlL V,1,1, 795,44, s. v. detego. In the present passage both verbs are matching p. p. p.’s (detect- / deprens-).

62 For lumen as a synonym of lux cf. ThlL VII,2,2, 1811,14-44, s. v. lumen. This par-allelism of luce with similarly prepositionless lumine is an argument against the vari-ant in luce.

63 The first three lexemes of this last line (247: ergo insperata deprensum … ) would seem to invite subtextual interpretation as the type of etymological marker that «con-sists of words … which point to the presence of an etymology» (Michalopoulos 2001, 4-5). While deprensum itself, which denotes Cacus, would thus refer to «detection» of this name’s etymology (cf. OLD I, 572, s. v. deprehendo [sect. 4a]: «to detect, recog-nize»), insperata (cf. OLD I, 1019, s. v. [sect. 1]: «unexpected») would suggest the «un-expectedness» of such etymologizing here; thirdly ergo immediately after manes would hint at the «conclusion» (cf. ThlL V,2, 763,19, s. v.: «ergo notat conclusionem logi-cam») that is to be drawn about the etymology of «Cacus» from the two foregoing cas-

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Abstract: The present note deals with two passages that frame Virgil’s Cacus-epyllion: Aen. 8,193-212 and 241-250. It is argued that in both these texts etymology is at issue.

NEIL ADKIN [email protected]

___________

es of etymologically parallel «not good» (immane / manes).

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«Commentaria Classica» 5, 2018, 49-56. ISSN 2283-5652 ISBN 9788894227154

Nota a Curzio Rufo 3,2,15

VINCENZO ORTOLEVA

Il mercenario Caridemo, descrivendo a Dario le caratteristiche dell’eser-cito di Alessandro, si sofferma a un certo punto sulla sobrietà dei soldati ma-cedoni (3,2,15):

fatigatis humus cubile est; cibus, quem occupati parant, satiat; tempora somni ar-tiora quam noctis sunt.

occupati parant ω: occupant Col occuparunt Vogel occupant operati Novák occasione data parant Britzelmayr occupant imparatum Heinsius occupati rapiunt Hedicke1.

quando sono stanchi, il suolo è il loro giaciglio; il cibo che si procurano, tra tanti travagli, li sazia; la durata del sonno è più breve di quella della notte2.

Come si può notare dall’apparato, ha destato perplessità la sequenza occu-pati parant della tradizione. Già nell’edizione di Fr. Modius (che si basava su un perduto codex Coloniensis [Col]) si rinviene la banalizzazione occupant3. Heinsius aveva proposto in maniera dubitativa occupant imparatum4. Zumpt accettava al contrario il testo tràdito fornendo la seguente spiegazione: «quem [scil. cibum] aliis rebus occupati, verbi causa in stationibus excubantes, arma praeparantes, corpora exercentes, coquunt»5. Britzelmayr criticava l’interpre-tazione di Zumpt e proponeva cibus, quem occasione data parant o, in alterna-tiva, cibus, quem occasio parat6; quest’ultima proposta, come si vede, non è ___________

1 Il testo riprodotto è quello di Lucarini 2009b, ad loc. L’apparato critico è invece

stato da me leggermente rielaborato ai fini di una maggiore leggibilità e coerenza. 2 Traduzione di Giacone 1977, 49. 3 Modius 1579, 5 (cfr. anche p. 13 delle Notae pubblicate in fondo al volume). Sul

cod. Coloniensis si veda Lucarini 2009b, XLII-XLIII e lo stemma di p. L. La lettura quem occupant parant è giudicata positivamente da Baehrens 1913, 438, ed è accolta da Müller 1954, ad loc., con la traduzione «Speise sättigt sie, die sie sich irgendwie be-schaffen», e in Atkinson-Antelami, 1, 1998, 19, dove V. Antelami traduce: «li sazia il cibo che trovano» (in apparato [p. 18] tuttavia si attribuisce erroneamente ai mss. la lezione occupati erant).

4 In Snakenburg 1724, 68. 5 Zumpt 1849, 11. La medesima spiegazione viene ripresa in Zumpt 1864, 8, n. 8:

«den sie nebenbei, bei anderen Verrichtungen, sich bereiten». In Zumpt 1826, ad loc., si legge invece nel testo quem occupati parent [sic]. Il testo tràdito è accolto da Bardon 1947, ad loc., e tradotto «la nourriture, qu’ils se préparent tout en travaillant, leur suf-fit».

6 Britzelmayr 1868, 11: «Zumpt’s Einleitung [...] klingt ebenso ironisch als seine ganz Erklärung dieser Stelle».

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riportata in apparato da Lucarini. Altre congetture non considerate da Luca-rini sono quelle di Jeep: cibus quem occupant temperantes satiat, che sottoli-nea ancor di più la frugalità delle truppe macedoni7, e di Miller: cibus quem occupant parat satietatem8. Vogel correggendo invece occupati parant in occu-parunt spiegava in nota «= οὗ ἂν τύχωσιν» e rinviava a 4,1,27 (quemque quod occupasset, habiturum), a 4,9,8 (nihil habentem nisi quod ... occupasset) e a 6,4 (res non occupabantur sed aestimabantur)9. Lo studioso riteneva inoltre che qui satiat avesse il valore di ‘sufficit, satis est iis’. Sulla scia di questa interpre-tazione si muovono quelle successive di Novák: occupant operati (che giustifi-cava l’intervento cercando di istituire un parallelo fra fatigatis e operati: «il cibo che si procurano lavorando...»)10 e di Damsté, nel suo studio sul testo di Curzio Rufo, occupare possunt11. Lo stesso Damsté avrebbe tuttavia successi-vamente stampato nel testo della sua edizione occupaverunt (anche queste congetture di Damsté non sono registrate da Lucarini)12. Hedicke aveva inve-ce accolto la lezione tràdita nella sua prima edizione e congetturato occupati rapiunt nella seconda13. Un’ulteriore congettura (ancora non registrata da Lu-carini) è occupant parabilem di Stangl14, accolta nel testo anche da De Monto-liu15. In ultimo lo stesso Lucarini, in uno studio preparatorio all’edizione, ha anticipato la sua difesa del testo tràdito riproponendo le argomentazioni di Zumpt (senza tuttavia nominarlo): «Caridemo vuol dire che i Macedoni si

___________ 7 Jeep 1869, 189. Lo studioso citava Curt. 6,2,3: Tenaces quippe disciplinae suae so-

litosque parco ac parabili uictu ad inplenda naturae desideria defungi in peregrina et deuictarum gentium mala inpulerat.

8 Miller 1869, 285. 9 Vogel 1870, 60. La congettura di Vogel è ritenuta preferibile al testo tràdito da

Hug 1871, 172 e da Eussner 1873, 172. In opposizione invece a questa congettura Schmidt 1881, 75, propone a sua volta occupatum parant.

10 Novák 1884, 206. 11 Damsté 1894, 17. La scelta è criticata da Pichon 1897, 250. 12 Damsté 1897, ad loc. In apparato si legge la sibillina annotazione «occupaverunt

Wagener sec. Zumpt». In effetti in Wagener 1878, 819, si nota come la terza pers. plur. del perf. della I con. in Curzio Rufo sia sempre -auerunt o -auere; lo studioso non trat-ta tuttavia di questo caso. L’attribuzione della congettura occupauerunt è stata fraintesa da Baehrens 1913, 438, che criticava il ritmo che ne sarebbe conseguito: «So lesen wir bei Damsté nach der Konjektur Zumpts». In tempi più recenti si è inoltre soffermata sul passo Maria Luisa Paladini (1961), che – senza mostrare conoscenza dell’ed. di Damsté né dello studio di Baehrens – ha riproposto occupauerunt traducendo: «li sazia il primo cibo (= qualsiasi cibo) di cui si sono impossessati». La congettura della Pala-dini è riportata acriticamente in Atkinson 1971, 40.

13 Hedicke 1867, ad loc. e Hedicke 1908, ad loc. 14 Stangl 1902, ad loc. 15 Montoliu 1936, ad loc.

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NOTA A CURZIO RUFO 3,2,15

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accontentano del cibo che essi possono preparare nel mezzo delle loro attivi-tà, che cioè essi dedicano poco tempo alla preparazione del cibo»16.

Fin qui il faticoso status quaestionis. È tuttavia singolare che finora la cri-tica non abbia mai preso in considerazione la possibilità che il tràdito occupa-ti – del tutto indifendibile – altro non sia che una corruzione di aucupati. Già circa un secolo fa Ussani, nel trattare preliminarmente la tradizione mano-scritta del cosiddetto Egesippo17, notava come i codd. Karlsruhe, Badische Landesbibliothek, Aug. LXXXII (in. IX sec.) e Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria, D.IV7 (X sec.) riportassero in 1,1,9 occupatus in luogo della le-zione corretta aucupatus: Aucupatus etiam Antiochi necessitatem, qua Medis bellum inferebat, ultus dispendium plurimasque urbes Syriae sibi adiunxit18. Lo stesso Ussani spiegava il fenomeno sia in base alla pronuncia volgare in o del dittongo au che con il fatto che il senso traslato del verbo aucupor andava in qualche modo a sovrapporsi con quello di occupo quando questo ha valore di ‘prevenire’: a tal proposito lo studioso citava Gloss. V 562,15: aucupare: inua-dere, occupare, aues captare19. Bisogna ora aggiungere che scambi aucupor / occupo si rinvengono anche altrove. Si vedano ad es.: Cic. leg. 3,35: [scil. homine] omnis rumusculos populari ratione aucupante: il cod. Leiden, Univer-siteitsbibliotheek, VLF 84 (IX sec.) riporta occupante corretto poi in aucup-20; Aug. civ. 8,20 p. 351,9-10: miscetur daemoni deceptionem hominis aucupanti: il cod. Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 11638 (X sec.) riporta occupanti (au-cupanti mg.)21; Ps. Vict. Vit. pass. 8: alia multa quae solent insipientium ani-mas aucupante diabolo uisco mundiali captare: i codd. Paris, Bibliothèque Na-tionale, lat. 2015 (X sec.) e Bern, Burgerbibliothek, Cod. 48 (X sec.) traman-dano occupante22; si veda pure il seguente luogo dove la congettura appare si-cura: schol. Cic. Gron. B p. 331,12: tempus obsideret: aucuparet uel obseruaret (occuparet cod. Leiden, Universiteitsbibliotheek, VLQ 130, IX saec., con. Stangl ex Cic. S. Rosc. 2223).

___________ 16 Lucarini 2009a, 82. 17 Ussani 1924, 24-25. 18 Per l’esattezza nel cod. di Karlsruhe (f. 2v) si legge nel testo oc cupatus e in mar-

gine aucupatus (utilizzo la riproduzione digitale rinvenibile all’indirizzo http://nbn-resolving.de/urn:nbn:de:bsz:31-65728). Non ho potuto controllare il cod. di Torino.

19 Si veda anche Vel. gramm. VII 67,8: qui aucupium per u scribunt putant ab aue occupanda dictum; at qui aucipium, ab aue capienda.

20 Cfr. Vahlen 1871, ad loc. 21 Cfr. Hoffmann 1889, ad loc. 22 Cfr. Petschenig 1881, ad loc. 23 Cum ... tam multi occupationem eius obseruent tempusque aucupentur; cfr.

Stangl 1912, 331 (si noti che Stangl cita il ms. con il numero 138). Notevole inoltre la congettura aucupet dello Scaligero (Scaliger 1610, 330) in Sen. Herc. O. 482: ne quis

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Le occorrenze ora riportate sono certamente molto interessanti. Proba-bilmente però non si deve, almeno in linea di principio, postulare – come ri-teneva Ussani – una filiazione diretta delle false lezioni occup- da aucup-. Si rinviene infatti nei manoscritti un’ulteriore tipologia di corruttela/variante grafica: accup- per aucup-, che sembrerebbe costituire una fase intermedia fra aucup- e occup-. A tal proposito si vedano ad es. rhet. Her. 1,13,23: ex ratioci-natione controuersia constat, cum res sine propria lege uenit in iudicium, quae tamen ab aliis legibus similitudine quadam aucupatur (ac cupatur cod. Würz-burg, Universitätsbibliothek, M.p.misc.f.2, IX saec., aucu- con. Marx 24 ); Ambr. in psalm. 118 serm. 18,16: si enim lucra, quaestus pecuniae et emolu-menta aucupemur (accupemur cod. Arras, Bibliothèque municipale, 899 [590], IX sec.25); Vict. Vit. 2,31: sed ubi aduersarius ... nullum potuit aucupari (accupari codd. Bamberg, Staatsbibliothek, Hist. 6 (E.III.4), IX sec.; Wien, Österreichische Nationalbibliothek, 583, X sec.; Kremsmünster, Stiftsbiblio-thek, CC 36, XII sec.; gli altri testimoni si dividono fra aucupari e occupare26). ___________

arcana occupet. Si consideri pure il nome proprio di divinità Occupo, -nis, che si rin-viene solo in Petron. 58,11, forse da collegare più ad aucupor che a occupo (cfr. a ri-guardo Ziemmermann 1904, 425). Segnalo infine che nell’italiano antico il verbo oc-cupare può avere un valore derivante non dal lat. occupo ma da aucupor: si vedano ad es. Dante Purg. 14,53-54: trova [scil. la corrente dell’Arno] le volpi sì piene di froda, / che non temono ingegno [‘trappola’?] che le occùpi e, nel senso figurato di ‘sposare (con l’inganno)’, Boccaccio Dec. 3, concl. (vv. 27-30 della canzone): ...quasi mi dispero, / co-gnoscendo per vero, / per ben di molti al mondo / venuta, da uno essere occupata (altri esempi in Battaglia, 11, 1981, s. v. occupare, 791).

24 Una riproduzione digitale del ms. è reperibile all’indirizzo http://vb.uni-wuerzburg.de/ub/mpmiscf2/index.html; il passo citato si trova al f. 6v. Lo stesso Marx 1894, 175, spiega: «aucupatur et lepide et bene dictum esse arbitramur pro σκοπεῖται».

25 Cfr. Petschenig 1913, ad loc. 26 Si veda Petschenig 1881, ad loc.; Piktäranta 1978, 24, era inoltre dell’avviso che la

lezione accupari risalisse all’autore e che quindi andasse accolta in luogo di aucupari. Per altre occorrenze in testi medievali della forma accup- rinvio a MLW s. vv. aucupa-tio: Dipl. Karoli M. 255 p. 370,2 (cod. C); aucupator: Gloss. I 16,22 St.-S. (cod. b); au-cupium: Gloss. I 350,54 St.-S. (cod. p) e aucupor: Aethicus Ister 82, p. 63,20 (cod. L); a questi esempi si aggiunga Vita tertia Gaugerici 1,4 (CCh CM 270, p. 154,237): accupari (cod. C2). In Cod. Theod. 9,19,4,1: il cod. Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 4405, fine IX sec., tramanda invece accupari contro occuparet accolto nel testo da Mommsen-Meyer 1905, ad loc. (altri testimoni hanno occupare). Si veda infine anche acup- per aucup- in Gloss. V 560,7: acupio (ma cfr. Gloss. Bibl. cod. Aug. 3,45 [Karlsruhe, Badi-sche Landesbibliothek, Aug. perg., 99, fine VIII sec.] e Gloss. Bibl. cod. Bern. 9,38 [Bern, Burgerbibliothek, Cod. 258, IX sec.], dove si rinvengono rispettivamente accu-pio e accupium); Prisc. gramm. II 495,16: acupari (nel cod. Bamberg, Staatsbibliothek, Class. 43 [M.IV.12], IX sec.; si tratta di una citazione da Cic. de orat. 2,256); Vict. Vit. 2,31 (cit. supra): acupari (nel cod. Admont, Benediktinerstift, Cod. 739, XII sec.);

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NOTA A CURZIO RUFO 3,2,15

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È infine forse un caso che proprio un testimone di Curzio Rufo della metà del IX sec., il cod. Leiden, Bibliotheek der Rijksuniversiteit, BPL 137, riporti una correzione alla prima lettera della lezione occupati di 3,2,15?27

Il senso del nostro passo così ricostruito sarebbe dunque perfettamente plausibile, con aucupor che avrebbe naturalmente non il significato proprio di ‘cacciare uccelli’, ma quello traslato di ‘acchiappare’, ‘andare in cerca’: «il cibo, che andando in cerca (o raccattando) si procurano, sazia»28. Per questo valore del verbo in riferimento agli alimenti si veda inoltre Amm. 30,4,14: cenarum ciborumque aucupantes delicias exquisitas, «andando in cerca di delizie squisi-te di cene e banchetti» (detto di avvocati senza scrupoli)29.

___________

Gloss. Bibl. cod. Fuld. 20,37 (Fulda, Hessische Landesbibliothek, Aa 2, IX sec.): acupis. Il fenomeno del passaggio di auc- in acc- in aucupor e derivati è segnalato in Stotz 1996, 93. L’esistenza di una forma accupari era stata ipotizzata da Battisti 1949, 110 (a quanto pare senza la conoscenza delle attestazioni nei mss.), come base del rum. apucá, ‘prendere’, con metatesi. In REW3 776 si fa invece derivare il termine da aucu-pare con la possibilità di incrocio con occupare (cfr. anche nr. 6031; il primo a indivi-duare la possibile etimologia da aucupare sembra tuttavia Burlă 1880-1881, 276), ma Meyer-Lübke 1920, 159, ipotizza dubitativamente una derivazione del termine rum. da acupare (si veda anche Meyer-Lübke 1890, 53-54; una rassegna delle varie proposte di derivazione in Ciorănescu 2002, 44-45). Sia Burlă che Battisti e Meyer-Lübke 1920 fanno inoltre riferimento a forme volgari del tipo asculto, Agustus, agurium, ma ciò forse spiegherebbe solo la già riportata forma acup-.

27 F. 2v, prima linea. La datazione è ripresa da Bischoff 2004, 44, che propone Auxerre come luogo di copia. Una descrizione del ms. in Molhuysen 1912, 75-76. Il ms. presenta numerose correzioni dovute a una mano del IX sec. Una copia digitale del codice (sfortunatamente alla risoluzione di soli 300 dpi) è rinvenibile all’indirizzo http://hdl.handle.net/1887.1/ item:881366. Sulla base di tale riproduzione il Prof. San-dro Bertelli, che sentitamente ringrazio, mi ha tuttavia gentilmente comunicato che dietro la o frutto della correzione si trovava probabilmente proprio una a. Non ho pur-troppo potuto controllare altri due importanti testimoni del IX sec., perché di essi non esistono riproduzioni gratuitamente consultabili: Bern, Burgerbibliothek, Cod. 451 e Leiden, Bibliotheek der Rijksuniversiteit, Voss. Lat. Q. 20.

28 Qui il participio perfetto sembra avere valore di presente, come avviene di fre-quente con i verbi deponenti (cfr. Hofmann-Szantyr 1965, 391). Una simile costruzio-ne ἀπὸ κοινοῦ (con il participio perfetto di un verbo deponente) in Hor. sat. 2,8,93: quem nos sic fugimus ulti.

29 Per altri esempi di aucupor, nel senso traslato sopra esposto, costruito con un oggetto più o meno concreto si vedano per il latino classico e tardo Colum. rust. 9,8: At si commeant frequentes [scil. apes], spem quoque aucupandi examina maiorem fa-ciunt; Ambr. Tob. 6,23: aucupantur [scil. faeneratores] heredes nouos, adulescentulos diuites explorant per suos; Ambr. in psalm. 118 serm. 18,16 (cit. supra); Vict. Vit. 2,31 (cit. supra); per il latino medievale il già citato (n. 26) Aethicus Ister 82, p. 63,20: non prodet aucupata lamina inter cunabula. Per paro, nel senso di ‘procurarsi’, riferito a

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VINCENZO ORTOLEVA

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___________

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NOTA A CURZIO RUFO 3,2,15

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Modius 1579 = Q. Curtii Rufi Historiarum Magni Alexandri Macedonis libri octo, nove editi et recogniti a Fr. Modio Brugensi, Coloniae 1579.

Molhuysen 1912 = P. Molhuysen, Codices Bibliothecae Publicae Latini, Lugduni Bata-vorum 1912.

Mommsen-Meyer 1905 = Theodosiani libri XVI cum constitutionibus Sirmondianis et Leges novellae ad Theodosianum pertinentes, ediderunt Th. Mommsen et P. M. Meyer, 1, pars posterior, Berolini 1905.

Montoliu 1936 = Q. Curci Rufus, Història d’Alexandre el Gran, 1, llibres III i IV, text revisat i traducció del Dr. M. de Montoliu, 2a edició a cura de J. Vergés, Barcelona 1936.

Novák 1884 = R. Novák, Poznamenání ke kritice textu Kurtia Rufa, «LF» 11, 1884, 206-212.

Paladini 1961 = M. L. Paladini, Curzio Rufo, III, 2, 15, «Latomus» 20, 1961, 392. Petschenig 1881 = Victoris episcopi Vitensis Historia persecutionis Africanae provin-

ciae, recensuit M. Petschenig, Vindobonae 1881. Petschenig 1913 = S. Ambrosii Opera, pars V, Expositio psalmi CXVIII, recensuit M.

Petschenig, Vindobonae 1913. Pichon 1897 = R. Pichon, Rec. di Damsté 1894, «RPh» 21, 1897, 248-251. REW3 = W. Meyer-Lübke, Romanisches etymologisches Wörterbuch, Heidelberg 19353. Scaliger 1610 = Ios. Iusti Scaligeri ... Opuscula varia antehac non edita, Parisiis 1610. Schmidt 1881 = Rec. di Vogel 18752-[1881], «PhW» 1, 1881, 74-78. Snakenburg 1724 = Quinti Curtii Rufi De rebus gestis Alexandri Magni..., curavit et

digessit H. Snakenburg., Delphis et Lugd. Bat. 1724. Stangl 1902 = Q. Curti Rufi Historiarum Alexandri Magni Macedonis libri qui super-

sunt, für den Schulgebrauch herausgegeben von Th. Stangl, Leipzig 1902. Stangl 1912 = Ciceronis orationum scholiastae [...], recensuit Th. Stangl, 2, commenta-

rios continens, Vindobonae-Lipsiae 1912. Stotz 1996 = P. Stotz, Handbuch zur lateinischen Sprache des Mittelalters, 3, Lautlehre,

München 1996. Ussani 1924 = V. Ussani, Lezioni varie e scolii di classici in servigio del Dizionario me-

dievale, «ALMA» 1, 1924, 20-26. Vahlen 1871 = M. Tullii Ciceronis De legibus libri, ex recognitione Io. Vahleni, Beroli-

ni 1871. Vogel 1870 = Q. Curti Rufi Historiarum Alexandri Magni Macedonis libri qui super-

sunt, erklärt von Th. Vogel, erstes Bändchen, Buch III-V, Leipzig 1870 [18752]. Wagener 1878 = C. Wagener, Zu Q. Curtius Rufus, «Neue Jahrbücher für Philologie

und Paedagogik» 48, 1878, 817-820. Ziemmermann 1904 = Die lateinischen Personennamen auf -o, -onis, «ALLG» 13,

1904, 225-252, 415-426, 475-500.

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VINCENZO ORTOLEVA

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Zumpt 1826 = Q. Curtii Rufi De gestis Alexandri Magni regis Macedonum libri qui supersunt octo, recensuit C. T. Zumptius, Berolini 1826.

Zumpt 1849 = Q. Curti Rufi De gestis Alexandri Magni regis Macedonum libri qui supersunt octo, recensuit C. T. Zumptius, Brunsvigae 1849.

Zumpt 1864 = Q. Curti Rufi De gestis Alexandri Magni regis Macedonum libri qui supersunt octo, Ausgabe zum Schulgebrauch ... von C. T. Zumpt, Braunschweig 1864.

Abstract: At Curt. 3,2,15 we should read cibus, quem au c up at i parant, satiat. The

transmitted reading occupati derives from the elsewhere attested confusion between the verbs aucupor (via perhaps the late form accup-) and occupo.

VINCENZO ORTOLEVA [email protected]

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«Commentaria Classica» 5, 2018, 57-60. ISSN 2283-5652 ISBN 9788894227154

Particolarità lessicali nel poema dell’Heptateuchos

MARIA ROSARIA PETRINGA Nel cosiddetto poema dell’Heptateuchos si rinvengono talvolta termini ra-

ri o anche non precedentemente attestati. Su alcuni di essi mi sono già altrove soffermata1. Faccio qui seguire alcune considerazioni su qualche altro ulterio-re caso meritevole di menzione2.

ceriforum: num. 153-154 [num. 8,2]: ...dum bracchia pandit / aurea cerifo-rum («mentre il candelabro distende i bracci d’oro»). Il vocabolo ha il signifi-cato di ‘candelabro’ e sembra essere attestato solo qui e in Gloss. II 349,6, ma in forma maschile: ceriforus: κηριάπτης. Si tratta di un’occorrenza interessan-te perché il corrispettivo termine greco κηροφόρος parrebbe invece designare la persona che porta un cero: si veda ad es. EM p. 812,26 Kallierges: χλαμὺς δὲ τὸ περιφερὲς καὶ κυκλοειδὲς [...] ὅπερ φοροῦσιν οἱ κηροφόροι3. Per converso, nella voce del ThlL (3, 863,1) la parola greca è erroneamente fatta precedere da un asterisco. Si vedano inoltre i termini simili indicanti il candelabro nel latino tardo: cereferale (Greg. Tur. glor. conf. 78), cerofarium (Sacr. Gelas. p. 145 e Mirac. Steph. 2,2,4), cereoforaleum (Ius canon. 3,94 [Migne 56, 888]) e cereofalum (Peregr. Aeth. 24,7 e 25,8).

clarigenus: exod. 1129 [exod. 31,2]: ex Iuda, cui classe fuit clarigena origo («da Giuda, che ebbe illustre origine per rango»). L’aggettivo clarigenus (‘di stirpe illustre’) appare rinvenirsi solo qui e in Gloss. V 617,17: clarigenus est claro genere ortus4. Si noti pure l’allungamento di -i- nel verso del poeta del-l’Heptateuchos5.

___________ 1 Si vedano in particolare Petringa 2014 e Petringa 2016, 98-101. 2 Indico fra parentesi quadre i riferimenti all’ipotesto biblico. 3 Cfr. pure Et. Gud. p. 567,18 Sturz: χλαμὺς δὲ καὶ ὅπερ φοροῦσιν οἱ κηροφόροι, e

Suda κ 1538: κηροφορεῖν: κηρία φέρειν. 4 Si consideri anche l’espressione clari genus che si rinviene in Stat. silv. 4,8,3; Sil.

17,631 e Tac. ann. 6,9,3 (su cui cfr. Woodman 2017, 129-130). Si veda poi Prisc. III 224,17: similiter in eodem fere sensu figuratur nominativus et obliqui eius cum accusati-vo alterius nominis, quod et supra ostendimus: clarus genus, clari genus, claro genus, cla-rum genus, clare genus. Lo stesso testo di Gloss. V 617,17 è ripreso nel Glossario di Ai-nardo (X sec.); cfr. Gatti 2000, 39 (C 112).

5 Su questo e altri composti in -genus (= genitus) cfr. la dettagliata trattazione di André 1973, 23-35.

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MARIA ROSARIA PETRINGA

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confluus: iud. 609 [iud. 15,6]: cultorum conflua turba («la traboccante folla dei notabili»). L’aggettivo (‘che confluisce’, ‘traboccante’) ha poche attesta-zioni nel latino tardo: Prud. cath. 5,75-76: sed confusa dehinc unda revolvitur / in semet revolans gurgite confluo [refluo v. l.] («ma poi l’onda ritorna rimesco-landosi e correndo indietro su se stessa con un gorgo vorticoso»); Paul. Nol. carm. 18,113: totis ergo quibus stipatur conflua turbis [scil. urbs Nola] («[la cit-tà di Nola] traboccante dunque di tutte le folle di cui si riempie»); Ven. Fort. carm. 10,9,47: tum venio qua se duo flumina conflua iungunt («allora giungo dove si uniscono due fiumi confluenti»). Si presti attenzione in particolare al-l’affinità semantica dell’attestazione nel poeta dell’Heptateuchos con l’occor-renza di Paolino di Nola. Bisogna inoltre aggiungere che proprio il nesso con-flua turba è rinvenibile (sia in prosa che in poesia) nel latino medievale: Beda, in Ezram et Neemiam, 3, l. 1844; Bruun Candidus, vita Aeigili metrica 14,88 (nella stessa sede alla fine dell’esametro); De apparitione Sancti Michaelis in Monte Gargano 6,543,28; Stephanus Rothomagensis, Draco Normannicus 3,2, p. 169,32 e 6, p. 175,42.

occa: exod. 317-318 [exod. 9,32]: Nam cetera mersit [scil. grando] / quae conspersa solo nondum deprompserat occa («[La grandine] sommerse infatti tutto il resto che, sparso sul suolo, il rastrello non aveva ancora raccolto»). Il termine occa (‘rastrello’) sembra rinvenirsi solo qui per quanto riguarda i testi letterari antichi e tardoantichi6. Altre occorrenze si trovano nei glossari: Gloss. V 606,30: occa: rastrum; Gloss. V 376,20a: occas fealga (anglosax.: ‘erpice’); Gloss. V 654,42: occare: operire unde occatio et occae id est operimenta e Gloss.L Corp. O 111 occa: faelging (anglosax.: ‘erpice’)7. In Gloss. «ALL» 2, 1885, 321, il vocabolo è sinonimo di ager per metonimia: inde dicitur occa ager non pro-cul ab oppidis ligonibus magis utens quam vomere [nomen trad.] vel aratris8.

procurvo: gen. 14 [gen. 1,12]: pomiferique simul procurvant brachia rami («e i fruttiferi rami incurvano insieme verso il basso i bracci»); gen. 608-609 [gen. 18,7]: tum vitulus tumida procurvans cornua fronte / deligitur («allora si ___________

6 Si noti tuttavia come ben attestato sin da Plauto sia il verbo occare: cfr. ThlL 9,2,

359,52 - 360,44 s. v. Occorrenze del sostantivo nel latino medievale sono registrate in NGML s. v. e in DMLBS s. v. 1.

7 Il riferimento a Veg. mulom. 1,56,5, rinvenibile in ThlL 9,2, 328,50-55 s. v., è in-vece erroneo, perché basato su una non attendibile costituzione del testo. La lezione genuina è assai probabilmente iacca (‘rastrelliera’): cfr. ThlL 7,1, 4,58-64 s. v. e Ortole-va 1999, 186.

8 Altre attestazioni nel latino medievale sono registrate in DMLBS s. v. 2. Potrebbe tuttavia in questi casi trattarsi di una confusione con olca (‘campo coltivato’): si veda-no a tal proposito le varianti grafiche in Du Cange 1883-1887 s. v. olca1 e NGML s. v. olca2.

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PARTICOLARITÀ LESSICALI NEL POEMA DELL’HEPTATEUCHOS

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sceglie un vitello che inclina verso il basso le corna con la turgida fronte»)9. Il verbo ha valore di ‘portare verso il basso’; esso si rinviene solo in Stat. Theb. 6,852: ...et celsum procurvat Agyllea Tydeus («...e Tideo piega l’imponente Agilleo»), in una scena di lotta10.

procurvus: gen. 1052 [gen. 33,3]: procurvus prona dominum cervice salutat («saluta curvo il suo signore a testa bassa»); gen. 1144 [gen. 37,9]: et sibi ceu domino procurva inflectere colla («e piegare a sé, come al Signore, i colli ricur-vi»); exod. 130 [exod. 3,2]: procurvam fulgere rubum neque ignibus uri («ri-splendere il rovo ricurvo senza bruciare per le fiamme»); exod. 434-435 [exod. 14,9]: Iamque <iter> adcelerans procurva ad litora Rubri / marmoris admorat socias in bella quadrigas («E ormai affrettando il cammino aveva rivolto le quadrighe alleate in guerra alle sinuose rive del mar Rosso»); iud. 239 [iud. 5,3]: procurvus venerare deum... («chinandoti venera Dio...»). L’aggettivo è, come si è visto, utilizzato varie volte dall’anonimo poeta, ma non si rinviene nella poesia classica e tardoantica al di fuori di Virgilio: georg. 2,421: procur-vam [scil. oleae non] exspectant falcem rastrosque tenacis («[gli olivi non] aspettano la falce adunca e i saldi rastrelli») e Aen. 5,765: exoritur procurva ingens per litora fletus («nasce un immenso pianto per i lidi incurvati»). Da Virgilio dipende probabilmente anche Isid. orig. 10,230: procurvus quasi per longum curvus (ripreso in Gloss.L I Ansil. PR 1813)11.

Bibliografia André 1973 = J. André, Les composés en -gena, -genus, «RPh» 47, 1973, 7-30. DMLBS = R. E. Latham - D. R. Howlett - R. K. Ashdowne (edd.), Dictionary of Medie-

val Latin from British Sources, Oxford 1975-2013. Du Cange 1883-1887 = Ch. Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, ... edi-

tio nova aucta ... a L. Favre, 10 voll., Niort 1883-1887. Gatti 2000 = Ainardo, Glossario, edizione critica a cura di P. Gatti, Tavarnuzze Im-

pruneta 2000. NGML = Novum glossarium mediae Latinitatis ab anno DCCC usque ad annum MCC,

Hafniae 1957- Ortoleva 1999 = Publii Vegeti Renati Digesta artis mulomedicinalis, liber primus, in-

troduzione, testo critico e commentario a cura di V. Ortoleva, Catania 1999.

___________ 9 I versi sono una ripresa quasi letterale di Verg. georg. 4,299-300: tum vitulus bima

curvans iam cornua fronte / quaeritur. 10 Un’attestazione medievale in Wurdestinus, vita S. Winwaloei 2,5 («AB» 7, 1888,

219): ubi locum inter montes invenerunt sinuosos, id est ex australi et aquilonali plaga, aequaliter procurvatus...

11 L’aggettivo è viceversa abbastanza ricorrente nei poeti di età umanistica a partire da Petrarca (buc. 10,62).

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MARIA ROSARIA PETRINGA

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Petringa 2014 = M. R. Petringa, Le attestazioni del verbo clepto nel latino tardo e me-dievale, in P. Molinelli - P. Cuzzolin - C. Fedriani (edd.), Latin vulgaire - Latin tar-dif 10, Actes du Xe colloque international sur le latin vulgaire et tardif (Bergamo, 5-9 septembre 2012), Bergamo 2014, 615-626.

Petringa 2016 = M. R. Petringa, Il poema dell’Heptateuchos. Itinera philologica tra tardoantico e alto medioevo, Catania 2016.

ThlL = Thesaurus linguae Latinae, 1900- Woodman 2017 = The Annals of Tacitus, Books 5 and 6, edited with a commentary by

A. J. Woodman, Cambridge 2017.

Abstract: Regarding some rare words in the anonymous Heptateuch poem: cerifo-rum, clarigenus, confluus, occa, procurvo and procurvus.

MARIA ROSARIA PETRINGA

[email protected]

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«Commentaria Classica» 5, 2018, 61-79. ISSN 2283-5652 ISBN 9788894227154

Filologia, antiquaria e propaganda nel Quattrocento. Il caso del tempio di Apollo in Circo*

GIUSEPPE MARCELLINO

I resti oggi visibili del tempio di Apollo in Circo si trovarono, durante tut-ta l’epoca medievale, al di sotto dello strato di terreno che copriva buona par-te della prima arcata del Teatro di Marcello1. Alcune parti del tempio furono riconosciute come tali già nell’Ottocento, ma i crocchi delle colonne, rinvenu-ti negli anni ’30 del Novecento, vennero posizionati in verticale solo nel 19402. Nel passato si è pensato all’esistenza a Roma di più di un tempio di Apollo di età repubblicana, ma grazie alla localizzazione del Circo Flaminio a opera di Guglielmo Gatti la questione è stata risolta definitivamente, e oggi, come ha scritto Filippo Coarelli, «l’identificazione del tempio non pone pro-blemi»3. Questa importante acquisizione topografica, come mostreremo nel presente contributo, rappresenta l’esito felice di una lunga ricerca che ha avu-to origine nel Quattrocento.

1. I templi di Apollo a Roma nel Medioevo

Al fine di ricostruire la storia delle identificazioni del tempio di Apollo nell’antiquaria quattro-cinquecentesca, sarà opportuno presentare innanzi-tutto i dati offerti dalle fonti antiche. Da un passo di Livio apprendiamo che già nel 449 esisteva a Roma un santuario di Apollo, denominato Apollinare e localizzato nei prata Flaminea, quindi al di fuori del pomerium4. Sul luogo dell’antico santuario all’aperto venne dedicato un tempio durante un’epide-mia tra il 433 e il 4315. I resti che vediamo oggi risalgono al I sec. a. C., quan-do tra il 37 e il 32 Gaio Sosio, già luogotenente di Cesare, fece restaurare la precedente aedes Apollinis. Non disponiamo di testimonianze relative all’e-poca medievale, ma i dati archeologici sembrano indicare un abbandono pre-

___________ * Ringrazio gli anonimi referee per le puntuali e rilevanti osservazioni. 1 Per il santuario e il tempio di Apollo a Roma cfr. in generale Viscogliosi 1996;

Coarelli 1997, 377-391. 2 Viscogliosi 1996, 8-12. 3 Coarelli 1997, 387. 4 Liv. 3,63. 5 Liv. 4,25: Pestilentia eo anno aliarum rerum otium praebuit. Aedis Apollini pro va-

letudine populi vota est. Multa duumviri ex libris placandae deum irae avertendaeque a populo pestis causa fecere; magna tamen clades in urbe agrisque promiscua hominum pecorumque pernicie accepta. Cfr. Bernstein 1998, 173-174.

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GIUSEPPE MARCELLINO

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coce dell’edificio6. Nei pressi del tempio di Apollo sorgeva anche il Circus Flaminius (edificato nel 221). Sempre grazie a Livio sappiamo che nel 212 si celebrarono più a Sud, nel Circo Massimo, per la prima volta i giochi, di ca-rattere militare, in onore di Apollo per ottenere la vittoria contro Annibale durante la seconda guerra punica7. A partire dal 208 i ludi Apollinares diven-nero annuali e furono celebrati in estate, il 13 luglio8, mentre dal 179 in poi essi si svolsero per tutta l’epoca repubblicana nel theatrum et proscenium ad Apollinis9, da identificare nell’area che successivamente fu occupata dal Tea-tro di Marcello10. Filippo Coarelli, riferendosi all’ipotesi, sostenuta in passato, che in età repubblicana esistessero due templi di Apollo, ha parlato del «caso più macroscopico di reduplicazione», da parte degli studiosi moderni, nella localizzazione dei monumenti del Circo Flaminio11.

Se volgiamo lo sguardo all’epoca medievale, ci rendiamo facilmente conto che sulla posizione di tale tempio regnò per molti secoli grande incertezza. A complicare il quadro, inoltre, contribuiva anche il fatto che a Roma, in epoca imperiale, era stato dedicato un altro tempio alla medesima divinità sul colle Palatino. Le fonti medievali non solo non distinguono l’uno dall’altro, ma an-che collocano un cospicuo numero di templa Apollinis in diverse parti della città. Al fine di offrire una mappatura delle identificazioni ricorrenti in età medievale, faremo riferimento in particolare ai seguenti testi raccolti da Ro-berto Valentini e Giuseppe Zucchetti nel benemerito Codice topografico della città di Roma12:

Curiosum Curiosum urbis Romae regionum XIII (post 357) Notitia Notita urbis Romae (post 334)

___________ 6 Viscogliosi 1996, 4-5. 7 Liv. 25,12: ... censuerunt patres Apollini ludos vovendos faciendosque et, quando

ludi facti essent, duodecim milia aeris praetori ad rem divinam et duas hostias maiores dandas. Alterum senatus consultum factum est, ut decemviri sacrum Graeco ritu facerent hisque hostiis, Apollini bove aurato et capris duabus albis auratis, Latonae bove femina aurata. Ludos praetor in circo maximo cum facturus esset, edixit, ut populus per eos lu-dos stipem Apollini, quantam commodum esset, conferret. Haec est origo ludorum Apollinarium victoriae, non valetudinis ergo, ut plerique rentur, votorum factorumque. Populus coronatus spectavit, matronae supplicavere, vulgo apertis ianuis in propatulo epulati sunt, celeberque dies omni caerimoniarum genere fuit. Sul passo cfr. Bernstein 1998, 171. Occorre però notare con Marshall (2006, 38 n. 96) che non è da escludere che «the adjective maximo represents a false inferenze by Livy or an interpolator».

8 Coarelli 1997, 384. 9 Liv. 40,51,3. Per questo teatro, probabilmente mobile, cfr. Sear 2006, 54-55. 10 Coarelli 1968, 68-70. 11 Ivi, 42-45. 12 Valentini-Zucchetti 1940-1953.

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FILOLOGIA, ANTIQUARIA E PROPAGANDA NEL QUATTROCENTO

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Lib. Pont. Liber pontificalis (compilato a partire dal VI sec.) Mirabilia La più antica redazione dei Mirabilia (1140-1143) Graphia Redazione dei Mirabilia incorporata nella Graphia aureae urbis (post 1154) Miracole Le Miracole de Roma (volgarizzamento della più antica redazione dei Mirabilia) Rosell Raccolta di Nicolàs Rosell del De mirabilibus civitatis Romae (1360-1362) Magliab. Tractatus de rebus antiquis et situ urbis Romae (1411), noto come Anonimo Magliabechiano Mallio Pietro Mallio, Descriptio basilicae Vaticanae (seconda metà del XII sec.) Cavallini Giovanni Cavallini, Polistoria de virtutibus et dotibus Romanorum (1343-1352) Poggio Poggio Bracciolini, De varietate Fortunae (1448) Veggio Maffeo Veggio, De rebus antiquis memorabilibus basilicae S. Petri Romae (post 1455) Leto Pomponio Leto, Rimaneggiamento del Catalogo delle quattordici regioni di Roma (1476-1488) Albertini Francesco Albertini, Opusculum de mirabilibus novae et veteris urbis Romae (1510)

In alcune fonti si colloca un tempio di Apollo nella zona della Basilica di San Marco Evangelista al Campidoglio, non molto lontano dal luogo dove sorgeva in realtà il tempio di Apollo in Circo. Si legge ad esempio post Sanc-tum Marcum templum Apollinis nei Mirabilia13, nella Graphia14 e in Rosell15 (nelle Miracole ricorre la medesima informazione in volgare: «Po Sancto Marco fo templum Apollinis»)16. Si noti, infine, che in Magliab. l’indicazione post Sanctum Marcum viene riletta per posizionare il tempio erroneamente più a Nord, a metà quindi tra San Marco in Campidoglio e Santa Maria in via Lata: Ad Sanctum Marcum fuit templum Apollinis, videlicet retro, infra Sanc-tam Mariam viae Latae et dictam ecclesiam Sancti Marci, et vestigia adhuc sunt multa respicienti17.

Altre fonti pongono il templum Apollinis in Vaticano. Ad esempio, nel Lib. Pont. leggiamo: Beatus Petrus sepultus est via Aurelia, in templum Apol-linis, iuxta locum ubi crucifixus est, iuxta palatium Neronianum, in Vatica-num, iuxta territurium Triumphalem18. La notizia è ripetuta nei Mirabilia19 e, ___________

13 Ivi, 3, 50. 14 Ivi, 3, 88. 15 Ivi, 3, 191. 16 Ivi, 3, 119. 17 Ivi, 4, 139. 18 Ivi, 2, 221, 225, 231.

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GIUSEPPE MARCELLINO

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con qualche piccola variazione, nella Graphia20, in Rosell21 e nelle Miracole22. Ancora in Mallio il tempio è collocato in Vaticano23. Reinterpretando poi l’informazione dei Mirabilia, Cavallini colloca il templum non più nei pressi della Chiesa di San Pietro al Vaticano, ma in quelli della Chiesa di San Pietro in Montorio, sul Gianicolo (In huiusmodi monte fuit olim templum Neronis infra quod fuit templum Apollinis, in quo erat aerarium Neronis)24. Invece, Magliab. segue ancora la collocazione offerta dai Mirabilia (Iuxta palatium Neronis fuit templum Apollinis, quod hodie Sancta Petronilla dicitur, et ibi iunctum est, ubi sanctus Andreas est)25. Questa tradizione è attestata ancora nel Quattrocento, come testimoniano Poggio26, Veggio27 e Albertini28.

___________ 19 Ivi, 3, 43: Infra palatium Neronianum est templum Apollinis, quod dicitur Sancta

Petronilla, ante quod est basilica quae vocatur Vaticanum, ex mirifico musibo laqueata auro et vitro. Ideo dicitur Vaticanum, quia vates, id est sacerdotes, canebant ibi sua offi-cia ante templum Apollinis, et idcirco tota illa pars ecclesiae Sancti Petri Vaticanum vo-catur.

20 Ivi, 3, 85. 21 Ivi, 3, 190. 22 Ivi, 3, 116. 23 Ivi, 3, 383-384: beati vero Petri apostoli corpus accepit beatus Cornelius papa, et

cum magna devotione et reverentia posuit illud prope locum ubi crucifixus est, inter cor-pora sanctorum episcoporum, in templo scilicet Apollinis, in monte Aureo, in Vaticano palatii Neronis. Postea vero beati Silvestri papae Constantinus christianissimus impera-tor, rogatu eiusdem sanctissimi pontificis, cum magna devotione et diligentia, ut res ipsa docet, fecit ecclesiam beato Petro apostolorum principi ante templum Apollinis in Vaticano, cuius fundamentum ipse imperator prius fodit et asportavit inde XII cophinos ad honorem XII apostolorum. Cfr. ivi, 3, 396: Infra palatium vero Neronis est templum Apollinis, quod nunc vocatur Sancta Petronilla, in quo est reconditum corpus eiusdem virginis, ante quod est basilica Sancti Angeli, quae vocatur Vaticanum, mirifico mosibo laqueata auro et vitro. Ideo vero dicitur Vaticanum, quia vates, id est sacerdotes, anti-quitus canebant ibi sua officia, ante templum Apollinis; Ivi, 3, 437: Tunc cum ipse per loca singula prima Christo sacraria construxisset, Romae templum Apollinis, quod Vaticanum appellabatur, in divinum versum oraculum, beati Petri nomine dedicavit.

24 Ivi, 4, 41. 25 Ivi, 4, 133. 26 Ivi, 4, 235-236: «Templum Apollinis in Vaticano iuxta basilicam Beati Petri

translatum in Dei cultum servavit religio nostra». 27 Ivi, 4, 391-392: «Quoniam verum mentionem fecimus altaris Sanctae

Petronillae, sciendum est, templum illud ubi situm est, fuisse antiquum, nobile, mag-naque impensa et miro cultu, sicut adhuc reliquiae ostendunt, elaboratum, ac Apollini quidem. […] Ceterum, quia totus locus ipse, qui usque ad altare Sancti Michaelis, ve-tustum utique, protenditur, vestibulum fuit templi Apollinis, quod Sanctae Petronillae nomen accepit».

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Alcune fonti collocano il tempio vicino all’orphanotrophium, struttura si-tuata in Laterano nei pressi di quella schola cantorum, istituita da Gregorio I, che doveva trovarsi all’inizio dell’antica via Merulana, non lontano dalla Chiesa, ora non più esistente, di S. Matteo in Merulana29. Così nei Mirabilia leggiamo: In Orphanotrophio templum Apollinis30. Tale informazione, che è stata considerata «invenzione dell’autore»31, è riproposta fedelmente sia nelle Miracole32 sia in Magliab.33

Un leggendario tempio di Apollo nei pressi delle terme di Diocleziano è menzionato nei Mirabilia (In palatio Dioclitiani quattuor templa fuere, Ascle-pii et Saturni, Martis et Apollinis, quae nunc vocantur modii)34, nelle Miracole (In palazo Dioclitiani et Maximiani foro IIIIor templa, Asclepii et Saturni, Mar-tis et Apollinis, le quale se dico modia)35 e in Magliab. (Ad pergulum Dioclitiani fuerunt duo templa: scilicet Asclepii et Saturni, Martis et Apollinis)36.

Nei Mirabilia, inoltre, è citato un oracolo di Apollo nel rione Parione, nei pressi del cosiddetto Maiorentum, monumento da identificare probabilmente con i resti del Teatro di Pompeo (Ad concham Parrionis fuit templum Gnei Pompeii mirae magnitudinis et pulchritudinis; monumentum vero illius quod dicitur Maiorentum, decenter ornatum, fuit oraculum Apollinis)37. La medesi-ma notizia si rinviene anche nella Graphia38 e in Rosell39.

Di un altro immaginario tempio di Apollo, collocato nei pressi della Chie-sa di San Lorenzo in Panisperna, troviamo infine menzione nella Graphia (In thermis Olimpiadis, ubi fuit assatus beatus Laurentius, fuit templum Apolli-nis)40, nelle Miracole («In thermis Olimpiadis, dove fu arostito sancto Lauren-tio, fo templum Apollinis»)41 e in Magliab. (Ad thermas Olympiadis fuit coctus beatus Laurentius, ante templum Apollinis, id est ad Sanctum Laurentium Pa-nispernae)42. Ricordiamo, inoltre, che Leto nel suo rimaneggiamento, risalente ___________

28 Ivi, 4, 482: «Templum Apollinis in Vaticano, ubi nunc est oratorium Sanctae

Petronillae virginis, coniunctum ecclesiae Sancti Petri». 29 Cfr. Dyer 2008, 28-29; Davis 1995, 85-86. 30 Valentini-Zucchetti 1940-1953, 3, 59. 31 Accame-Dell’oro 2004, 169 n. 184. 32 Valentini-Zucchetti 1940-1953, 3, 124. 33 Ivi, 4, 147. 34 Ivi, 3, 60. 35 Ivi, 3, 124. 36 Ivi, 4, 148. 37 Ivi, 3, 49. Cfr. anche Accame-Dell’oro 2004, 155 n. 130. 38 Valentini-Zucchetti 1940-1953, 3, 88. 39 Ivi, 3, 191. 40 Ivi, 3, 61. 41 Ivi, 3, 124. 42 Ivi, 4, 148.

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agli anni 1476-1488, del Catalogo delle quattordici regioni di Roma aggiunge-rà nel rione Alta semita l’indicazione «Templum Apollinis et Clatrae»43, e in quello Flaminio scriverà: «Aedis antiqua Apollinis cum lavacro»44.

Nelle fonti antiche, infine, risulta complessa anche la localizzazione del tempio di Apollo sul Palatino, i cui resti furono rinvenuti solo nella seconda metà dell’Ottocento nella medesima area in cui si trovava anche la casa di Augusto, legata al culto di quella divinità. Se infatti Solino (1,18) indica una area Apollinis su tale colle, le due redazioni del Catalogo augusteo delle quat-tordici regioni di Roma (Curiosum 45 e Notitia46) registrano una non altrimen-ti nota aream Apollinis et Splenis47, che poi viene collocata nei Mirabilia nei pressi della Chiesa di San Saba, sul piccolo Aventino (ubi est Sanctus Saba, fuit area Apollinis et Splenis)48. La medesima notizia ricorre nelle Miracole49 e in Magliab.50, dove però si riconnette anche l’area Apollinis a un templum Apollinis51. Leto, infine, registra una aedes Apollinis sul Palatino sulla scorta di Plin. nat. 34,14.52

La disamina di queste fonti mostra chiaramente che nella topografia della Roma medievale ci fu un alto tasso di reduplicazione del tempio di Apollo.

2. Alla ricerca del tempio di Apollo nel Quattrocento

Quando si affacciò sulla scena il fondatore dell’antiquaria, Biondo Flavio, la questione della localizzazione dell’antico tempio di Apollo, come abbiamo visto, si presentava alquanto difficile da risolvere. Nella Roma instaurata (1446) egli collocò erroneamente il templum Apollinis nei pressi dell’antico Stadio di Domiziano, nell’attuale Piazza Navona. L’umanista, infatti, dopo aver letto in Livio che il tempio si sarebbe trovato nei pressi dei prata Flami-nia53, si lasciò trarre in inganno dalla toponomastica medievale, che già a par-

___________ 43 Ivi, 1, 216. Cfr. Hackens 1960-1961, 185-196. 44 Ivi, 1, 229. 45 Ivi, 1, 90. 46 Ivi, 1, 165. 47 Cfr. Richardson 1992, 31. 48 Valentini-Zucchetti 1940-1953, 3, 58. 49 Ivi, 3, 123. 50 Ivi, 4, 110: Unde Roma tenuit a principio a silva areae Apollinis tunc temporis, et

nunc, ut imaginatur, Sanctus Saba, usque ad supercilium scalarum Caci. 51 Ivi, 4, 147: Ubi Sanctus Saba, fuit templum Apollinis; et ibi stetit eius area idest

Apollinis et Splenis, et silva areae Apollinis. 52 Ivi, 1, 236. 53 Raffarin 2012, 175-177 (Roma inst. 3,39): «Quae enim carnis privii extremo

Iovis die ipso in circo [scilicet Flaminio] eduntur spectacula, originem habuisse viden-tur ab Apollinaribus ludis, de quibus Macrobius in Saturnalibus sic scribit: [...]. Qua

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tire dall’ottavo secolo indicava come Circus Flaminius il luogo dello Stadium Domitiani, denominato ‘In agone’ nel Quattrocento54. A livello terminologico contribuirono all’errore, da una parte, la supposta connessione tra il nome moderno ‘Agone’ e gli antichi agones in onore di Apollo, e dall’altra la vici-nanza della chiesa di Sant’Apollinare, che si erge nella parte Nord dell’antico Stadio di Domiziano55. Se il testo di Livio, infatti, poteva apparentemente con-fermare l’identificazione dei prata flaminea con il Circus Flamineus, la pre-senza in quel luogo di una chiesa dedicata a S. Apollinare rappresentò la con-ferma, per Biondo, della riconversione di un culto pagano (Apollo) in uno cristiano (Apollinare). A monte di questa ricostruzione vi sarebbe, secondo un’esplicita affermazione dell’umanista, «Pandulphus Lateranensis ecclesiae hostiarius», vale a dire Pandolfo d’Alatri, il quale allestì una delle redazioni del Liber pontificalis:

Pandulphus autem Lateranensis ecclesiae hostiarius, quod Petrus omiserat biblio-thecarius, habet Hadrianum primum pontificem Romanum aedificasse Sancti Apollinaris ecclesiam, ubi prius Apollinis aedes fuit. Quod quidem nulla alia ratione factum videtur, quam ut celebri tunc in urbe loco Apollinaris et loci et aedis appellatio, a ritu gentilium celebris, tractu temporis in Sancti Apollinaris praesulis Ravennatis memoriam verteretur. Sic in Pantheone proximo illi loco, haud diu antea omnium

___________

autem ratione vel coniectura ducti affirmaverimus esse ludorum Apollinarium simili-tudinem quae nunc etiam praedicto tempore servatur, libet ostendere. Vidimus ex Titi Livii tertio, senatum fuisse advocatum in prata Flaminia, ubi postea fuit aedes Apollinis et iam tum Apollinarem appellabant». Cfr. Liv. 3,63: Consules ex composito eodem biduo ad urbem accessere senatumque in Martium campum evocavere. Ubi, cum de rebus a se gestis agerent, questi primores patrum senatum inter milites dedita opera terroris causa haberi. Itaque inde consules, ne criminationi locus esset, in prata Flaminia, ubi nunc aedes Apollinis est – iam tum Apollinare appellabant – avocavere senatum.

54 Per la questione si vedano Raffarin 2017, 249-253; Marcellino 2014, 166-170; Muecke 2011, 282-283. Sul cambiamento del nome dello Stadio di Domiziano si veda-no Sommerlechner 1999, 346; Virgili 1999, 341-343. Si ricordi anche che nell'Ordo Benedicti il Teatro di Marcello viene indicato sempre con la medesima denominazione di circus Flammineus. Sulla questione cfr. Tortorici 1989-1990, 32 n. 10. Biondo si sof-ferma sulla topografia dei ludi Apollinares anche in Roma inst. 1,9 (Raffarin 2005, 25, 27).

55 Raffarin 2012, 175 (Roma inst. 3,38): «De mutatione nominis circi Flaminii in Agonem, parum admirari debebunt qui noverint agonis verbum commune esse cuili-bet actioni quocunque in loco publice instituatur. Et in tanta tamque obscura omnium appellationum mutatione quantam fecerunt Romae urbis aedificia, haec satis videtur toleranda, cum locus ipse, nedum florente Roma, multorum ludorum spectaculorum-que agones habuerit. Sed nostris quoque temporibus, si quis attente consideraverit, ludorum quoque Apollinarium similitudinem repraesentet».

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idolorum, quibus id templum erat dedicatum, cultus in omnium Christi domini marti-rum memoriam fuerat mutatus56.

La frase «quod Petrus omiserat bibliothecarius» indica chiaramente che Biondo conobbe non solo la versione ridotta di Petrus Guilielmus del Liber Pontificalis, che poté leggere nel codice della Biblioteca Apostoloca Vaticana, Vat. Lat. 376257, ma anche quella più ampia di Pandolfo, giacché si rese conto dell’omissione fatta dal primo. Nella redazione di Pandolfo, infatti, troviamo un accenno all’esistenza della Chiesa di Apollinare al tempo di Papa Adriano (Sed et in basilica beati Apollenarii simili modo vela de octapolum optulit nu-mero X et linea X) 58 , dal quale l’umanista dedusse che la costruzione dell’edificio fosse da ascrivere ad Adriano I. Notiamo però non solo che in questa fonte non si parla del tempio di Apollo, ma anche che in nessun altro documento si legge che Papa Adriano I fece demolire una struttura per far posto alla chiesa di Apollinare59. Per quale ragione quindi Biondo scrive: «ubi prius Apollinis aedes fuit»?

Nel passo della Roma instaurata testé citato, in realtà, pare si debba di-stinguere tra un elemento derivante dal Liber Pontificalis («Hadrianum pri-mum pontificem Romanum aedificasse Sancti Apollinaris ecclesiam») e una leggenda sulla riconversione di un luogo di culto pagano. Per affrontare la questione ci viene in soccorso un passo del Liber pontificalis ecclesiae Raven-natis, una sorta di biografia degli arcivescovi di Ravenna redatta da Andrea Agnello nel IX secolo, nella quale si legge una breve vita di Apollinare, disce-polo di San Pietro martirizzato sotto Vespasiano. Ricaviamo così che, dopo la sua iniziale permanenza a Roma, Apollinare si trasferì a Ravenna, dove tem-pla deorum subvertit et simulacra comminuit60, per poi essere condotto nei Balcani e in Grecia, donde avrebbe fatto finalmente ritorno a Ravenna. In questa città i cristiani lo avrebbero accolto in festa, ma ben presto egli sarebbe ___________

56 Raffarin 2012, 177 (Roma inst. 3,40). 57 Cfr. Clavuot 1990, 253-259, 348-349, 353. Sul manoscritto appartenuto a Biondo

si fonda l'edizione di Přerovský 1978. 58 Duchesne 1886, 1, 504. Occorre ricordare che è proprio questa la più antica

menzione della Chiesa di Sant’Apollinare a nostra disposizione. Nella cosiddetta De-scrizione delle mura di Roma del cod. Einsiedlense si menziona la medesima chiesa, senza ulteriori indicazioni. Cfr. Valentini-Zucchetti 1940-1953, 2, 180.

59 Si deve aggiungere, per completezza, che dagli scavi della parte Nord dello Sta-dium Domitiani, in via Agonale, negli anni ’30 del Novecento è emersa una statua di Apollo liceo, che doveva collocarsi probabilmente sull’ingresso dello Stadio. Non ab-biamo tuttavia elementi che ci consentano di supporre che a Roma si fosse mantenuto il ricordo di tale statua durante i secoli medievali.

60 Mauskopf Deliyannis 2006, 148. Per la ricezione del Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis cfr. Vasina 1974, 217-267.

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divenuto bersaglio degli strali dei pagani (Quem saevientes pagani post diutius caesum nudis pedibus super prunas stare fecerunt et alia multa tormenta in eum exercuerunt)61. Nel racconto troviamo a questo punto un elemento che ci aiuta a far luce sull’affermazione di Biondo, perché leggiamo che Apollinare, in risposta, avrebbe demolito con le sue pregherie un tempio di Apollo: Tem-plum Apollinis, quod ante portam que vocatur Aurea, iuxta amphiteatrum, suis orationibus demolivit62. La notizia della distruzione di un tempio di Apollo a opera di Sant’Apollinare potrebbe aver contribuito a far nascere l’idea che la Chiesa dedicata a quest’ultimo fosse sorta in un’area di culto apollineo. Oc-corre notare a tal proposito che il Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis, che è la più antica fonte in cui si istituisca un esplicito collegamento tra Apollo e Apollinare, fu ben noto a Biondo, il quale se ne servì per le sue Decades63. Sebbene non si possa escludere che con il trasferimento, a partire dall’VIII secolo, del culto di Apollinare a Roma la leggenda relativa alla distruzione di un tempio pagano si fosse diffusa e innestata già prima di Biondo anche nella città eterna, dobbiamo sottolineare che solo grazie al recupero del passo di Livio (3,63) a opera del Forlivese il tempio di Apollo divenne oggetto di ricer-ca archeologica e fu collocato (erroneamente) nei pressi di quello che al tem-po era chiamato ‘Circo Flamineo’.

La ricostruzione di Biondo avrebbe avuto ben presto favorevole accogli-mento nell’antiquaria romana. Grazie alle ricerche di Luisa Capodoro sap-piamo che Giovanni Tortelli lesse con attenzione la Roma instaurata per redi-gere la voce Rhoma della sua Orthographia64. Il Tortelli incominciò a lavorare alla sua opera, come è stato chiarito, già nel 1445, ma essa fu pubblicata tra il 1451 e il 145265. In assenza di studi particolareggiati, gli studiosi giustamente si sono mostrati cauti in merito ai rapporti tra l’opera di Biondo e quella del Tortelli66. Ora però proprio la ricostruzione della topografia del tempio di Apollo offre un ulteriore elemento per definire la direzione del flusso di in-formazioni, perché la voce circus dell’Orthographia deriva chiaramente dalla Roma instaurata, al cui autore Tortelli allude con le parole «ex quibus non-nulli certissime affirmare volunt»:

___________ 61 Mauskopf Deliyannis 2006, 149. 62 Ibid. 63 Cfr. Buchholz 1881, 26-27. 64 Cfr. sulla questione Capoduro 1999, 14-17. 65 Donati 2006, 6-11. 66 Della Schiava 2016, 111: «Rimane ora da domandarsi se e in che direzione pos-

sano essere avvenuti altri scambi tra le due opere al di fuori dei confini della voce Rhoma. In altre parole, va capito se Biondo avesse accesso a schede dell’Orthographia prima della pubblicazione della Roma instaurata o se Tortelli abbia fruito dell’opera antiquaria del forlivese anche per altri luoghi della sua enciclopedia».

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Circus flamineus ideo dictus est, quod in pratis flamineis costructus fuit. Unde Livius itaque inde consules, ne criminationi locus esset, in prata flaminea, ubi nunc aedes Apollinis est, iam tum apollinarem appellabant, advocavere senatum. Et in eo-dem libro ea inquit omnia in pratis flamineis concilio plebis acta quae nunc circum flamineum appellant, ex quibus nonnulli certissime affirmare volunt eum flamineum circum fuisse, qui nunc quoque Agon vocitatur, iuxta quem teste Pandulpho latera-nensis ecclesiae hostiario Hadrianus primus romanus ponti(fex) in aede Apollinis ecc-lesiam consecravit Apollinaris martyris et praesulis Ravennatis, ut nominis similitudi-ne memoriam idolorum confunderet. Nanque in eo circo apollinaria in honorem Apollinis celebrari consueverant, dicente Macrobio de saturnalibus: bello punico Apollinares ludi ex sybillinis libris primum sunt instituti suadente Cornelio Ruffo de-cemviro. Et infra subdit: Inque eam rem duodecim milia aeris praetori et duas hostias maiores dari decemviris praeceptum, ut Graeco ritu hisce hostiis sacrum facerent Apollini bove aurato, et capris duabus albis auratis. Latonae bove foemina aurata, lu-dos in circo populus coronatus spectare iussus67.

La ricerca antiquaria degli umanisti si interseca, come ebbe modo di mo-strare Gustina Scaglia in un importante e ancora fondamentale contributo del 1964, con la storia delle raffigurazioni quattrocentesche della città eterna. Mettendo a raffronto i dati desumibili dalla carta di Alessandro Strozzi (1474) con il testo della Roma instaurata di Biondo Flavio la studiosa, in particolare, ha ipotizzato che il modello del disegno strozziano fosse una mappa concepita per accompagnare e illustrare l’opera di Biondo, oppure -ipotesi alternativa- un foglio sciolto, di cui il Forlivese si sarebbe servito per la stesura del suo la-voro68. Pur condividendo l’ipotesi di un legame tra la Roma instaurata e la mappa di Strozzi, secondo J.M. Huskinson «it is more likely that the map de-pends from Roma Instaurata than from a plan used by Biondo to help him write it»69. Gli studiosi però in generale sono concordi sul fatto che sia la carta di Strozzi sia le tre vedute di Roma realizzate dal miniaturista Pietro del Mas-saio traggano origine da un archetipo comune, che avrebbe recepito, in una maniera non ancora chiarita, le nuove acquisizioni della Roma instaurata70. Ai fini del nostro discorso è importante notare che nella carta di Strozzi, in bas-so, proprio in coincidenza con la piega tra il verso e il recto del foglio, a sini-___________

67 Cito dalla copia personale del Tortelli: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica

Vaticana, Vat. Lat. 1478, c.115v. Tortelli fece uso delle ricerche di Biondo anche per l’identificazione del Teatro di Pompeo. Cfr. Muecke 2017, 268-269.

68 Scaglia 1964, 154. 69 Huskinson 1969, 147, n. 81. Dello stesso parere è anche Weiss 1969, 92 n. 2. 70 Del modello utilizzato da Biondo sarebbero copia le tre vedute di Roma disegna-

te da Pietro del Massaio (cfr. infra n. 82) e quella di Alessandro Strozzi del 1474 (Fi-renze, Biblioteca Medicea Laurenziana, cod. Redi 77, cc. VIIv- VIIIr), descritta da Fru-taz 1962, 1, 140-142; 2, tav. 159. Cfr. Scaglia 1964, 139; Bertolini 1994, 448; Cantatore 2005, 175; Ribouillault 2010, 144.

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stra della «Tore Sanguigna», è raffigurata la chiesa di Sant’Apollinare, sotto la quale si legge la didascalia, in volgare, «S. Apollinario»71 e ancora più sotto: «T. Apolinis». Dal momento che in latino leggiamo il genitivo «Apolinis», è ragionevole ipotizzare che «T.» sia un’abbreviazione per «Templum». Alla lu-ce di quanto detto sopra è chiaro che Strozzi collocò il tempio in questione nelle immediate vicinanze dell’attuale Piazza Navona grazie alla ricostruzione di Biondo, alla quale avrebbero fatto ricorso in seguito sia Francesco Albertini nell’Opusculum de mirabilibus novae et veteris urbis Romae (1510)72 sia An-drea Fulvio73, il quale ricorrendo ad Ascon. tog. cand. 90C mise in discussione l’identificazione tradizionale ed errata della zona detta ‘in Agone’ con il Cir-cus Flaminius. Nel capitolo De Circo quem nunc Agonem nominant delle sue Antiquitates urbis egli mostra, infatti, come il cosiddetto Circo in Agone non sia quello antico denominato Circus Flaminius74, mentre nel capitolo De circo Flaminio et eius ornamentis colloca più correttamente l’antico Circus Flami-nius nei pressi della Chiesa di Santa Caterina dei Funari75. Nella Pianta di Roma antica di Giovanni Battista Palatino, inserita nella Urbis Romae topo-graphia di Bartolomeo Marliano (Roma 1544), per la prima volta il Circo Flaminio e l’adiacente templum Apollinis saranno collocati nei pressi dell’isola tiberina76. Finalmente nel 1553, nella pianta di Roma antica disegnata da Pir-

___________ 71 La Basilica di Sant'Apollinare, ubicata nelle vicinanze di Piazza Navona, si erge

nel luogo dove già nell'ottavo secolo si trovava una chiesa stazionaria. La precedente struttura dell'edificio medievale fu tuttavia del tutto ristrutturata nel 1588 sotto Grego-rio XIII (1572-85). Sulla chiesa si veda Claussen 2002, 93-109.

72 Valentini-Zucchetti 1940-1953, 4, 474: «Pandulphus, Lateranensis hostiarius ec-clesiae, scribit Hadrianum pontificem primum eo aedificasse ecclesiam Sancti Apollinaris in eo loco ubi prius in circo Flammineo Apollinis aedes fuit […]».

73 Cfr. Raffarin 2017, 253-256. 74 Fulvius 1527, 56r: «Extat hodie pulcherrima Circi forma in medio nunc centro

urbis quem Agonem nominant, quod in eo olim agonalia fierent appellatus. […] Insedit autem iam ferme omnium mentibus pertinacissima opinio hunc esse circum flamminium ex verbis Livii ita scribentis: in prata flamminia, ubi nunc est aedis Apollinis iam tunc apollinarem appellabant, convenere. Quam opinionem secutus Pandulfus lateranensis ecclesiae ostiarius scribit Hadrianum primum condidisse templum Apollinaris martyris iuxta circum flam(imium). Quae omnia Pediani verba destruere et convellere videntur». La discussione del passo di Asconio si trova in Fulvius 1527, 55r.

75 Fulvius 1527, 54v-55r: «De circo autem flam(inio). Pertinacissima vulgi adhuc extat opinio, quod is fuerit quem hodie Agonem nominant. Eruditiores vero non hunc, sed eum fuisse asserunt, cuius adhuc extat forma, et veterum sedilium signa, ubi in medio nunc est templum sanctae Catherinae, ubi hodie torquentur funes quod prius dicebatur monasterium D. Rosae in castro aureo».

76 Frutaz 1962, 1, 56-57; 2, tav. 21.

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ro Ligorio e pubblicata a Roma nel 1553 da Michele Tramezzino verranno raffigurati correttamente il Circus agonalis, nella originaria posizione dello Stadium Domitiani, e il Circus Flaminius nei pressi del tempio di Apollo, non lontano dall’isola tiberina77.

3. Antiquaria e propaganda antiturca

Nel 1457 Biondo, basandosi sulle ricerche topografiche condotte più di un decennio prima78, nel secondo libro della Roma triumphans descrisse i giochi avvenuti quell’anno nell’attuale piazza Navona per celebrare la vittoria cri-stiana di Belgrado sui Turchi del 1456:

Ludi Apollinares Senatus decrevit ut in perpetuum voverentur, quos ad nostram quoque aetatem pervenisse constat. Siquidem hi sunt quos per extremos carnis privii dies, in Circo Flaminio, ubi nunc Agonis est appellatio, fieri quotannis videmus. Principio enim mutationis prudenter factae a gentilium superstitione ad ritus Christia-nos, ut aliquid Apollinarium appellationis ipsi ludo remaneret prope sancti Apollinaris ecclesiam, ea etiam ratione institutam, is locus ludis est retentus, nec multum variat tempus, quando hi sicut et illi ad finem Februarii ut plurimum eduntur et quando hos-tiae illorum, sicut decuit, sunt omissae, retinet consuetudo aliquod victoriae simulac-rum faciendi, sicut eos victoriae ergo inchoatos Livius asseruit79.

I giochi del Carnevale, secondo l’umanista, discenderebbero direttamente da quelli antichi dedicati ad Apollo: vi sarebbe una continuità sia terminolo-gica sia topografica, perché i festeggiamenti del presente si svolgerebbero, non diversamente da quelli dei Romani, negli ultimi giorni del Carnevale nel Cir-co Flaminio, chiamato comunemente ‘Agone’80. Biondo mette anche qui in relazione questo luogo con la adiacente chiesa di Sant’Apollinare, costruita a suo giudizio perché si tramandasse il nome dei giochi apollinei («ut aliquid Apollinarium appellationis ipsi ludo remaneret»). L’umanista elabora così una singolare teoria, ricongiungendo i giochi del passato con quelli del pre-sente attraverso il filo rosso della vittoria: quelli di Apollo, come si legge in Livio, sarebbero stati iniziati per ottenere la vittoria durante la seconda guerra punica, mentre durante i giochi moderni si manterrebbe la «consuetudo ali-quod victoriae simulacrum faciendi». In tal modo, la ricostruzione effettuata nella Roma instaurata diventa la base per un discorso di propaganda antiturca ___________

77 Ivi, 1, 60-61; 2, tav. 25. 78 Secondo Angelo Mazzocco la descrizione dei giochi del Carnevale sarebbe stata

scritta da Biondo dopo la stesura di un passo del VII libro in cui si parla di Hunyadi. Cfr. Mazzocco 1979, 2-4.

79 Pincelli 2016, 274 (= Blondus 1559, 47D). 80 Si osservi però che secondo Livio i giochi in onore di Apollo avrebbero avuto

luogo nel mese di luglio e non nel periodo che corrisponde al Carnevale romano.

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con una descrizione particolareggiata dei festeggiamenti dedicati ai tre vinci-tori di Belgrado: il frate francescano Giovanni da Capestrano, il voivoda di Transilviana Giovanni Hunyadi, e il legato pontificio Juan Carvajal:

Quale proximis diebus fuit spectaculum omnibus nobis gratissimum, qui ecclesias-ticae Romanae rei publicae membra curiam sequimur Romanam, cum in eodem circi Flaminii Agone proelii similitudo quaedam fuit, quod praeclarissimum aeternaque dignum memoria aestate proxima gestum est ad Danubium qua fluvius influit Savus, cum Maumeth turchorum imperator, supra centum milia in exercitu habens, ad Bellogradum oppidum aliquandiu oppugnatum machinisque et bombardis prope solo aequatum, fusus et suis quibusque melioribus ad sexdecim milia occisis fugatus, bom-bardas et vim paene infinitam machinamentorum ac armorum amni terraque amisit. Laetum quippe nobis et dulcissimum fuit inspicere personatum quendam Iohannem Carvaial, Hispanum cardinalem sancti Angeli, indumento et ornamentis referentem Christianorum et Romani pontificis exercitui in illam ducendo barbariem praeesse. Sed laetius erat videre alia in persona Iohannem Capistraneum, ordinis sancti Francisci fratrem, qui multis continuata annis opinione sanctitatis tanto impleta mira-culo milites adduxerit Iesu Christi vexilla secutos, qui, celeberrimo Iohanne Conyat Vayuoda Transilvano duce, pauca hominum milia, supradictam in barbaris caedem edidere81.

Nei decenni successivi, l’area in cui si svolse lo spettacolo dei ‘tre Giovan-ni’ narrato da Biondo sarebbe diventata un luogo centrale della propaganda antiturca. Possiamo prendere in esame a questo punto un aspetto di notevole importanza di un’altra carta di Roma, quella di Pietro del Massaio, la quale, come abbiamo detto, secondo gli studiosi discenderebbe dallo stesso archeti-po di quella di Alessandro Strozzi. Disponiamo di tre vedute di Roma dise-gnate da questo miniaturista intorno al 147082. In questa sede ci occuperemo del codice di Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Latin 4802, testimone ___________

81 Pincelli 2016, 276 (= Blondus 1559, 47D-48E). La ricezione umanistica della bat-

taglia di Belgrado è oggetto di un mio lavoro di imminente pubblicazione: “Auctores victorie tres Ioannes habiti”. Enea Silvio Piccolomini, Biondo Flavio e la celebrazione della vittoria di Belgrado (1456). Per la descrizione dei giochi cfr. Mazzocco 2017, 69-70.

82 Le tre vedute di Roma disegnate da Pietro del Massaio e presenti in codici della Geografia di Tolomeo sono: Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Lat. 4802 (dopo 1475); Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 277, c. 131r (anno 1473); Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 5699, c. 127r (anno 1469). Nel codice Urb. Lat. 277 sono assenti la chiesa di S. Apollinare (sostituita da quella di S. Agostino, di aspetto assai simile, ma con campanile e una struttura adia-cente sul lato destro dello spettatore) e la didascalia relativa al tempio di Apollo. Nel codice Vat. Lat. 5699 è raffigurata la sola chiesa di Sant’Apollinare, con didascalia, ma con la medesima forma della chiesa di Sant’Agostino dell’Urb. Lat. 277. Per i codici di Pietro del Massaio cfr. Duval-Arnould 2002, 222-230.

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della Geografia di Tolomeo, che contiene alla c. 133r un veduta di Roma, nella quale, in corrispondenza della Chiesa di Sant’Apollinare, si legge: «S(anctus) apollinaris u(b)i mansit maometus». Un’ipotesi tanto fantasiosa quanto inat-tendibile è stata formulata da Hülsen, secondo il quale la didascalia sarebbe da ricollegare alla venuta a Roma, nel novembre del 1490, del sultano Bayezid II, figlio di Maometto II. Hülsen, per spiegare la scritta testè citata, ipotizzò che il sultano avesse dimorato nella Chiesa di Sant’Apollinare e che il ms. fos-se stato vergato dopo il 149083. Sappiamo adesso però che tale ricostruzione è infondata, perché l’autore della carta, Pietro del Massaio, morì nel 148084. Gu-stina Scaglia, da parte sua, per spiegare la curiosa didascalia, ha chiamato in causa una leggenda medievale riguardante Maometto e Apollo85, che era stata analizzata, seppur sommariamente, in uno studio di Alessandro D’Ancona. Questi, infatti, aveva raccolto alcuni passi di autori medievali, tutti di area francese, nei quali si fa riferimento a saraceni e pagani che avrebbero adorato rispettivamente Apollo e Maometto86. Pertanto, secondo l’ipotesi della Sca-glia, la didascalia latina dovrebbe alludere, in maniera vaga, a questa connes-sione tra Apollo e Maometto, della quale però non abbiamo alcuna testimo-nianza nelle fonti che trattano di Roma. Dobbiamo osservare, inoltre, che nel-la didascalia del codice parigino viene indicato Apollinare e non Apollo, co-me invece ci si aspetterebbe dalla ricostruzione della Scaglia.

Alcune fonti della prima metà del Cinquecento ci aiutano a far luce sulla storia dei luoghi e dei monumenti di cui ci siamo occupati finora. Appren-diamo da Li triomphi fatti in Roma il giouedi grasso per la festa di Agone (1539) che durante il Carnevale il popolo si riuniva alle tre del pomeriggio in Campidoglio, da dove partiva una processione per «la via di Campo dei Fiori et Pellegrino, et via florida fino a Santo Petro, representandosi a S. Beatitudi-ne et di lì tornarsi per la via di de li pontifici fino a s. Pantaleone dove entra in Agone»87. I trombettieri erano seguiti da uomini che a loro volta guidavano alcuni prigionieri. Dietro di loro procedevano i giovani dei tredici rioni di Roma «sopra vagi et bellissimi cavalli guarniti alla antica, et essi vestiti simil-

___________ 83 Hülsen comunicò per lettera questa sua ipotesi, ma poi nella bibliografia si è in-

genereta confusione sulla fonte. Cfr. K.H. Busse 1930, 119 n. 1. 84 La questione è ricostruita dettagliatamente da Duval-Arnould 2002, 229-230. 85 Scaglia 1964, 139 n. 7. La studiosa accenna altresì alla possibilità che la di-

dascalia faccia riferimento alla venuta a Roma degli ambasciatori del Sultano che ac-compagnarono l’imperatore Sigismondo durante la sua visita del 1433-1434.

86 D’Ancona 1889, 271 n.1. 87 L'opuscolo, stampato a Roma da Antonio Blado nel 1539, non è corredato di

numerazione. Il testo occupa tre fogli a stampa, escluso il frontespizio. Per la stampa cfr. Edit16, CNCE 24520.

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mente ala antica». Infine, si potevano scorgere i tredici carri trionfali, uno per ogni rione di Roma, il decimo dei quali aveva per tema la Mezzaluna:

Due tempi edificati erano sopra il decimo carro, et sopra la porta duno scritto era Bolonae, in laltra porta delaltro tempio da mano sinistra, si leggeva BONI EVENTVS, et innanza ali tempi erano due colonne a quello dela sinistra una statua, quale teneva in mano una lancietta, demostrando voler lanciarla, et alli suoi pie, era scritto EXPVGNA PERTINACEM POENVM, et parimente a quella che stava dalla destra era una altra statua che pure teneva unaltra lancietta, in el medemo modo, et alli suuo pie pendeva scritto, FERI IMMANES SCYTHAS.

Questa rappresentazione del Carnevale trova riscontro anche ne Il vero progresso della Festa d’Agone et di Testaccio celebrata dalli S. Rom. Nel Giovedì et Lunedì di Carnovale dell’anno MDXLV come solevano fare li antichi Rom. Col vero significato delli carri triomphali88, grazie al quale apprendiamo che sotto Paolo III i tredici rioni di Roma furono rappresentati da un equivalente numero di carri, ai quali si aggiungeva quello del Papa. Il tema del carro del rione del Campo Marzio era appunto quello della Mezzaluna:

Il Carro di Campo Marzo secondava questo [scilicet del Rione di Ponte], et sopra esso erano statue vestite alla turchesca, con bandiere in mano, nelle quali era dipinta la Luna. All’incontro erano altri in habito italiano, che li levavano le bandiere per forza, et erano su e quadri depinti eserciti affrontati insiemi, dove si vedea li italiani riportar li trofei turcheschi. La luna si è la insegna del Turco, et ha un’altro [sic!] significato, che è instabile et hor cresce et hor minuisce. Sperase poi che è cresciuta tanto tempo, che abbia anchor ad haver vicissitudine de diminutione. Perché secondo li astrologi insignia sunt ex natura decimae domus, et importano la qualità del stato, della famiglia, ò gente, ò luogo de quali son l’arme. Delle arme et insegne tolte alli nimici, antiqua-mente se statuivan li Trophei ad perpetuo nome, honore et gloria del statuente89.

Mentre ne Li trionfi fatti in Roma il giouedi grasso per la festa di Agone la processione fa ingresso in Agone dal lato Sud («fino a s. Pantaleone dove en-tra in Agone»), ne Il vero progresso della Festa d’Agone et di Testaccio il per-corso tracciato prevede una penultima tappa a Nord di Agone, nella piazza di Sant’Apollinare90. Non è da escludere che presso la Chiesa di Sant’Apollinare ___________

88 Lo scritto si trova a Roma, Archivio Storico Capitolino, cred. 20, t. 108, 566-592.

Della stampa del 1545 si è conservato solo il frontespizio presso la Biblioteca Naziona-le Marciana. Cfr. Edit16, CNCE 75501.

89 Roma, Archivio Storico Capitolino, cred. 20, t. 108, 579-580. 90 Ivi, 588-589: «Quale [scilicet festa] partita di Campidoglio al modo narrato ven-

ne per la strada nuova su la piazza della Pigna, et de li Cesarini, et poi alle case della Valle, et gionti che furno dalli Massimi, voltorno verso Campo di Fiore, et de li intror-no nella piazza Farnese, dove vi era la Santita di Nostro Signore nel suo Palazzo, in-sieme con molti Reverendiss. Cardinali […] et circondata che hebbero detta piazza,

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già negli anni ‘70 del Quattrocento, ai quali risale la carta di Pietro del Mas-saio, avessero luogo processioni di questo tipo con «statue vestite alla turche-sca» e «trofei turcheschi». Nell’ambito di questa ipotesi la didascalia «S(anc-tus) apollinaris u(b)i mansit maometus») potrebbe alludere alla topografia del Carnevale romano, che già nel 1457, come apprendiamo dalla Roma trium-phans, aveva previsto una rievocazione con attori che impersonavano il ruolo dei tre vincitori della battaglia di Belgrado contro l’esercito di Maometto II.

La storia delle identificazioni del tempio di Apollo costituisce un esempio significativo dello stretto rapporto che intercorre tra il processo di riappro-priazione umanistica dell’antichità e le nuove e sempre più urgenti istanze della propaganda antiturca negli anni successivi alla Caduta di Costantinopo-li. Per un errore dovuto, in gran parte, alla toponomastica medievale, che chiamava ‘Circo Flamineo’ l’antico Stadio di Domiziano, Biondo collocò il tempio di Apollo nei pressi della Chiesa di Sant’Apollinare, lasciandosi trarre in inganno sia dalla somiglianza del nome della divinità pagana con quello di Apollinare sia da un resoconto leggendario, di matrice ravennate, sui miracoli compiuti da quel santo. Alla fine degli anni ’50 del Quattrocento egli nella Roma triumphans innestò un nuovo discorso di propaganda antiturca sulla sua ricostruzione topografica, che nel frattempo aveva avuto ampia fortuna ed era stata recepita anche da Giovanni Tortelli. Mentre la carta di Alessandro Strozzi recepisce solo la componente antiquaria del lavoro di Biondo, quella di Pietro del Massaio sembra dare testimonianza anche del legame, simbolico e apotropaico, tra la chiesa di Sant’Apollinare e Maometto II, che poi sembra trovare riscontro nelle rappresentazioni e processioni del Carnevale nel Cin-quecento. Le tappe di questo affascinante percorso offrono un esempio con-creto non solo della complessità della ricerca antiquaria, che dal settore della filologia ci ha condotti in quelli dell’archeologia e della cartografia, ma anche della restaurazione dell’antichità perseguita da Biondo, che nell’antica Roma additò un modello per la res publica Christiana minacciata dall’avanzata ot-tomana.

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andorno nella strada di Corte Savella, et de li al palazzo del Reverendiss. Cardinale Santa Fiore, et poi in Banchi, et svoltorno per la strada de l’Imagine di Ponte verso Santo Simeone, et de li alla piazza di S. Apollinare, et ivi introrno nella piazza d’Agone, et circondatala più volte in battaglione, et essendo già appresso le 24. Hore partirno, e ciascuno si ritornò a casa sua».

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GIUSEPPE MARCELLINO

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«Commentaria Classica» 5, 2018, 81-91. ISSN 2283-5652 ISBN 9788894227154

Tordi, pappagalli, venti anomali e botti che rotolano: proverbi greci vecchi e nuovi nelle prefazioni aldine

LUIGI SILVANO

A poco più di quarant’anni dall’edizione allestita da Giovanni Orlandi1, due nuove e benemerite pubblicazioni ripropongono all’attenzione degli stu-diosi di umanesimo, e più in generale dei lettori colti, le prefazioni contenute nelle edizioni greche di Aldo Manuzio: la prima in ordine cronologico, corre-data di traduzione inglese, è quella curata da Nigel G. Wilson per la I Tatti Renaissance Library; la seconda, nella sola traduzione italiana, da Claudio Bevegni per la Biblioteca Adelphi2.

Gli spunti che si possono ricavare dai testi qui antologizzati sono innume-revoli, sia sul piano della ricostruzione storico-culturale sia su quello lettera-rio e filologico. Un tema su cui meriterebbe soffermarsi, ad esempio, è l’ampio ricorso, da parte di Aldo e dei collaboratori che di tanto in tanto si avvicen-dano a lui nella scrittura di questi cappelli introduttivi, alla citazione di afori-smi e proverbi, molti dei quali in greco. Per alcuni di essi gli editori non sono riusciti ad indicare fonti o paralleli pertinenti: come cercherò di dimostrare negli appunti che seguono, in taluni casi si tratta effettivamente di adagi privi di attestazioni letterarie, ma conosciuti come detti popolari, e in quanto tali citati da autori contemporanei, come Erasmo; in altri, di sentenze attestate presso autori greci tardi e bizantini.

1. Nella prefazione ai Moralia plutarchei del 15093, nr. 66, I, 100 Orlandi, Aldo riporta un adagio

… quod a Solone dictum ferunt: οἷος ὁ βίος, τοιοῦτος καὶ ὁ λόγος, καὶ οἷος ὁ λόγος, τοιαῦται καὶ αἱ πράξεις4.

___________ * Ringrazio Tommaso Braccini, Gianmario Cattaneo e Stefano Pagliaroli per aver

riletto queste pagine. Ai due anonimi revisori devo preziosi suggerimenti. 1 Orlandi 1975. Ove non indicato diversamente, cito i testi aldini secondo questa

edizione, apportando qualche ritocco all’ortografia e alla punteggiatura, e ripristinan-do le maiuscole.

2 Wilson 2016; Bevegni 2017a. 3 Plutarchi Opuscula, Venetiis, in aedibus Aldi & Andreae Asulani soceri, mense

Martio 1509 (EDIT 16 CNCE 37429). 4 Ovvero, nella trad. di Orlandi 1975, II, 270, «quale è la vita, tali le parole, e quali

le parole, tali le azioni».

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Il fons del passo, per cui Orlandi si limitava a un laconico rimando a un vetusto commento a Diogene Laerzio5, è stato rintracciato con maggior preci-sione dai curatori del secondo tomo del repertorio Hellénistes II, dove si trova un’ulteriore edizione moderna di questa prefazione6, e dove, nel commento ad loc., si rinvia a Syrian. in Hermog. περὶ ἰδεῶν 77,8-9 Rabe: οἷος ὁ βίος, τοιοῦτος ὁ λόγος· οἷος ὁ λόγος, τοιαῦται αἱ πράξεις7. I curatori del volume ipotizzano che Aldo abbia prelevato l’adagio dal secondo tomo dei Rhetores Graeci, uscito nel 1509 dalla sua bottega; rilevano poi che la più antica attesta-zione del concetto ricorre in Diog. Laert. 1,58, secondo cui Solone ebbe a dire, appunto, che «il discorso è il riflesso delle azioni»; aggiungono, infine, che sia in Laerzio che nelle edizioni moderne dei commentatori a Ermogene il detto viene attribuito non a Solone, come nella prefazione a Plutarco, ma a Socrate. A tal proposito si impongono due precisazioni: la pericope ricorre pressoché identica anche in Syrian. in Hermog. περὶ στάσεων 19,22 Rabe e nella catena di scoli agli Status ermogeniani attribuiti a Sopatro, Siriano, e Marcellino, il cosiddetto Dreimännerkommentar (ed. Walz 1833, 87,6-7); proprio quest’ul-timo è il testo contenuto nell’Aldina dei Rhetores; qui, alla c. 33, la massima è introdotta da ὡς καὶ Σόλων βοᾷ, che collima con quanto si legge nella prefa-zione aldina al Plutarco8.

Per completezza d’informazione bisognerebbe aggiungere, poi, che il detto è attestato con continuità dalla prima età imperiale fino a quella bizantina. Ricorre, infatti, in Filone Alessandrino (Mos. 1,29,5: οἷος ὁ λόγος τοιοῦτος ὁ βίος καὶ οἷος ὁ βίος τοιοῦτος ὁ λόγος), Plutarco (comm. not. 1070a,5: οἷος ὁ λόγος, τοιοῦτος ἦν ὁ βίος), Clemente Alessandrino (str. 3,5,44: οἷος ὁ λόγος τοῖος ὁ βίος), Teodoro di Eraclea (fr. Mt. 51,6 Reuss: οἷος ὁ λόγος, τοιοῦτος καὶ ὁ βίος), Michele Coniata (or. 1,16,295,16 Lampros: οἷος ἦσθα τὸν βίον, ὅσος τὸν λόγον); lo si trova inoltre riecheggiato in un’espressione impiegata da Teodoro II Duca Lascari (Satyra in paedagogum 754 Tartaglia)9.

___________ 5 Orlandi 1975, II, 361 n. 9: «si confronti il rinvio a Siriano, in Isaaci Casauboni…

[= Hübner 1830], I, 225»; Wilson (2016: 355 n. 397), sulla scorta del predecessore, os-serva che «this may be an allusion to a remark attributed to him [scil. Solon] in Dio-genes Laertios 1, 58»; mentre per Bevegni (2017a, 208, n. 10) «la fonte del passo non è precisabile con certezza». In realtà il passo di Laerzio contiene una sentenza simile ma non identica, che corrisponde ad Apophthegmata septem sapientium 2,7,1 Mullac, e che è poi ripresa da Erasmo nel commento a questo proverbio (è il passo citato infra).

6 Maillard et al. 2010, 285-287. 7 Maillard et al. 2010, 287 n. 471 (da cui dipende Ferreri 2014, 358 e n. 6). 8 La lezione Σόλων, confinata da Walz all’apparato, è peraltro quella che si legge

nel manoscritto più antico degli scoli, il Par. gr. 2923 (= Diktyon nr. 52562), dell’XI sec. (la Druckvorlage dell’Aldina è invece il Par. gr. 2921: Sicherl 1992, 124).

9 Altre versioni di questo topos paremiografico sono registrate in Tosi 2017, nr. 192

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È significativo che una versione assai simile del motto, in versione latina, sia stata inclusa da Erasmo nell’edizione degli Adagia uscita proprio per i tipi di Aldo10 l’anno prima del Plutarco:

Qualis vir, talis oratio. […] qualis sit oratio, tales item esse mores. Ad eandem facit sententiam, quod inter Solonis apophthegmata commemorat Diogenes Laertius: τὸν λόγον εἴδωλον εἶναι τῶν ἔργων, idest ‘orationem factorum esse simulacrum’.

Come avremo modo di rilevare anche più oltre, non sono infrequenti i rimandi intertestuali tra le prefazioni aldine e le Adagiorum chiliades, alla cui redazione, com’è noto, Erasmo attese per oltre un anno in stretta collabora-zione con Manuzio11.

2. Nella Prefazione al Thesaurus Cornu copiae et Horti Adonidis, stampato nel 149612, nr. 6/A, I, 10 Orlandi, leggiamo:

…qui me visunt amicis soleo dicere modo Graecum illud proverbium: κίχλα χέζει αὑτῇ κακόν, hoc est ‘turdella sibi malum cacat’, quod honestius Plautus ‘ipsa sibi avis mortem creat’ (aiunt enim non ‘nisi per avium alvum redditum nasci viscum, maxime palumbis et turdis; haec enim est natura – inquit Plinius in naturali historia – ut nisi maturatum in ventre avium non proveniat’); modo illud: κακὰ ἐφ᾿ ἑαυτὸν ἕλκων ὡς ὁ Καικίας νέφας13, nam ita flare Caecian scribit Aristoteles, ut non propellat nubes, ut alii venti, sed ut ad sese vocet ac trahat14.

___________

(οἷον ὁ τρόπος, τοιοῦτος ὁ λόγος). 10 Erasmi Roterodami Adagiorum chiliades tres, ac centuriae fere totidem, Venetiis,

in Aedibus Aldi, Mense Sept. MDVIII, c. 69v (EDIT 16 CNCE 18199; esemplare con-sultato: Universitätsbibliothek Basel D B III 7 [DOI: 10.3931/e-rara-44672]). Qui, e nelle edizioni successive, l’adagio è il nr. (I vi) 550.

11 Tra l’altro proprio negli anni del soggiorno veneziano l’umanista olandese allac-ciò rapporti con «l’ultimo dei grandi paremiografi bizantini», Arsenio Apostolio, che gli fece conoscere la raccolta del padre Michele (Tosi 2005, 435 e n. 2; più in generale Manoussakas 1991).

12 Edd. Aldus Manutius et Urbanus Bolzanius Bellunensis, Venetiis, Aldus Manu-tius Romanus, VIII 1496 (ISTC it00158000). Ho verificato il testo sull’esemplare segna-to Aldine 100 della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, consultabile online sul portale Internetculturale.

13 Wilson rettifica tacitamente in νέφος la forma tràdita νέφας: benché i lessicogra-fi bizantini intendano quest’ultima perlopiù come allotropo di κνέφας (cfr. e. g. Phot. bibl. 279,530b; Epim. Hom. κ 152,3; Et. M. 601,45; vd. Schol. Od. γ 329b1 Pontani e l’apparato ad loc.), non si può escludere che a un certo punto essa sia entrata nell’uso della lingua greca medievale come sinonimo della prima, e quindi ritenuta legittima da Aldo.

14 Nella traduzione di Orlandi 1975, II, 201: «Perciò agli amici che mi fanno visita ho l’abitudine di ripetere talvolta il proverbio greco: “il tordo caca da sé il proprio

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Gli editori moderni segnalano l’irreperibilità nelle fonti greche del primo proverbio15. Coglie probabilmente nel segno Wilson – sulla scia di Orlandi, che aveva già individuato il parallelo – quando suppone che proprio da que-sto passo di Aldo dipenda l’Erasmo di Adag. [ed. 1508] (I i) 5516, che infatti recita:

Turdus ipse malum cacat. His finitimum est illud Graecorum adagium κίχλα χέζει αὑτῇ κακόν, turdus ipse sibi malum cacat, in eos dici solitum, qui sibiipsis ministra-rent exitii causam. Siquidem viscum, auctore Plinium, non provenit, nisi maturatum in ventre ac redditum per avium alvum, maxime palumbium ac turdorum. Cuius rei meminit et Servius in sextum Aeneidos […].

In mancanza di riscontri nei paremiografi antichi e medievali, non mi pa-re azzardato supporre che il «Graecorum adagium» che Erasmo attinse con ogni verisimiglianza al Thesaurus Cornu Copiae aldino, e che pure Aldo in-troduce come «Graecum proverbium», sia in realtà un conio che lo stesso Manuzio può aver forgiato come equivalente del detto di ascendenza plauti-na. Si tenga presente che la pratica delle retroversioni era comunemente adot-tata dal medesimo Erasmo: soltanto nei Collectanea sono una ventina i casi in cui egli ha fornito, accanto al motto latino, una sua traduzione greca17. È leci-

___________

danno”; concetto che più decentemente fu espresso da Plauto: “l’uccello crea da sé la propria morte” [fr. 47 Leo apud Serv. Aen. 6,205 (viscum); Burmann propose di cor-reggere creat in cacat: cfr. von Wyss 1889, 91)] (dicono infatti che “il vischio abbia ori-gine solo in quanto prodotto dal ventre degli uccelli, soprattutto dei colombi e dei tor-di; giacché esso è di tal natura — dice Plinio nella Storia naturale [16,247] — che non può formarsi se non maturando nel ventre degli uccelli”); altre volte ripeto quest’altro: “attirare disgrazie su di sé come fa il Cecia con le nubi”, perché Aristotele scrive che il Cecia soffia in tal maniera da non scacciare le nubi, come fanno gli altri venti, ma da chiamarle e attrarle a sé». La credenza secondo cui gli escrementi di taluni volatili si tramutano in vischio, l’elemento naturale con cui notoriamente quegli stessi animali vengono catturati, è attestata anche da Isid. orig. 12,7,71: turdela, quasi maior turdus, cuius stercore viscum generari putatur unde et proverbium apud antiquos erat “malum sibi avem cacare” (questo parallelo è registrato in Lelli 2013, 147 [trad. dell’adagio a cura di F. R. Nocchi]; e ricordato da Bevegni 2017b, 210, n. 41, come la più antica oc-correnza del proverbio).

15 Bevegni 2017a, 69, n. 3; Wilson 2016, 330, n. 68. 16 Wilson 2016, ibid.; Orlandi 1975, II, 320 n. 3. Stranamente Wilson (così come il

suo predecessore, Orlandi) non ha poi svolto sistematicamente il confronto con le rac-colte di Erasmo, che come si è visto forniscono invece utili spunti per indagare la pro-venienza di altri proverbi greci citati da Aldo.

17 Vd. Heinimann - van Poll-van de Lisdonk 2005, 25 e n. 74. Altre volte Erasmo provava a ricostruire proverbi antichi, come nel caso del celeberrimo «Ἄνθρωπος ἀνθρώπου λύκος idest Homo homini lupus» di Adag. (I i) 70 (vd. in proposito Tosi

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to pensare che a tale procedimento potesse ricorrere anche l’animatore della Nea Akademia (che notoriamente imponeva l’uso del greco nella comunica-zione orale tra i membri del sodalizio). Aldo riutilizzò il proverbio nella pre-fazione all’edizione della grammatica di Costantino Lascaris del 151218, per ricordare come le parole da lui premesse al Thesaurus si siano rivelate profeti-che, tale era stata la fatica di portare avanti l’impresa tipografica nel quindi-cennio trascorso dall’uscita di quel volume19.

Quanto poi al proverbio sul vento di Cecia, di antica attestazione, Aldo può averlo conosciuto per il tramite dell’Aristotele dei Metereologica (2,6,364b 11-12), opera da lui pubblicata pochi mesi dopo il Thesaurus20, o di Gellio (2,22,24)21 – nelle cui edizioni incunabole, a partire da quella romana di Bussi

___________

2008 e Tosi 2014, 16-20), poi diffuso anche in neogreco (vd. Politis 1899-1902, II [1900], 277-278, s. v. ἄνθρωπος 8).

18 Constantini Lascaris Byzantii De octo partibus orationis, Venetiis, X 1512 (EDIT 16 CNCE 36173).

19 Orlandi 1975, n° 71/E, I, 106: «Aldus lectori s. […]. Vix enim credas quam sim occupatus. Non habeo certe tempus non modo corrigendis, ut cuperem, diligentius qui excusi emittuntur libris cura nostra summisque die noctuque laboribus, sed ne perlegendis quidem cursim; id quod si videres, miseresceret te Aldi tui, quae tua est humanitas, cum saepe non vacet vel cibum sumere vel alvum levare […] O provin-ciam quam durissimam! Divinabam equidem id futurum, vix eam aggressus, cum in fronte eius libri, quae Κανονίσματα appellantur, κίχλα χέζει αὑτῇ κακόν scripsimus, quod sic nobis malum creaturi essemus, ut turdus sibi» (per la trad. vd. Orlandi 1975, II, 275; con Κανονίσματα, come ha ben visto Orlandi 1975, II, 362, Aldo intende qui il suo Thesaurus; cfr. Wilson 2016, 356 n. 412; Bevegni 2017a, 217, n. 8). Il motto è atte-stato in toscano a partire dal XVI sec. («il tordo si fa la pania da se stesso», «il tordo da se stesso si caca la pania contra» e sim.: vd. e.g. GDLI s.v. ‘tórdo’, 8). In greco, proba-bilmente via Erasmo, è ricordato dal Pascoli (Apelles post tabulam latens, v. 9: «Αὑτῇ (fateri convenit) κακὸν κίχλη…»: vd. il comm. ad loc. di Dal Santo 1975, 119-120).

20 Nel secondo tomo dell’Aristotele, datato febbraio 1497 (ISTC ia00959000). 21 Secondo Aristotele (mete. 2,6,364b 12-14; e cfr. Thphr. vent. 37) il Cecia, unico

fra i venti, attira le nubi anziché disperderle, grazie al suo moto circolare (caratteristica che lo accomuna al quasi omonimo circius di Plin. nat. 2,121 e 17,49, su cui vd. Olivie-ri 2013, 153, s. v.): sulle cause di questa proprietà alquanto singolare, ben presto dive-nuta proverbiale (come si evince dall’uso del termine in Ar. Eq. 438; altre attestazioni in Lelli 2006, 501 n. 363), si interroga [Arist.] pr. 26,1 (940a18-34). Il trimetro giambi-co di origine ignota ἕλκων ἐφ’ αὑτὸν ὥσ<τε> καικίας νέφος (= fr. adesp. 75 Nauck = 15 fr. iamb. 15 Diehl = fr. com. adesp. 1229 Kock) è introdotto come proverbio, oltre che nel già citato passo di Arist. mete. 364b, in [Arist.] pr. 26,29 (943 a 32-33), e sulla scorta di quest’ultimo, da Gell. 2,22,24; è poi confluito nelle raccolte paremiografiche (Diogenian. 4,66; Greg. Cypr. 1,99; Mich. Apostol. 7,6). La vasta diffusione dell’adagio, come osserva giustamente uno dei lettori anonimi, «complica (o forse rende tout court superflua) l’individuazione della fonte precisa di Aldo».

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del 1469, è citato in greco e accompagnato da una latinizzazione di Teodoro Gaza –, ovvero anche di umanisti suoi contemporanei: Niccolò Perotti, ad es., lo citò nel suo Cornu Copiae (prima ed. 1489)22; qualche anno dopo lo si trova incluso nel Proverbiorum libellus di Polidoro Virgili (Venetiis 1498: nr. 150) e nei Collectanea erasmiani (Paris 1500, nr. 122: mala de [pro «ad»] sese at-trahens, ut Caecias nubes23 = Adagia nr. [I v] 462: mala attrahens ad sese, ut Caecias nubes).

3. Nella seconda prefazione agli scrittori di astronomia greci e latini del 149924, nr. 17/B, I, 28 Orlandi, Aldo cita il proverbio

γερόντιον γὰρ ψιττακὸς ἀμελεῖ σκυτάλην25.

Anche in questo caso editori e commentatori non offrono riscontri26. Non si può scartare l’ipotesi che il Manuzio abbia attinto l’adagio a fonti scritte ora perdute, o anche, come è stato suggerito, alla tradizione orale, e in particolare alla viva voce di collaboratori o conoscenti greci27. Di esso però non si trova traccia nemmeno nelle raccolte di proverbi neogreci28. Non escluderei che si possa trattare, anche in questo caso, di una retroversione dal latino: penso al motto Senex psittacus negligit ferulam, di cui non mi risultano attestazioni an-tiche, ma che è attestato in ambito germanofono29, e che qualche anno più

___________ 22 Nicolai Perotti Cornu copiae seu linguae Latinae commentarii, 3, ed. J.-L. Char-

let, Sassoferrato 1993, 38 [lib. I, epig. III, par. 96]. 23 Ed. Heinimann - van Poll-van de Lisdonk 2005, 88-89; vd. l’apparato ad loc. e

Grant 2017, 137-138 e nn. 1-3. 24 Iulii Firmici Astronomica, Manilii Astronomica, Arati Phaenomena, Procli

Sphaera, Venetiis, Aldus Manutius Romanus, 14 X 1499 (ISTC if00191000). 25 Orlandi 1975, II, 216: «il pappagallo da vecchio non si cura della verga»; Wilson

2016, 81: «the aged parrot disregards the cane» («aged» rende bene il valore aggettivale dell’apposizione γερόντιον); meno felicemente Bevegni 2017a, 117: «Il pappagallo, da vecchio, non si cura del trespolo» (per questa interpretazione vd. anche Bevegni 2017b, 211, dove pure la traduzione va nella direzione giusta: «…non si cura del ba-stone»).

26 Vd. Orlandi 1975, II, 329 n. 8 («Proverbio non riscontrato altrove»); Wilson 2016, 342, n. 199 («This looks like a proverb, but I have failed to trace its source»); Be-vegni 2017a, 117, n. 20 («oscura espressione proverbiale citata da Aldo in greco, di cui non si conoscono paralleli; Aldo potrebbe averla sentita da uno dei suoi collaboratori di origine greca»; ipotesi ribadita in Bevegni 2017b, 210-211 e n. 43).

27 Supra, n. 26. 28 Ad es. Venizelos 1867; Politis 1899-1902. 29 Cfr. Wander 1867-1880, 3, s. v. ‘Papagai’ 1: «Ein alter Papagai achtet die Ruthe

nicht». Ricavo la segnalazione da Wesseling (2015, 34 e n. 20), che per primo ha rile-vato la corrispondenza tra il passo erasmiano (vedi oltre) e questa prefazione aldina. A

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tardi viene citato come ‘popolare’ 30 (vulgo iactatum) da Erasmo, sempre nell’edizione aldina dei suoi Adagia. L’adagio in questione è il nr. (I ii) 161, Senis mutare linguam, nel cui interpretamentum leggiamo:

[…] Ne hoc quidem praetermittendum, quamquam vulgo iactatum: ‘senex psitta-cus negligit ferulam’. Adagii sensus, tametsi per se non est obscurus, tamen magis li-quebit ex Apulei verbis, quae sunt in libro Floridorum secundo de psittaco: ‘quae [cum Apul.] rusticum nostrum sermonem cogitur aemulari, ferrea clavicula caput tunditur, imperium magistri ut persentiscat. Haec ferula discenti est. Discit autem statim pullus usque ad duos aetatis suae annos, dum facile os uti conformetur, dum tenera lingua uti convibretur. Senex autem captus, et indocilis est et obliviosus’31.

Erasmo cita il proverbio, introducendolo ancora come ‘volgare’, anche nel De pueris instituendis, composto negli anni 1506-9 (ma pubblicato nel 1529):

Mature doces psittacum humanas sonare voces, non ignarus quo plus accesserit aetatis, hoc minus esse docilem, admonente hoc etiam vulgi proverbio: psittacum ve-tulum negligere ferulam32.

4. La prefazione di Marco Musuro all’Aristofane del 149833, non contem-plata nell’edizione di Orlandi, è invece inclusa in quella di Wilson; prima di questa, ne aveva dato una nuova edizione anche Luigi Ferreri34. Il testo con-___________

detta dello studioso non si trovano attestazioni del proverbio nelle antiche collezioni olandesi (in olandese è però attestato il proverbio, speculare al primo, «Een jonge pa-pegaai kan leeren praten» = «Ein junger Papagai lernt sprechen»: Wander, ibid., 3).

30 Così traduce P. Carolla in Lelli 2013, 247; meno pregnante la resa di M. M. Phil-lips in Phillips-Mynors (1982, 200 – corsivo mio) «we must not leave out the saying, common thought it is, the old parrot takes no notice of the rod». Qui, come sua abitu-dine, Erasmo intende segnalare la provenienza “volgare” di un detto di cui non si tro-vano attestazioni letterarie; benché simili citazioni siano da lui introdotte «talora an-che con dispregio», come osserva Tosi 2005, 441 (vd. gli esempi discussi ivi, 441-442), è tuttavia cospicua la messe di detti popolari (soprattutto olandesi) confluiti nella sua opera: per un primo bilancio vd. Wesseling 1994.

31 Nell’ed. 1508 (cc. 27v-28r) è il nr. 159. Fonte di Erasmo è Apul. flor. 12, che a sua volta probabilmente dipende da Plin. nat. 10,117 (vd. La Rocca 2005, 202; e Piccioni 2018, 113 per la proposta di emendamento discentis in Apul.): capiti eius duritia ea-dem quae rostro. Hoc, cum loqui discit, ferreo verberatur radio; non sentit aliter ictus. L’interpretamentum erasmiano contiene un altro detto popolare affine a questo (già citato nei Collectanea, nr. 311), secondo cui difficilmente il cane anziano si adatta al guinzaglio («vulgo quidem, attamen haudquaquam ineleganter dicitur, serum esse canes vetulos loris assuefacere»).

32 P. 28,3-4 Margolin. 33 Aristophanis Comoediae novem, Venetiis, Aldus Manutius, Romanus, 15 VI

1498 (ISTC ia00958000). 34 Wilson 2016, 274-279; Ferreri 2014, 99-104, con trad. italiana e note. La prefa-

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tiene un’icastica descrizione dell’inevitabile proliferazione di errori in sede di composizione di un testo greco in tipografia:

Αἱ δὲ τῶν χαλκογράφων ἁμαρτίαι κάρηνά εἰσι Λερναῖα τῆς παλιμφυοῦς ὕδρας πολυπλοκώτερα καὶ τῆς Ἰόλεω ἐπικουρίας δεόμενα· ὅσῳ γὰρ ἐξεκόπτομεν, τοσῷδε πλείους ἡμῖν ἀνεφύοντο· τοῦ τὸ μὲν μεταβάλλειν, τὸ δὲ προστιθέναι, τὸ δ᾿ ἀφαι-ρεῖσθαι τῶν στοιχείων ἀφορμαί· ἡμῖν μὲν οὖν ὁ πίθος κεκύλισται εἰς ὠφέλειαν…

Gli errori degli stampatori sono «teste di Lerna più piene di viluppi dell’Idra che sempre ricresce» e bisognose dell’aiuto di Iolao: infatti quanto più le si taglia, tanto più ricrescono. Le cause di ciò sono sia gli spostamenti sia le aggiunte sia le omissioni di lettere. Per me ho fatto certamente una cosa utile…35

L’espressione con cui si chiude la pericope, che potrebbe anche tradursi «ad ogni modo, non abbiamo fatto rotolare la botte invano», verosimilmente risale, come suggerisce Ferreri, a Luciano hist. conscr. 63, dove «ricorre κεκύλισται ὁ πίθος ἐν Κρανείῳ nel senso di fare una cosa inutile»36. Per parte mia aggiungerei che Musuro può averla attinta alla tradizione paremiografica bizantina: Κεκύλισται ὁ πίθος: ἐπὶ τῶν κατὰ μίμησιν ἑτέρων μάτην τι ποιούντων ricorre nelle raccolte di Giorgio Ciprio (CPG II 4,9,1) e di Michele Apostolio (CPG II 9,74,1).

Poco oltre, Musuro chiede al lettore un incoraggiamento per chi si dedica alla pionieristica arte della stampa, dal momento che

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zione non figura in Bevegni 2017a (in Bevegni 2018 si legge invece la traduzione commentata di un altro scritto prefatorio contenuto nel volume aldino, la dedicatoria a Daniele Clario di Parma, già inclusa in Bevegni 2015, 31-35).

35 Testo e traduzione sono citati da Ferreri 2014, 100-101 e 103 rispettivamente. Wilson offre una traduzione letterale del segmento (2016, 279: «our pot has been fash-ioned on the wheel so as to give benefit»), inficiata dalla mancata individuazione della fonte del proverbio (ivi, 366 n. 17: «this expression looks like a proverb, but it is not found in the ancient collections»). Giustamente Ferreri (2014, 103 n. 36) riconosce qui una ripresa pressoché letterale da [Luc.] am. 2, dove la voce narrante paragona il sus-seguirsi turbinoso degli amori alle teste dell’idra che ricrescono appena tagliate, e la-menta l’assistenza di un aiutante della stoffa di Iolao.

36 Ferreri 2014, 103 n. 37. Luciano impiega il nesso πίθος κυλίειν in apertura dell’opuscolo su Come si deve scrivere la storia (§3) in riferimento a Diogene di Sinope, il quale, mentre a Corinto fervevano i preparativi per la guerra, faceva rotolare la botte in cui abitava su e giù per l’altura del Craneo, tanto per non dar l’impressione di star-sene con le mani in mano mentre tutti i cittadini erano indaffarati; poco oltre (§4), Luciano spiega che anch’egli farà rotolare la sua botte, dandosi alla composizione di quest’operetta a beneficio di chi intende scrivere di storia. Nella chiusa dell’opuscolo si augura poi che quanto ha scritto sia di utilità a qualcuno: εἰ δὲ μή, – conclude – κεκύλισται ὁ πίθος ἐν Κρανείῳ (§ 63). Un proverbio affine a questo, e molto diffuso, è «portare vasi a Samo» (per cui vd. Tosi 2017, nr. 584)

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PROVERBI GRECI VECCHI E NUOVI NELLE PREFAZIONI ALDINE

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αἰνουμένας τέχνας ἐπιδιδόναι πεπαροιμίασται37.

«If this assertion was proverbial, once again it does not appear in the an-cient collections», annota in maniera forse un po’ troppo sbrigativa Wilson, che dubitativamente suggerisce un parallelo con il ciceroniano honos alit artes di Cic. Tusc. 1,438. Nel suo commento ad loc. Ferreri aggiunge anche compa-randa di ambito greco, attingendoli ai repertori di Otto e Tosi39: Poet. lat. inc. fr. 29 Blänsdorf ap. Sen. epist. 102,16 laus alit artes; una gnome tràdita a nome di Bione di Boristene (τιμὰ δὲ τὰ πράγματα κρέσσονα ποιεῖ); e (con minore affinità con il nostro proverbio) Plat. resp. 8,551a.

Questi loci similes sono sicuramente utili a chiarire l’origine della massi-ma, che però Musuro contamina, a mio parere, con un’espressione proverbia-le di senso analogo – «ciò che è lodato, si accresce» o «prospera» – ben atte-stata nella letteratura bizantina, peraltro con una fraseologia simile a quella del nostro passo: ad es. in Michele Psello (theol. 98,101 Gautier: πᾶν ἐπαινού-μενον ἐπίδοσιν λαμβάνει καὶ αὔξησιν), Niceta Coniata (or. 14,129, 15 van Dieten: ἐπιδίδωσι γὰρ ἅπαν τὸ ἐπαινούμενον) e Manuele Olobolo (or. 2,95, 24 Treu: τὸ γὰρ ἐπαινούμενον ἐπιδίδωσιν).

5. Due riflessioni a conclusione di questo itinerario paremiografico tra le prefazioni aldine. 1) La ricerca della prima attestazione di un proverbio è no-toriamente impresa vana, essendo questo un genere per definizione refratta-rio all’applicazione del concetto di proprietà intellettuale40. Un conto, quindi, è rilevare che queste pagine consegnano alla letteratura umanistica (ed euro-pea) sentenze che prima di allora avevano avuto soltanto una circolazione orale, o sotterranea, in taluni casi nobilitandole con una traduzione in greco; altro è accertare l’origine di tali sentenze, che in molti casi resta oscura. 2) Grazie alla sua conoscenza della lingua e della letteratura dei Greci, Aldo (alla stessa stregua di Erasmo41) è in grado di attingere direttamente alle opere dei

___________ 37 Nella traduzione di Wilson 2016, 279, «it is proverbial that arts which are

praised make progress». 38 Wilson 2016, 366, n. 21. 39 Vd. ora Tosi 2017, nr. 209, che ricorda anche il corrispondente adagio erasmiano

(I viii 92 = 792). 40 Sul proverbio come genere privo di autorità per definizione (a differenza

dell’aforisma, di norma associato a un personaggio) vd. l’introduzione di Tosi 2017; il discorso vale anche per motti e facezie: vd. Cherchi 2003, specialmente 111; sull’ap-plicabilità a questo ambito del concetto di «intellectual property» vd. inoltre il cap. 6 in Eden 2001, 142-163.

41 In proposito vd. almeno Tosi 2005.

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LUIGI SILVANO

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paremiografi antichi e bizantini42, che in taluni casi è forse il primo a divulga-re presso i lettori occidentali.

Bibliografia Bevegni 2015 = Aldo Manuzio, Lettere prefatorie a edizioni greche, a cura di C. Beve-

gni, con uno scritto di R. Calasso, Milano 2015. Bevegni 2017a = Aldo Manuzio, Lettere prefatorie a edizioni greche, a cura di C. Beve-

gni, con un saggio introduttivo di N. Wilson, Milano 2017. Bevegni 2017b = C. Bevegni, Tradurre (ma non solo) Aldo Manuzio, in Tradurre classi-

ci greci in lingue moderne, hg. von M. Taufer, Freiburg i. B. - Berlin - Wien, 2017, 195-212.

Bevegni 2018 = C. Bevegni, Aldo Manuzio editore di Aristofane, in Itinerari del testo per Stefano Pittaluga, a cura di C. Cocco – C. Fossati et al., Genova 2018, 1, 83-97.

Bühler 1987 = Zenobii Athoi Proverbia. I. Prolegomena, ed. W. Bühler, Gottingae 1987.

Cherchi 2003 = P. Cherchi, Alla ricerca di un’apoftemmatica moderna (1543-1552), in Id., Ministorie di microgeneri, Ravenna 2003, 107-128.

Dal Santo 1975 = L. Dal Santo, Filigrane Liriche Maggiori (Fasc. I), «Rivista di studi classici» 23,1, 1975, 100-138.

Eden 2001 = K. Eden, Friends Hold All Things in Common. Tradition, Intellectual Property, and the Adages of Erasmus, New Haven - London 2001.

Ferreri 2014 = L. Ferreri, L’Italia degli umanisti. Marco Musuro, Turnhout 2014. Grant 2017 = Collected Works of Erasmus, XXX. Prolegomena to the Adages. Adagio-

rum collectanea translated and annotated by J. N. Grant, Indexes to Erasmus’ Adages by W. Barker, Toronto - Buffalo - London 2017.

Heinimann – van Poll-van de Lisdonk 2005 = Opera Omnia Desiderii Erasmi Rotero-dami, II.9. Adagiorum Collectanea, edd. F. Heinimann - M. L. van Poll-van de Lisdonk, Amsterdam 2005.

Hübner 1830 = Isaaci Casauboni notae atque Aegidii Menagii observationes et emen-dationes in Diogenem Laertium, ed. H. G. Hübner, Lipsiae - Londini 1830.

La Rocca 2005 = A. La Rocca, Il filosofo e la città: commento storico ai Florida di Apu-leio, Roma 2005.

Lelli 2006 = I proverbi greci. Le raccolte di Zenobio e Diogeniano, a cura di E. Lelli, So-veria Mannelli 2006.

Lelli 2013 = Erasmo da Rotterdam, Adagi, a cura di E. Lelli, Milano 2013. Maillard et al. 2010 = J.-F. Maillard - J.-M. Flamand - M.-E. Boutroue - L. A. Sanchi,

La France des humanistes. Hellénistes II, Turnhout 2010. Manoussakas 1991 = M. I. Manoussakas, Gli umanisti greci collaboratori di Aldo a Ve-

nezia (1494-1515) e l’ellenista bolognese Paolo Bombace [Prolusione per la laurea honoris causa in Storia, Università di Bologna, 28.11.1991], Bologna 1991.

___________ 42 Per un quadro articolato della diffusione e della fortuna delle raccolte paremio-

grafiche bizantine si può ricorrere a Bühler 1987.

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PROVERBI GRECI VECCHI E NUOVI NELLE PREFAZIONI ALDINE

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Olivieri 2013 = R. Olivieri, Relitti lessicali e onomastici liguri negli autori e nei docu-menti classici, Milano 2013.

Orlandi 1975 = Aldo Manuzio editore. Dediche, prefazioni, note ai testi, introduzione di C. Dionisotti, testo latino con traduzione e note a cura di G. Orlandi, 1-2, Mila-no 1975.

Phillips-Mynors 1982 = Collected Works of Erasmus. Adages Ii1 to Iv100, translated by M. M. Phillips, annotated by R. A. B. Mynors, Toronto - Buffalo - London 1982.

Piccioni 2018 = Apuleio, Florida, Introduzione, testo, traduzione e commento a cura di F. Piccioni, Cagliari 2018.

Politis 1899-1902 = N. Politis, Μελέται περὶ τοῦ βίου καὶ τῆς γλώσσης τοῦ Ἑλληνικοῦ λαοῦ, Παοιμίαι, 1-4, Athina 1899-1902.

Sicherl 1992 = M. Sicherl, Die Aldina der Rhetores Graeci (1508-1509) und ihre hand-schriftlichen Vorlagen, «ICS» 17, 1992, 109-134.

Tosi 2005 = R. Tosi, Dai paremiografi agli Adagia di Erasmo: alcune precisazioni, in Selecta colligere. II, a cura di R. M. Piccione - M. Perkams, Alessandria 2005, 435-443.

Tosi 2008 = R. Tosi, Homo homini lupus: da Plauto a Erasmo a Hobbes, «Eikasmòs» 19, 2008, 387-395 (rist. in Id., La donna è mobile e altri studi di intertestualità pro-verbiale, Bologna 2011, 239-249).

Tosi 2014 = R. Tosi, Radici classiche della moderna tradizione proverbiale europea, in Fonti ed interpretazioni, Atti della sezione Italica del convegno internazionale «By-zanz und das Abendland – Byzance et l’Occident II», 26 novembre 2013, a cura di Á. Ludmann, Budapest 2014, 9-24.

Tosi 2017 = Dizionario delle sentenze latine e greche, a cura di R. Tosi, prima edizione aggiornata, Milano 2017.

Venizelos 1867 = Παροιμίαι δημώδεις, ed. I. Venizelos, Hermoupolis 1867. von Wyss 1889 = W. von Wyss, Die Sprichwörter bei den Römischen Komikern, Zürich

1889. Walz 1833 = Rhetores Graeci, 4, ed. C. Walz, Stuttgardiae - Tubingae 1833. Wander = F.W. Wander, Deutsches Sprichwörter Lexikon, 1-5, Leipzig 1867-1880. Wesseling 1994 = A. Wesseling, Dutch Proverbs and Ancient Sources in Erasmus’s

Praise of Folly, «RenQ» 47, 1994, 351-378. Wesseling 2015 = A. Wesseling, Latin and the Vernaculars: The Case of Erasmus, in

Bilingual Europe. Latin and Vernacular Cultures, Examples of Bilingualism and Multilingualism c. 1300-1800, ed. J. Bloemendal, Leiden - Boston 2015, 30-49.

Wilson 2016 = Aldus Manutius, The Greek Classics, edited and translated by N. G. Wilson, Cambridge, MA, 2016.

Abstract: Greek proverbs are often found in the prefaces of the Aldine editions of

the Greek classics. Recent editors and commentators of these texts have sometimes failed to trace back the sources of these proverbs, or to find comparanda thereof. In-deed some of them are attested in Greek and Byzantine literature, while others might be translations into Greek of Latin proverbs made by Aldus himself.

LUIGI SILVANO

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RICORDI

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«Commentaria Classica» 5, 2018, 95-99. ISSN 2283-5652 ISBN 9788894227154

Cristiano Castelletti in memoriam

FILIP KARFÍK

…si progenitum Stygos amne severo

armavi – totumque utinam! – … Stat. Ach. 1,269-270

Le 1er octobre 2017, Cristiano Castelletti est décédé, emporté brusquement

par une septicémie/méningite, à la stupeur et à la douleur de tous ceux qui l’ont connu. Homme vigoureux et plein d’énergie, helléniste et latiniste bril-lant, Cristiano Castelletti a été arraché à sa famille, à ses amis et à ses travaux à l’âge de quarante-six ans, au sommet de ses forces, une année et quelques mois seulement après avoir soutenu à l’Université de Fribourg, son alma ma-ter depuis 1990, la thèse d’habilitation en langue et littérature latines.

Né en 1971 à Locarno, Cristiano a obtenu sa maturité du type A (grec et latin) au Lycée de Locarno dans une filière classique. Passionné pour les études grecques et romaines, il a étudié, de 1990 à 1996, à l’Université de Fri-bourg langue et littérature grecques, langue et littérature latines et archéolo-gie classique avec, en branche supplémentaire, l’histoire de l’Antiquité. En 1995, il a obtenu sa licence en lettres, avec mention « summa cum laude », en domaines principaux et, en 1996, il a fini ses études en branche supplémen-taire, ayant passé en plus un stage d’études pompéiennes auprès du Musée archéologique de Naples, un stage d’ecdotique à l’Institut des Sources Chré-tiennes à Lyon et le cours d’étruscologie à l’Université pour les Étrangers de Pérouse.

Le mémoire de licence présenté par Cristiano Castelletti en 1995 mérite d’être mentionné. Dirigé par le professeur Jacques Schamp, ce travail intitulé Studio sulla Epistula 187 (Amphilochia 101) di Fozio porte sur la réfutation par le patriarche constantinopolitain, au IXe siècle, de l’argumentation de l’Empereur Julien, rédigée cinq cents ans auparavant, contre l’idéal chrétien de la vie monastique. Ce mémoire remarquable comporte, outre le texte, la traduction, le commentaire et l’étude du vocabulaire de la lettre de Photius, notamment une introduction qui replace la polémique du patriarche dans le contexte de la littérature apologétique du IVe siècle dirigée contre le traité de Julien et dont Photius s’est servi. Déjà ce premier travail académique trahit une compétence extraordinaire de son auteur, car il suppose une vue d’en-semble qui englobe l’époque byzantine et l’Antiquité tardive chrétienne aussi bien que païenne en prenant en compte le riche bagage intellectuel que les deux parties adverses devaient aux auteurs des siècles précédents.

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FILIP KARFÍK

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Durant ses études de licence, Cristiano Castelletti a fait des remplace-ments de latin et de grec aux écoles secondaires tessinoises ainsi qu’au Lycée Cantonal de Locarno. De 1995 à 2000, il était d’abord sous-assistant, puis as-sistant diplômé aux chaires de philologie classique et d’histoire ancienne de l’Université de Fribourg, en poursuivant les études doctorales sous la direc-tion de Jacques Schamp et la co-direction de Tiziano Dorandi (Paris) et en donnant des séminaires de grec et de latin. Doctorant boursier du Fonds Na-tional Suisse (FNS), il séjournait, en 2001 et 2002, à Padoue, à Dublin et à Pa-ris où il profitait d’une collaboration avec les meilleures spécialistes de la phi-losophie antique, sa thèse de doctorat portant sur les fragments d’un des écrits de Porphyre de Tyr. Sa bourse doctorale terminée, Cristiano a dû cher-cher un travail hors de l’université. Il l’a trouvé auprès de la Radio Télévision suisse de langue italienne (RSI) où il allait développer une brillante carrière de journaliste. D’abord stagiaire, il a obtenu, en 2004, son diplôme du cours de journalisme de la Suisse italienne et a rejoint, de 2004 à 2007, puis de nou-veau, dix ans plus tard, l’équipe de la RSI en mettant à la disposition de celle-ci sa vaste érudition, son énergie et son enthousiasme pour l’Antiquité gréco-romaine. Durant ce temps, Cristiano a fini et a soutenu, en 2005, avec la men-tion « summa cum laude », sa thèse de doctorat ès lettres en langue et littéra-ture grecques (les rapporteurs étaient Tiziano Dorandi, Philippe Hoffmann et Jacques Schamp) et il assuma, pour l’année académique 2005/2006, la fonc-tion de chargé d’enseignement à l’Université de Neuchâtel où il donnait des cours de langue et littérature latines et de mythologie gréco-romaine.

Sa thèse de doctorat parut une année plus tard sous le titre Porfirio, Sullo Stige, Introduzione, traduzione, note e apparati di C. Castelletti, dans la pres-tigieuse collection Testi a fronte de la maison d’édition Bompiani à Milan. Ce volume constitue un exploit scientifique hors de commun. L’auteur recons-truit, autant que faire se peut, une des œuvres perdues porphyriennes, l’énigmatique traité Περὶ Στυγός, consacré au thème mythologique du Styx, le fleuve, situé aux confins des enfers, par lequel jurent les dieux et auquel les anciens attribuaient des pouvoirs magiques : c’est en le plongeant dans les eaux du Styx, disait-on, que Téthys immortalisa Achille, à l’exception fatale de son talon. Les fragments de ce traité, conservés par Jean Stobée, ne sont rien de moins que faciles à interpréter, tant dans le détail que dans leur en-semble. Pourtant, Cristiano Castelletti a su en tirer, sur la base d’une métho-dologie rigoureuse, le maximum possible. Ses résultats portent notamment sur les questions de mythologie, d’histoire des religions, de philosophie et de géographie, mythologique aussi bien que réelle. L’interprétation du fragment 7 qui comporte une citation tirée de Bardesane d’Édesse relative aux tradi-tions religieuses orientales a exigé des connaissances de littérature et d’icono-graphie indiennes, dûment assimilées par notre commentateur, formé à l’école de la Prof. Lilly Kahil en iconographie gréco-romaine et pratiquant lui-

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même les textes sanscrits. De plus, afin de se procurer des images des endroits difficilement accessibles dans le haut des montagnes d’Arcadie où, selon les auteurs anciens, les eaux du Styx jaillissent et tombent en cascade d’une fa-laise « au cœur noir », Cristiano n’a pas hésité à faire l’ascension du mont Mavroneri et à toucher les eaux redoutables. On trouve ces photos impres-sionnantes sur les planches II-XVIII de son livre. Le préfacier du volume, Ti-ziano Dorandi, en soulignant les mérites de cette publication et les compé-tences uniques de son auteur, a exprimé le souhait que celui-ci considère la possibilité de faire un pareil travail sur les Questions homériques de Porphyre, une autre œuvre perdue de l’érudit philosophe néoplatonicien. Mais les frag-ments de Porphyre n’étaient pas ce que Cristiano aimait vraiment et le travail sur ce genre de textes n’était pas ce qu’il désirait le plus faire.

En 2007, sa carrière académique a pris un nouvel essor avec la bourse du FNS pour les chercheurs avancés. Ayant jusqu’ici travaillé sur les auteurs, philosophes et théologiens, d’expression grecque, Cristiano a fait volte-face en se tournant vers l’objet de son vrai amour qu’était depuis toujours la poésie latine, notamment l’épopée. Avec un projet de recherche portant sur le livre huit des Argonautica de Valerius Flaccus, il séjournait, de 2007 à 2010, aux universités de Fribourg-en-Brisgau, de Cambridge et d’Irvine. C’est ce travail qui devait aboutir à sa thèse d’habilitation. À ces séjours à l’étranger ont suc-cédé un assistanat à l’Université de Fribourg en 2010, une charge d’en-seignement à l’Université de Neuchâtel pour l’année académique 2010/2011 et une bourse de collaborateur scientifique au Thesaurus Linguae Latinae à Munich pour l’année académique 2010/2011.

Le travail sur Valerius Flaccus donna naissance à un projet plus large, sou-tenu de 2012 à 2015 par le FNS (projet Ambizione) et intitulé « Flavium Cae-lum. Tradition aratéenne et idéologie impériale dans la poésie épique de l’époque flavienne ». En effet, Cristiano Castelletti s’est plongé dans une relec-ture de la poésie épique latine à la lumière des modèles hellénistiques de celle-ci, en prenant pour phares qui guidaient son périple à travers le ciel étoi-lé des épopées latines les Phénomènes d’Aratos. C’est en regardant les vers la-tins avec les yeux du lecteur d’Aratos, doué dans l’étude des constellations, qu’il a fait sa découverte la plus spectaculaire, celle de la signature de l’Énéide en acrostiche boustrophédon inscrit dans les premiers quatre vers de l’épopée virgilienne : A STILO M[aronis] V[ergili] (cf. «MH» 69, 2012, 83-95). Ceci n’était pas le premier acrostiche qui attirait son attention ni non plus le der-nier. Entre 2008 et 2017, il a publié une série d’articles et de contributions aux volumes collectifs sur les acrostiches et le symbolisme astral dans les poèmes d’Aratos, d’Apollonius, de Virgile, de Properce, de Valerius Flaccus, de Stace. Dans un article plus récent, intitulé Virgil, Propertius, Augustus and Roma quadrata. The sphragis as a literary act of foundation (à paraître dans la «Revue des Études Latines»), il avance la thèse selon laquelle les technopaignia – les

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jeux littéraires dont les acrostiches – ont été utilisés par les grands poètes la-tins, émules des parangons hellénistiques, non seulement pour signer leurs créations mais aussi pour y inscrire, au-delà du sens littéral, des significations méta-poétiques faisant référence à l’idéologie impériale. Ainsi, Cristiano Ca-stelletti interprète les premiers onze vers de l’Énéide comme représentation en filigrane de la fondation de Rome, faisant allusion, au moyen des acrostiches et du nombre des lettres, à la vieille imagerie de la Roma quadrata et à la no-tion vénérable du mos maiorum, revalorisées par le programme architectural et politique d’Octavien. L’idée des significations méta-poétiques d’une texture poétique savamment ciselée a de quoi convaincre, bien que les exemples des technopaignia relevés par Cristiano restent sujets à caution. « Seul le poète, nous avertit-il lui-même, pourrait nous dire si tout cela est accidentel ou déli-béré ». Cependant, même si tel ou tel autre jeu de lettres n’était dû qu’au pur hasard, celui qui le remarque, en y apercevant un surcroît de sens bien placé, n’est-il pas lui-même un poète savant ?

Le 19 avril 2016, Cristiano Castelletti a donné sa conférence d’habilitation à l’Université de Fribourg sur le thème « Back to the future. Virgile, Auguste et la (re)fondation de Rome », la thèse d’habilitation « Valerio Flacco, Argo-nautiche, libro VIII. Edizione, traduzione e commento » ayant été acceptée sur l’avis unanime des rapporteurs (Ulrich Eigler, Paolo Fedeli, Damien Nelis et Thomas Schmidt). La tâche d’éditer et de commenter le dernier livre ina-chevé des Argonautiques de Valerius Flaccus que Cristiano Castelletti s’était proposée en 2007, ardue en elle-même, s’avérait plus complexe encore du fait que deux commentaires nouveaux du même livre en langue italienne ont pa-ru en 2012. Il fallait les prendre en compte en les surpassant. Cristiano n’a pas reculé devant ces exigences. Il a fait précéder son édition critique, sa traduc-tion et son commentaire linéaire, riche en analyses de multiples stratégies lit-téraires mises en œuvre par Valerius, y compris les significations méta-poétiques d’une portée astrologique, notamment d’une large introduction, dont la partie principale, intitulée L’ideologia del poema in una ‘sphragis’, ap-porte une interprétation originale de l’épopée tout entière à la lumière d’une signature présumée du poète, inscrite au texte du livre II de celle-ci. L’ensemble de ce travail dont tous les rapporteurs ont salué les mérites était destiné, sous une forme revue, à la publication en anglais. L’autre publication prévue, en cours de rédaction, était le Flavium Caelum, résultat du projet de recherche mentionné ci-dessus. Cependant, ce projet terminé, l’avenir aca-démique de Cristiano est devenu précaire. La candidature pour un poste va-cant à Fribourg, en 2015, n’a pas abouti. Cristiano l’a beaucoup regretté.

La disparition prématurée de Cristiano Castelletti est une perte immense. Cristiano incarnait un type d’érudit devenu rare de nos jours. Par sa forma-tion et par ses compétences, il embrassait l’ensemble des sciences de l’An-tiquité. La connaissance du vaste corpus des littératures grecque et latine allait

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CRISTIANO CASTELLETTI: IN MEMORIAM

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de soi pour lui aussi bien que celle de l’histoire ancienne, de l’archéologie classique, de l’histoire des religions gréco-romaines, de la philosophie et des sciences antiques. Il était apte à produire des éditions critiques de difficiles textes grecs et latins, à interpréter les obscurs fragments d’un philosophe néoplatonicien ou des poèmes sophistiqués de l’époque hellénistique et ro-maine, à rédiger les entrées du Thesaurus Linguae Latinae et à éditer les co-dices de la Bibliothèque de Photius. Dans tout ce qu’il faisait, il travaillait avec le sérieux et la rigueur requise dans les disciplines qu’il pratiquait. Il se laissait transporter d’enthousiasme pour ce qu’il faisait, ce qui le prédisposait au rôle de l’enseignant. Il voulait devenir professeur d’université et il l’aurait mérité.

Ses amis le pleurent en conservant le fidèle souvenir d’un brillant érudit et d’un cher ami.

S·T·T·L Abstract: Obituary of Cristiano Castelletti (1971–2017). Born in Locarno where he

enrolled in Greek and Latin classes at the Liceo cantonale, Castelletti graduated in 1995 from the University of Fribourg with a MA thesis on the Letter 187 of Photius. In 2005, he received the title of Dr. phil. with a remarkable thesis on the fragments of Porphyry’s lost treatise De Styge (Porfirio, Sullo Stige, Introduzione, traduzione, note e apparati, Milano 2005). He then turned to the study of literary techniques in Latin epic poetry, particularly the use of technopaignia, which was inherited from Hellenistic au-thors such as Aratus and Apollonius. He published papers on Virgil, Propertius, Va-lerius Flaccus, and Statius. His most spectacular discovery in this field was Virgil’s sig-nature as a boustrophedon acrostic in the four first verses of the Aeneis. In 2016, Ca-stelletti successfully defended his habilitation thesis at the University of Fribourg on Valerius Flaccus, Argonautica, book VIII. This work includes an introduction (with an original interpretation of the poem as a whole), a new critical edition, translation, and an extremely valuable commentary. It has sadly been left unpublished.

FILIP KARFÍK

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NOTE DI LETTURA

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«Commentaria Classica» 5, 2018, 103-115. ISSN 2283-5652 ISBN 9788894227154

Clavigero nostro, per Antonio V. Nazzaro, a cura di Roberto Palla, Maria Grazia Moroni, Carmelo Crimi, Antonino Dessì, ...et alia. Studi di filologia classica e tardoantica, 4, Collana diretta da R. Palla, Pisa, Edizioni ETS, 2014, pp. 334, ISBN 9788846741639.

Il volume è un omaggio al Prof. Antonio Vincenzo Nazzaro, emerito di

Letteratura Cristiana Antica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, nonché Socio di prestigiose Accademie e Associazioni quali ‒ solo per ci-tarne alcune ‒ l’Accademia Pontaniana, l’Accademia Ambrosiana, l’Accade-mia Nazionale dei Lincei. Si tratta di una raccolta di studi scaturiti da semina-ri svoltisi, spesso anche con la partecipazione dello stesso Nazzaro, nell’ambito Dottorato di ricerca in Poesia e cultura greca e latina in età tar-doantica e medievale presso l’Università di Macerata e a Lui offerti in occa-sione del Suo settantacinquesimo compleanno. Nella breve ma efficace prolu-sione (p. 7) il direttore della collana che ospita il volume, il Prof. Roberto Pal-la, al tempo stesso curatore della pubblicazione insieme ai Proff. Moroni, Crimi, Dessì, rievoca con gratitudine le lezioni tenute dal Nazzaro nell’ambito del suddetto dottorato ed esprime all’omaggiato parole di affettuosa stima e amicizia, corredandole di eleganti versi in latino da lui stesso composti.

Dei diciannove contributi che compongono il testo uno è a firma di A. V. Nazzaro (pp. 221-236); gli altri diciotto appartengono tutti alla stessa provin-cia di studi cristianistici di interesse del dedicatario, che nel corso della sua lunghissima carriera ha spaziato nelle tematiche più disparate della produzio-ne cristiana antica e oltre.

Approfondiscono l’opera e la tradizione manoscritta di Gregorio Nazian-zeno i contributi di M. G. Bianco, C. Crimi e M. G. Moroni. Il primo saggio dedicato all’argomento (e anche il primo del volume) è quello di M. G. Bian-co, Gregorio Nazianzeno carm. II,1,1: Bibbia, autobiografia, annuncio del mes-saggio cristiano, pp. 11-43, che esamina la presenza e l’impiego dei testi scrit-turali nel carme autobiografico Περὶ τῶν καθ’ ἑαυτόν di Gregorio Nazianze-no. In questa narrazione in versi si coglie il riferimento strettissimo degli epi-sodi della vita di Gregorio a pagine della Sacra Scrittura inerenti alla preghie-ra, intesa come chiave d’interpretazione dell’esistenza del vero cristiano. Se-gue l’esposizione dettagliata dell’articolazione del carme, in cui si evidenziano in maniera perspicua riferimenti a personaggi e situazioni sia dell’Antico Te-stamento, sia del Nuovo. Dall’analisi emerge l’idea che informa tutto il com-ponimento: nel ripercorrere gli eventi personali (anche i più luttuosi e penosi) e scoprirne il senso profondo, non sia l’Autore a leggere la Scrittura, ma la Scrittura stessa a prolungarsi nel tempo e ‘leggere’ la sua stessa vita. Gregorio nell’intento, insomma, di collegare Sacra Scrittura, vita, fede e preghiera, si sforza di attualizzare la preghiera biblica quale rimedio e risposta di vera spe-ranza all’infelicità e all’inadeguatezza dell’uomo di fronte al negativo ango-

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sciante della sua condizione. Oggetto del lavoro di C. Crimi, Nazianzenica XXI. L’edizione postuma di Stefano Antonio Morcelli del Carme I, 2, 33, pp. 73-83, è l’edizione postuma di S. A. Morcelli (1826) del Tirocinium graecarum litterarum sive Gregorii Nazianzeni Tetrasticha et interpretationes scholiastae veteris, che offre al lettore un’edizione del carme I, 2, 33 di Gregorio Nazian-zeno (si tratta di Tetrasticha gnomici corredati dalle rispettive interpretazio-ni). Nella parte introduttiva l’Autore traccia la genesi e le complesse vicende editoriali del volume, che dipende da un codicetto autografo del Morcelli, de-nominato Clarensis da Chiari, sua città natale (si tratta in effetti della bella co-pia del testo destinato alla pubblicazione, completa in tutte le sue parti, con un’introduzione, la traduzione latina dei testi greci e ampie note a piè di pagi-na). Segue una breve biografia di Morcelli (1737-1821), gesuita e professore di lingue classiche, ma anche bibliotecario e custode, dopo lo scioglimento della Compagnia di Gesù nel 1773, delle collezioni romane del cardinale Albani, con particolare riferimento ai suoi grandi meriti di antiquario, epigrafista, fi-lologo e collezionista di testi antichi. Dopo aver sottolineato il valore e l’ampiezza dei lavori del Morcelli, a dispetto del carattere prevalentemente antiquario delle sue ricerche, il Crimi presenta un’attenta analisi filologica dei codici testimoni del carme 1,2,33, e, tra questi, ipotizza l’individuazione del codex Albanus quale modello studiato e utilizzato dal Morcelli per l’editio ma-noscritta. Ancora sull’opera del Cappadoce è il lavoro di M. G. Moroni, Con-tro chi denigra gli asceti (Greg. Naz. epigr. 21-23), pp. 207-219. Sullo sfondo delle forti critiche rivolte al monachesimo tra fine IV e inizi V secolo, sia da parte pagana che cristiana, seppure con motivazioni diverse, l’Autrice intende esaminare la posizione di Gregorio Nazianzeno, che nella sua significativa adesione all’ascetismo non fu esente da simili censure. Negli epigrammi 21-23, più che a rispondere a quelli che vengono ritenuti poco più che pettego-lezzi, il Teologo cappadoce è interessato a difendere le pratiche di vita ascetica non rinunciando, tuttavia, a stigmatizzare quei comportamenti che tali dicerie alimentavano. Al di là di ogni esercizio letterario, Gregorio mira a una con-creta pedagogia ‘pastorale’, fatta di ammonimenti di morale pratica volti a creare un differente modo di concepire il monachesimo. L’attenta analisi dei vari componimenti condotta dall’A. pone particolare attenzione alle motiva-zioni esegetiche e scritturali cui Gregorio ricorre per difendere da accuse in-giuste coloro che, nel suo tempo, aspiravano alla purezza e alla perfezione.

La produzione letteraria in lingua greca costituisce ancora l’oggetto dei prossimi due contributi che qui presentiamo. C. Burini De Lorenzi, «In prin-cipio»: la menzogna di Esiodo, la verità di Mosè (Theophil. Ant. Autol. 2, 4-10), pp. 23-43, concentra l’attenzione sui capitoli 4-10 del II libro dell’Ad Autoly-cum del vescovo di Antiochia Teofilo, per il particolare contributo che essi forniscono alla disputa apologetica di II secolo, relativa al tema dell’origine del mondo e della falsità delle dottrine pagane. L’aspetto messo a fuoco dalla

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Studiosa è, in questo caso, la puntuale confutazione, non priva di distorsioni e forzature interpretative, che Teofilo opera del racconto cosmogonico di Esio-do nella Teogonia (vv. 116-133). Teofilo, infatti, andando ben oltre la lettera del testo esiodeo, accusa il poeta di Ascra di aver teorizzato una materia pri-mordiale, senza saper identificare un principio creatore della stessa e ammet-tere che questo sia Dio. La discussione di Teofilo procede a illustrare i princi-pi costitutivi della sua visione protologica: la creazione dal nulla e la teorizza-zione (di origine presumibilmente giudeo-cristiana siriaca) del Logos come ἀρχή. Ancor più della dimostrazione che Dio crea dal nulla, appare interes-sante all’Autrice il postulato ‘teo-logico’ che, per la prima volta, definisce il Logos divino come ‘immanente’, innato e inseparabile da Dio stesso che lo ha generato ed emanato prima di ogni altra cosa; non principio temporale, quan-to diretto esecutore della volontà creatrice. In forte polemica con la mentalità pagana del destinatario del suo scritto, Teofilo, con il costante richiamo alla verità della Scrittura e la recisa negazione del Caos come principio, smaschera e ridicolizza gli autori profani, che avendo creduto nel nulla come origine del-la realtà, nulla raccontano. Il lavoro di M. P. Ciccarese, Didimo e i cedri del Libano. Ambivalenza simbolica di una pianta biblica, pp. 45-63, è incentrato sull’analisi di un passo di un singolare documento papiraceo, rinvenuto a Tu-ra (presso Alessandria d’Egitto) negli anni ’40, che conserva la trascrizione di alcuni cicli di lezioni di esegesi biblica tenute da Didimo il Cieco, corredate da annotazioni che riportano le domande, da parte di allievi forse particolar-mente interessati o zelanti, di spiegazione e chiarimento su alcuni passi scrit-turali esaminati. L’Autrice a proposito del Salmo 36 (vv. 35-36a, secondo il testo dei Settanta) si sofferma sulla curiosità interpretativa che in un anonimo discepolo suscita il riferimento ai ‘cedri del Libano’, cui il Salmista paragona gli empi e i superbi che Dio promette di punire, a dispetto della loro prosperi-tà. La risposta di Didimo, apparentemente semplice (i cedri, data la loro straordinaria altezza, sono evidente allegoria della superbia umana), suscita il bisogno di maggiori riflessioni a causa di una postilla: «ci sono cedri da loda-re», a cui il Maestro non fa seguire ulteriore discussione. Questo importante elemento fa supporre un chiaro rimando, seppure per preterizione, da parte di Didimo, al principio dell’ambivalenza simbolica antitetica (possibilità di attribuire al simbolo un doppio senso, sia positivo che negativo), stabilmente acquisito dalla scuola alessandrina da Origene in poi. Ed è sul chiarimento di tale principio che si snoda l’analisi della Ciccarese, volta a dimostrare come per impulso metodologico tutto origeniano si sviluppi sempre più cosciente-mente un’interpretazione spirituale dei testi biblici, mediante l’allegoria; il ce-dro (come e più di molti altri elementi vegetali e animali dell’immaginario biblico) risulta, pertanto, uno dei principali termini-chiave su cui, alla luce delle numerosissime citazioni riportate, si esercita il criterio esegetico delle oppositae qualitates, punto nodale, questo, di una tradizione di lettura, analisi

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e commento dei testi sacri (ormai consolidatasi nel IV secolo) fin troppo chiara per Didimo e i suoi allievi, ma ancora oscura e lacunosa per noi con-temporanei.

Particolarmente interessante è la serie di contributi (tre) dedicati alla poe-sia cristiana in lingua latina.

I lavori di M. Corsano, Un maestro ed i suoi allievi: l’inno IX del Periste-phanon di Prudenzio, pp. 65-71 e G. Flammini, La Praefatio esametrica del-l’Apotheosis di Prudenzio, pp. 85-109, indagano le tematiche e i caratteri della poesia prudenziana. Il primo (di M. Corsano) mira a una più approfondita interpretazione del racconto prudenziano del martirio di Cassiano di Imola, argomento dell’Inno IX del Peristephanon. La cornice narrativa (il pellegri-naggio di Prudenzio, durante un viaggio dalle circostanze non note, alla tom-ba del Martire presso Imola, e la visione di una pittura che ne illustra il marti-rio) introduce alla raccapricciante visione di un maestro cristiano ucciso dai suoi stessi alunni, con sadica perfidia, a colpi di stilo. Poiché la reazione alla severità e alla durezza del docente ‒ peraltro ammessa dalla mentalità del tempo ‒ accolta dalla narrazione di Prudenzio come unico movente al gesto delittuoso degli alunni appare all’Autrice insufficiente, si impone la necessità di analizzare più a fondo le modalità del martirio. Dopo un’attenta individua-zione delle fonti storiche latine (Livio, Seneca, Svetonio), che, opportunamen-te risemantizzate in senso cristiano, possono aver costituito il modello per la vicenda riportata dal poeta spagnolo, l’A. pone in evidenza il complesso tema del conflitto ideologico tra sistema educativo romano (e in generale della cul-tura pagana) e contenuti cristiani veicolati nelle scuole romane da maestri e studenti della nuova fede, fino all’aperta persecuzione. Il martirio di Cassiano va letto, pertanto, come esplicito rifiuto della sua cultura cristiana e degli in-segnamenti probabilmente veicolati ai suoi alunni. A conclusione del suo in-tervento l’Autrice formula delle ipotesi sulla costituzione e sull’evoluzione de-gli elementi distintivi del racconto martiriale recepito e valorizzato da Pru-denzio. Il secondo (di G. Flammini) prende in esame il breve carme esame-trico intitolato Hymnus de Trinitate, che costituisce uno dei due componi-menti prefatori all’Apotheosis. Nell’introduzione al lavoro, Flammini rimarca la presenza, nella disposizione degli scritti poetici prudenziani curata dal Poe-ta stesso attorno al 407, di un preciso disegno evolutivo: dalla Praefatio all’Epilogus, accanto a una continua sperimentazione metrica, si nota, secon-do un’opinione largamente condivisa dagli specialisti, un vero e proprio mu-tamento nella concezione della poesia epico-didascalica. Dopo aver ricordato i principî di rigorosa simmetria interna che regolano i poemi esametrici pru-denziani, Flammini riassume la questione dell’autenticità sollevata, a volte ipercriticamente, da alcuni editori (antichi o recenti) e riafferma nettamente, su basi codicologiche, ma soprattutto stilistiche e di contenuto, la paternità prudenziana. Segue, infine, il puntualissimo commento del carme, che si con-

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figura come la prima importante riduzione in esametri delle formule trinita-rie espresse dal Concilio di Nicea, fondamentale testimonianza delle posizioni teologiche maturate in Occidente negli ultimi decenni del IV secolo.

L’accurato articolo di P. Santorelli, Erode e Pilato nella riscrittura esame-trica di Giovenco (3, 33-69 e 4, 588-625), pp. 299-319, analizza, attraverso due esempi rappresentativi, le modalità della parafrasi esametrica del testo evan-gelico operata da Giovenco. All’aderenza rigorosa al testo sacro nelle parti teologiche si contrappone una maggiore libertà nelle parti descrittive; la ten-denza ad amplificazioni, aggiunte, semplificazioni e omissioni si rivela il trat-to distintivo della scrittura del Poeta. Il primo dei brani presi in considerazio-ne dall’Autrice è il celebre episodio della morte del Battista, vittima delle tor-bide vicende passionali che coinvolgono Erode, Erodiade e Salomè (Iuvenc. 3,33-69 ⁓ Matth. 14,1-12). Oltre alle informazioni essenziali alla storia, si no-ta l’aggiunta di particolari finalizzati a un approfondimento psicologico dei personaggi che ne renda più forte la caratterizzazione. L’effetto degli espe-dienti retorici utilizzati è quello di evidenziare la netta contrapposizione fra la virtù/innocenza incarnata da Giovanni, e la bestialità/scelleratezza dei suoi antagonisti. V’è, inoltre, l’indulgere a particolari patetici o cruenti, che atte-stano una costante ricerca di color da parte dell’autore. Particolarmente pre-sente risulta, infine, la raffinata imitatio degli autori classici (Ovidio e Virgilio in prevalenza). Il secondo episodio, poi, è quello della consegna del Cristo a Pilato e la sofferta decisione di quest'ultimo (Iuvenc. 4,588-625 ⁓ Matth. 27,2 e 27,11-26). Pilato è un personaggio controverso e non omogeneamente de-scritto dagli altri evangelisti: a differenza degli altri, Matteo introduce il ruolo della moglie del governatore (che consiglia il marito a non avere a che fare con ‘quel giusto’) e della lavanda delle mani, a sottolineare le inquietudini e l’ambiguità che accompagnano Pilato nel rendersi responsabile della condan-na di Gesù. Il trattamento retorico assai particolare del personaggio Pilato in Giovenco, che sembrerebbe riabilitarne la figura o, quanto meno, attenuarne le responsabilità, solleva la questione del presunto antigiudaismo militante (sostenuto in modo alquanto forzato dal Poinsotte) quale tratto dominante dell’attività letteraria del poeta. Pur rifiutando posizioni estremiste, l’Autrice non nega la presenza, nel IV secolo, di un diffuso sentimento antisemita cri-stiano che, nei suoi stereotipi, prolunga e porta a compimento quello pagano. Inoltre l’inequivocabile atteggiamento assolutorio nei confronti non solo di Pilato, ma anche dei soldati romani evidenzia, per contrasto, il ruolo perverso dei proceres (sommi sacerdoti e anziani) nell’aizzare l’odio del tumultuoso popolo ebraico, vero protagonista di tutto l’episodio; l’accumulazione di ter-mini, assieme all’utilizzo di molti altri mezzi espressivi, non lascia dubbi sulla valutazione finale di questa folla, vero colpevole della condanna di Gesù, ma-novrata inconsapevolmente, eppure cosciente, addirittura orgogliosa, del proprio errore. In conclusione, la narrazione di Giovenco, fedele al testo

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evangelico e trasparente nelle sue tecniche di parafrasi, non può essere degra-data a forma di versificazione pedissequa, ma costituisce una rielaborazione attenta ai particolari storici e dottrinali, con elaborato e approfondito ricorso ai modelli classici.

Indaga la tradizione manoscritta della Vita Fulgentii il saggio di A. Isola, Parisinus Latinus 3788 (saec. XII): un testimone problematico della Vita Ful-gentii, pp. 111-120. L’Autore evidenzia, nei cinquantadue codici che ci hanno tramandato la Vita Fulgentii, le peculiarità del Parisinus Latinus 3788 (sec. XII). Dall’interessante e dettagliato esame filologico di numerosi passi emerge la singolare presenza di omissioni e alterazioni testuali rispetto alle copie più complete; emerge, pertanto l’attività di un revisore che mira fondamental-mente a due scopi: 1) decantare il racconto da particolari che distraggano il lettore dai momenti ritenuti edificanti ed esemplari della vita del santo; 2) semplificare l’aspetto linguistico, con non poche vistose deroghe alle ‘regole’ della sintassi latina, per andare incontro alle esigenze di un certo numero di lettori non abituati ai testi scritti.

L’esegesi patristica di un episodio biblico è oggetto del lavoro di C. Ma-gazzù, La parabola della dracma perduta (Luc. 15, 8-10) nell’esegesi patristica: da Ireneo di Lione a Verecondo di Junca, pp. 121-129: nell’ambito delle cosid-dette ‘parabole della misericordia’ del Vangelo di Luca (15,3-32), quella della dracma perduta non è stata oggetto di studi specifici dal punto di vista della storia dell’esegesi patristica, in quanto spesso collegata a quella della pecorella smarrita e del figliuol prodigo, così come emerge da un saggio di P. Siniscalco (1972). Ed è proprio sulla scorta di questo studio che il Magazzù ripercorre in breve l’interpretazione della parabola dei primi tre secoli della cristianità estendendola alla Tarda Antichità. Partendo dai Valentiniani, l’Autore passa a Ireneo e a Tertulliano, che nel De paenitentia sostiene che le tre parabole siano testimonianza dell’azione misericordiosa di Dio nei riguardi del pecca-tore convertito; prosegue esaminando l’esegesi del passo evangelico nel tratta-to anonimo De pudicitia e nelle Homeliae in Genesim di Origene, nelle quali la dracma diviene simbolo dell’immagine di Dio indelebilmente impressa nell’interiorità dell’uomo. Nello stringato commento di Ambrogio (in Luc. 15,1-32) la parabola alluderebbe al ‘triplice rimedio’ offerto all’uomo per ri-scattarsi dal peccato e ottenere il perdono misericordioso: Dio Padre (la mise-ricordia), Cristo (assunzione su di sé dei peccati del mondo), la Chiesa (l’intercessione che porta alla riconciliazione definitiva col Padre); Girolamo, invece, in diversi luoghi si sofferma soltanto sul significato della gioia con cui le vicine condividono con la donna il ritrovamento della moneta, chiara allu-sione alla contentezza che non solo Dio, ma anche gli uomini provano per la salvezza di un’anima che si credeva oramai perduta. In Agostino (Enarratio-nes in Psalmos) compare l’interpretazione più particolareggiata: la parabola è messa in parallelo con il Salmo 138, in cui il contrasto allegorico fra la tenebra

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e la luce è allusione al buio della perdizione che viene illuminato dall’incarna-zione del Cristo. Conclude la rassegna l’interpretazione in chiave cristologica che Verecondo di Junca (fine V- inizi VI secolo) ripropone (nei Commentarii super Cantica Ecclesiastica) nella scia di Agostino. Il filo conduttore di tutte le esegesi (da Origene in poi) appare, pertanto, la cruciale vicenda del rapporto uomo/Cristo, il primo creato a immagine e somiglianza di Dio, il Secondo che lo salva nel momento in cui egli (con la caduta del peccato) si allontana dal suo Creatore.

L’esegesi di figure bibliche nel Nolano costituisce l’oggetto dell’approfon-dito lavoro di T. Piscitelli, La donna peccatrice (Luc. 7, 37-50) e la Maddalena (Ioh. 20, 17): due modelli in Paolino di Nola di conoscenza del Cristo nella fede, pp. 279-297. Le riflessioni proposte dalla Studiosa affrontano un tema fon-damentale nell’esegesi di Paolino di Nola: la conoscenza del Cristo, dal con-tatto fisico col Cristo-uomo a quello per fede col Cristo-Dio. La speculazione teologica presente nell’epistola 23 (rivolta a Sulpicio Severo), accuratamente analizzata nel presente contributo, è incentrata sugli episodi evangelici assai speculari della donna peccatrice (Luc. 7,37-50) e della Maddalena (Ioh. 20,17). L’ampio excursus esegetico muove dalla metafora del Cristo ‘rasoio’ spirituale che libera gli animi dalle brutture del peccato come da una super-flua e orribile chioma; uniche eccezioni, in un complesso gioco di richiami biblici, sono la chioma dei Nazirei (laddove i folti capelli sono simbolo di consacrazione a Dio) e delle donne in stato di grazia (per le quali essi simbo-leggiano i vari atti di pietà). Segue l’esortazione al suo destinatario a essere, quindi, ‘chioma di Cristo’, vivendo una vita di santità in vista del giudizio fi-nale (in cui i capelli sono metaforicamente i meriti acquisiti agli occhi di Dio). Successivamente l’immagine dei meriti-capelli è connessa da Paolino al per-sonaggio femminile del racconto evangelico (ora anonimo, ora identificato con Maria di Magdala) che con le sue lunghe chiome asciuga dalle lacrime versate e unge con olio profumato, ora i piedi, ora il capo del Cristo, e che viene interpretata quale esempio di fede e simbolo della Chiesa. Riprendendo un’esegesi già presente in Ambrogio (in Luc.) e, ancora prima in Origene e Agostino, Paolino fonde volutamente i diversi racconti e intravede, nelle va-rianti dello stesso episodio, l'allusione ai due successivi stadi di perfeziona-mento della Chiesa e dell'anima, nel loro progressivo allontanarsi dal peccato e unirsi finalmente a Dio (secondo la valenza simbolica dell'essere la protago-nista più o meno vicina al capo o ai piedi del Signore). Nella parte conclusiva dell’articolo viene analizzata, nelle sue molteplici implicazioni e connessioni intertestuali, l’interesse del Nolano per la questione esegetica (e assai cara alla tradizione patristica) della pluralità delle Maddalene nella narrazione evange-lica. In sostanziale accordo con le posizioni degli altri teologi, risulta evidente la tendenza di Paolino a interpretare il ruolo delle diverse figure femminili e del loro rapporto col Cristo nel senso di un avvicinamento del credente, sia

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come individuo sia come comunità ecclesiale, alla verità divina, in un pro-gressivo distacco dal livello fisico, imperfetto perché condizionato da una co-noscenza terrena e carnale, per attingere a quello spirituale, perfetto e reso possibile dal dono della fede.

Affronta la tematica dei Vangeli apocrifi G. Marconi, Gioacchino, ovvero l’aura biblica della tradizione giudeo-cristiana nel Protovangelo di Giacomo, pp. 131-146. Il Protovangelo di Giacomo costituisce, nell’assunto di G. Marco-ni, un evidente tentativo di mediazione, in un rapporto di suggestiva conti-nuità, che il cristianesimo giudaico opera con le sue antiche radici. Per questi motivi l’Autore mostra particolare interesse nel ricercare, in special modo nel primo capitolo, la fitta serie di rinvii, echi, allusioni, citazioni che vanno a co-stituire, nel continuo riferimento veterotestamentario, la trama e l’intreccio in cui si articola questo vangelo apocrifo. Segue, quindi, l’approfondita analisi dei principali elementi narratologici: il personaggio di Gioacchino, la cui fi-sionomia e l’agire rituale lo accostano, nella sua particolare condizione, alle figure più significative degli antichi patriarchi; la vicenda, che rimanda il let-tore attento a questa doppia lettura (storia di Gioacchino/storia salvifica del popolo di Israele) ai prodromi di eventi manifestatisi già altre volte nel rac-conto biblico e lo prepara all’inevitabile conclusione del giusto premiato per la sua bontà dalla benevolenza divina; i trascorsi che motivano, con palesi ri-ferimenti ad Abramo e agli altri ‘grandi’ condottieri ebrei, il riscatto del pro-tagonista dalla sua umiliazione, dalla solitudine e dal dolore; l’esperienza ‘to-pica’ del deserto che diventa per Gioacchino (come già per i suoi ‘archetipi’ scritturali, ma anche per i giudeo-cristiani) il terreno privilegiato dell’in-contro con Dio. Nel congedo finale la storia di Gioacchino (e con lui quella di Anna) appare, in definitiva, una ‘pagina’ di transizione di tutto il libro di Israele, che (nel pieno riutilizzo della sua ‘grammatica’ tradizionale) amplia il racconto salvifico dell’Antico Testamento, non anticipando troppo quello del Nuovo.

Attento alla presenza degli autori classici in Agostino e all’originale esito del connubio tra classico e cristiano è l’interessante lavoro di M. Marin, Ago-stino lettore di Virgilio: memoria, riuso e contestazione, pp. 147-179. Conside-rata la profonda influenza di Virgilio nella formazione umana e culturale di Agostino, Marin ripercorre le più significative testimonianze virgiliane nell’opera dell’Ipponense, il quale evidenzia il suo perenne oscillare fra com-portamenti ora di venerazione incondizionata per le idee e i valori espressi dal Mantovano, ora di aperta contestazione. Nel primo libro delle Confessioni, ad esempio, è rievocata dal Santo l’esperienza giovanile della lettura dell’Eneide: gratificante se messa a confronto con l’apprendimento dei primi rudimenti scolastici; angosciante per la consapevolezza di essersi distolto dall’amore per Dio per inseguire le passioni fittizie del poema. Nel De doctrina christiana e nel De ordine, per Agostino, in polemica con le vuote questioni grammaticali

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(tutte inerenti al testo virgiliano) della scuola tradizionale, entra definitiva-mente in crisi il valore esemplare della letteratura antica, di cui appare sempre più manifesta la falsità e la lontananza dalla verità divina. Sempre a proposito del contrasto fra i due orientamenti (celebrativo e critico), nel De civitate Dei si registra la presenza ora di allusioni ‘neutre’ a Virgilio, ora di manifesti elogi al personaggio quale autentico maestro di poesia e, soprattutto, di lingua e stile. Ma ancora più diffuso appare l’utilizzo dei testi virgiliani nell’esegesi bi-blica e nell’omiletica agostiniane. In esse il ricorso alle citazioni virgiliane si esprime in analisi acute e dettagliate nelle quali, se a più riprese si apprezzano la tecnica poetica, la raffinatezza psicologica e la doctrina del Mantovano, si prendono tuttavia le distanze dai contenuti su cui Agostino esercita, più che in altri scritti, il suo impegno apologetico e polemico (dalla critica al politei-smo idolatra e immorale dei romani, alla condanna dell’eccessiva fiducia nell’uomo). Non manca, però, di ammettere una certa capacità profetica di Virgilio, laddove l’interpretazione cristiana della IV Bucolica possa assumere maggiore forza di persuasione nei confronti dei suoi coltissimi interlocutori pagani.

Il contributo successivo di C. Micaelli, Osservazioni sul De statu animae di Claudiano Mamerto, pp. 181-206, approfondisce alcuni aspetti, apparente-mente secondari, del trattato De statu animae di Claudiano Mamerto; per quanto non correlati al tema di fondo dell’incorporeità dell’anima, essi ap-paiono comunque importanti per chiarire la cultura filosofica e teologica dell’Autore. Dopo aver analizzato le modalità assai dure e tendenziose con le quali Mamerto confuta le tesi cristologiche di Fausto di Riez, lo Studioso si sofferma sugli aspetti non poco complessi con cui è elaborata e discussa la tesi della necessità della creazione della sostanza incorporea da parte di Dio. No-tevole è l’utilizzo di citazioni patristiche (Gregorio Nazianzeno, Ambrogio, Ilario di Poitiers, Eucherio di Lione e soprattutto Agostino) a supporto della tesi dell’incorporeità dell’anima. In particolare, l’Autore è interessato a sotto-linearne le singolari divergenze dal pensiero agostiniano in materia ontologi-ca: ad esempio, la puntigliosa discettazione di tipo grammaticale (sulla pro-prietà dei nomi) che occupa la parte conclusiva del trattato fa sentire la lonta-nanza di Claudiano dalla duttilità del pensiero agostiniano. Infine, nonostante la ‘diffidenza’ di alcuni autori medievali per tali rigidità argomentative, è di-mostrabile la fortuna del De statu animae nella Scolastica come in opere di diverso genere, fino a essere indicato come una delle fonti ispiratrici del pen-siero di Cartesio. Tutti questi elementi, al di là di alcuni evidenti eccessi po-lemici o di capziosità, contribuiscono senz’altro a delineare l’originalità e la vitalità di un personaggio assai significativo del mondo tardoantico.

Di notevole spessore è il saggio di A. V. Nazzaro, dal titolo I convicia di Giuliano d’Eclano ad Agostino nella controversia pelagiana, pp. 221-236. Alla luce della definizione di ‘controversia’ suggerita da M. Dascal quale genere

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della polemica con caratteristiche proprie e ben distinte dalla ‘discussione’ e dalla ‘disputa’, il contributo del Nazzaro mira a chiarire l’utilizzo significativo degli insulti rivolti da Giuliano, vescovo d’Eclano, contro Agostino. Il testo in questione è senza dubbio una controversia, ‒ ricostruibile peraltro solo attra-verso le citazioni agostiniane e di altri autori ‒ sorta nell’ambito cristiano fra ortodossia ed eterodossia. Giuliano, che ha piena coscienza del valore retorico di questa contesa, non lesina violenza polemica nei convicia rivolti all’avver-sario. La causa è l’appassionata difesa d’appello (contro giudici ritenuti in-competenti) delle posizioni pelagiane (notoriamente contestate dall’Ippo-nense), e la sua strategia, a quanto si può dedurre dai vari testimoni, è incalza-re il Vescovo di Ippona con l’uso più spietato delle armi della retorica per far-lo cadere in contraddizione e svelarne la netta propensione al manicheismo. Dalla lettura dell’Ad Turbantium e dell’Ad Florum si delinea una galleria di offese piuttosto variegata: il feroce disprezzo delle origini ‘puniche’ o ‘numi-diche’ di Agostino (con tutti i luoghi comuni sulla crudeltà, empietà e slealtà dei popoli nordafricani, ereditati dalla tradizione storiografica romana); il cu-rioso paragone della dottrina agostiniana sul matrimonio prima del peccato a una cimice (fastidiosa da viva, puzzolente se schiacciata); l’esalare da Agosti-no di miasmi pestilenziali più della valle d’Ansanto e del lago d’Averno. Tut-tavia l’insulto più enigmatico consiste nel paragonare l’avversario al farmaci-sta che promette la bestia che divora se stessa (offensivo commento all’ambi-valente affermazione agostiniana che il matrimonio è, nel contempo, un gran bene e un gran male). L’apparente oscurità dell’affermazione di Giuliano si spiega come dotto richiamo alla polemica contro i mezzi e i fini ‘autodistrut-tivi’ della dialettica nel perduto Hortensius ciceroniano, rappresentata in alcu-ne testimonianze proprio come bestia autofaga; a parte il riferimento al far-macista (che manca nelle citazioni relative al trattato ciceroniano) sorgono problemi interpretativi circa l’identità dell’animale: escludendo il polpo, lo scorpione e la vipera, proposti da alcuni studiosi, Nazzaro propende, sulla ba-se di una serie di acute e motivate ragioni ermeneutiche, per la sanguisuga, l’animale che, allevato, appunto, dal pharmacopola (sorta di guaritore, imbo-nitore e ciarlatano) a scopo terapeutico, finisce inevitabilmente per morire del sangue ingerito, dopo aver svolto la sua funzione. Agostino, nel giudizio di Giuliano, usa come tecnica argomentativa la dialettica, che, come una sangui-suga, è destinata a distruggere se stessa a causa delle contraddizioni di cui scientemente si alimenta.

Correlata al lavoro del Nazzaro è la Postilla di D. De Gianni, dal titolo È la vipera la bestia che divora se stessa?, pp. 237-241. Pur concordando con il Nazzaro nel mettere in stretta relazione, in base ai rapporti intertestuali tra i frammenti dell’Hortensius e quelli dell’Ad Turbantium di Giuliano, la figura del pharmacopola (quantunque assente nel modello) con la bestia autofaga, il De Gianni, nel suo intervento a margine, propende a identificare quest’ultima

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con la vipera e non con la sanguisuga. Ammettendo la plausibilità del riferi-mento al pharmacopola quale ‘venditore / preparatore di farmaci’, ancora più credibile appare l’associazione con l’animale dal cui veleno si ricavava, già in passato, un antidoto naturale contro altri veleni e, in generale, un rimedio per numerose patologie (come risulta da Dioscoride, Plinio, Galeno, etc...); la vi-pera, inoltre, sembrerebbe soddisfare anche la caratteristica della bestia che “divora” se stessa, secondo alcune credenze popolari ma suffragate dalle fonti antiche (come la prole della vipera che viene al mondo dilaniando la madre o l’effetto del contatto dei serpenti con la saliva umana che provocherebbe nelle vipere un istinto autodistruttivo). Metaforicamente, quindi, la vipera che muore partorendo i suoi figli potrebbe rappresentare efficacemente le incon-gruenze del metodo dialettico rinfacciate da Giuliano ad Agostino: la dialetti-ca tende a contraddirsi e, pertanto, ad autodistruggersi nei suoi circoli viziosi.

Lo studio di R. Palla, Perché no? L’edizione di Jean de Gagny e il testo dell’Epigramma Paulini, pp. 243-259, ripercorre con grande acume la storia dell’editio princeps del componimento etichettato, a partire dall’edizione dello Schenkl del 1888 (CSEL 16,1, 499-510), con il titolo di Epigramma Paulini, che fu pubblicata nel 1536 dal teologo parigino Jean de Gagny. Le tre sezioni in cui si articola il volume sono dedicate rispettivamente agli scritti di Alcimo Avito; a quelli di Claudio Mario Vittorio (veri o presunti tali); a epigrammi composti dallo stesso de Gagny (pp. 255-259). Sulla base di pertinenti rilievi sull’edizione del de Gagny, Palla ipotizza che a un certo punto della tradizione manoscritta sia caduto il libro quarto dell’Alethia (andato perduto) contenen-te forse i capitoli 21-25 della Genesi e che l’inscriptio o la subscriptio di esso si sia saldata con il componimento che seguiva, cioè con il testo dell’Epigramma Paulini, dal de Gagny attribuito allo stesso Vittorio. Dopo più di tre secoli l’edizione critica di Schenkl fonda il testo critico dell’Alethia e dell’Epigramma Paulini sull’unico testimone manoscritto che ci è pervenuto: il Parisinus Lati-nus 7558. Le difformità presenti tra l’editio princeps e il Parisinus 7558 indu-cono Palla a mettere in discussione l’ipotesi dello Schenkl secondo la quale il de Gagny avrebbe utilizzato lo stesso Parisinus Latinus e avrebbe inventato l’esistenza di un codex Lugdunensis in cattivo stato per giustificare le sue ma-nipolazioni (aggiunte e correzioni) se non, come suggerisce il Fo, la sua impe-rizia nel decifrare il testo. Difficile credere che il de Gagny, uomo colto ed esperto nella sua attività di editore, abbia inventato la storia di un manoscritto corrotto e di difficile lettura, se così non fosse stato, e, soprattutto, difficile credere che non sia stato in grado di leggere il nitido testo del Parisinus lati-nus. Le affinità tra l’editio princeps e il testo manoscritto consentono al Palla di ipotizzare che i due testi derivino, indipendentemente l’uno dall’altro, da un esemplare perduto viziato da grossi problemi testuali dei quali è rimasta traccia in modo diverso nei testimoni giunti fino a noi.

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A. M. Piredda, Fidelis enim amicus medicamentum est vitae et inmortalita-tis gratia (Ambr. off. 3, 129), pp. 261-278, si propone di approfondire la tra-sformazione in senso cristiano del tema dell’amicizia nel De officiis di Ambro-gio, col suo netto distanziarsi dalle concezioni di Cicerone in materia e la sua delineazione dell’amicus fidelis come esempio di sacerdos cristiano. Rilevante è l’apporto scritturistico in modo particolare rappresentato dal testo del Sira-cide nella trasformazione del contenuto concettuale del dettato ciceroniano, in modo da costituire una personale visione cristiana dalle due matrici, classi-ca e pagana. Emerge, così, la centralità della fides, che passa dall’accezione classica (di lealtà, costanza negli affetti, sincerità totale, etc...) a quella piena-mente cristiana. Il contributo del testo biblico è pienamente rintracciabile nella concezione dell’amico come ‘medicina di vita e grazia di immortalità’, con forte slittamento dal piano etico a quello religioso: in piena continuità fra la scrittura sapienziale veterotestamentaria e la dottrina paolina, l’amore ami-cale è considerato viatico per l’immortalità. Il distanziarsi in maniera auto-noma dal pensiero pagano, è dimostrato anche dal valore che assume la cari-tas: nella sua forma più sublime, la vera caritas è solo quella cristiana, essenza stessa dell’amicizia, vissuta come fedeltà, rispetto, abnegazione, sussidiarietà, rapporto paritetico e correzione reciproca. Uguale trattamento di rielabora-zione cristiana è riservato ai concetti, di antica eredità pitagorica, dell’unus ex duobus e della benivolentia, che trovano preciso rispecchiamento nella defini-zione biblica dell’amico come ‘altro te stesso’; così anche il ruolo indispensa-bile dell’eusebeia nel vincolo amicale. Ciò che unisce gli amici è, appunto, il timore e l’amore per Dio, è Dio stesso; ancora dalla mediazione del Siracide proviene la concezione dell’amicizia come ‘farmaco’. La rivisitazione ambro-siana permette, poi, un agile passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento at-traverso il collegamento del valore della gratia sapienziale ebraica con quello della caritas di impianto paolino: si chiarisce, così, il passaggio degli uomini da ‘servi’ ad ‘amici’ del Cristo, proclamata nell’istituzione dell’Eucaristia (nel racconto evangelico di Giovanni), e cementato dalla coscienza di avere con Lui un’anima sola e dal desiderio di obbedire ai comandamenti di Dio. In quanto amico di Dio, il cristiano non può macchiarsi di perfidia: la mancanza di fides non è solo tradimento in senso morale, ma aberrazione dal giusto cre-do e compromissione del rapporto salvifico; insomma il Cristo è l’amicus fide-lis, farmaco nella vita e garanzia di immortalità; Egli è proposto da Ambrogio come modello di condotta per i sacerdoti e la sua amicizia testimonia un amore ‘oblativo’ (che, cioè, supera i limiti della natura perché potenziato dalla carità). Il senso di tutto il De officiis è il progetto di rifondazione dell’amicizia su basi bibliche, riscattata dai limiti, benché nobili, dell’etica pagana, nel suo mostrarsi come dono totale di sé, nella sequela di Cristo.

Conclude la serie di contributi K. Smolak, Osservazioni su uso ed abuso dei salmi cristologici nella letteratura latina attraverso i secoli, pp. 321-331, che,

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partendo dal liber Apotheosis, poema didascalico di Prudenzio scritto intorno al 400 d. C., si propone di dimostrare, attraverso un’attenta analisi lessicale e strutturale, come l’utilizzo e l’esegesi da parte del poeta spagnolo di alcune immagini ed espressioni-chiave dei Salmi 2,44 e 109 (ricombinati in vario modo e soprattutto in senso cristologico), arrivi a creare una sorta di ‘modulo’ persistente, tracciabile nella letteratura cristiana in lingua latina ben oltre il medioevo, fino alle soglie del ’700. L’utilizzo della riflessione prudenziana, in modo particolare quella relativa alla contestazione dell’eresia cosiddetta pa-tripassiana, è ipotizzata dallo Studioso in alcuni passi della Cosmographia di Bernardo Silvestre, teologo neoplatonizzante del XII secolo, massimo espo-nente della scuola di Chartres, e suffragata, del resto, dalle prove della cono-scenza delle opere prudenziane da parte degli autori del tempo (dai poemi su Roma di Ildeberto di Lavardin all’epopea messianica sulla prima crociata di Eupolemio). Per quanto in un contesto fortemente dissacrante, la stessa com-binazione di versi cristologici, è riscontrabile anche nell’anonimo carme 211, uno dei famosi Carmina Burana (testimonianza del fermento ideologico e culturale di rottura che matura in età tardomedievale nell’ambiente dei clerici vagantes), e, negli stessi anni, in un testo parodistico attribuito al poeta go-liardico gallese Walter Map. Infine, gli echi più tardi di questo modulo (nel tardo ’600) sarebbero ancora rintracciabili in alcuni versi del Iudicium Phoebi (un dramma satirico contro i poetucoli contemporanei) del benedettino sali-sburghese Simon Rettenbacher, benché condizionati ormai dalle restrizioni della Controriforma e, quindi, del tutto lontani dalla libertà e dalla vis polemi-ca medievali.

Il volume, denso di contenuti, ricco di spunti e contraddistinto da una ac-curata veste tipografica, rappresenta una fonte preziosa per la conoscenza e l’approfondimento delle molteplici tematiche affrontate dai contributi.

ISABELLA D’AURIA

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ISBN 9788894227154

ISSN 2283-5652